Russia, quo vadis?
"La Russia ha la fortuna di non appartenere ad alcuna alleanza: è la garanzia della nostra sovranità"
Vladimir Putin, 2014
Il ritrarsi dell’America dalla gestione delle crisi mondiali, prima con Obama e ora più marcatamente con Trump, priva l’assetto internazionale del pilastro che, bene o male, l’aveva retto in questo intero dopoguerra. Ne consegue una fase di transizione nell’incertezza, con diffusi effetti destabilizzanti, dei quali alcuni Stati ritengono di poter unilateralmente trarre vantaggio. Lo vediamo nel riproporsi di atteggiamenti nazionalisti, detti “sovranisti”, che ritenevamo definitivamente superati dagli eventi, in un mondo globalizzato, ora vulnerato dal virus, che dovrebbe richiedere maggiori dosi di convergenza e collaborazione, invece che rinnovati antagonismi.
Una situazione internazionale che, dopo la caduta del Muro, si è improvvisamente destrutturata, e nell’ambito della quale un’Europa dichiaratamente unita, geneticamente “multilaterale”, fa fatica a riappropriarsi del ruolo di fattrice della Storia che ha svolto per secoli. Un compito che non può tornare a svolgere, dopo decenni di condominio russo-americano sulle questioni continentali, se non in un rapporto funzionale con la Russia, che dell’Europa continua ad essere parte integrante, non soltanto come contraltare orientale. La tanto attesa “Politica estera e di sicurezza europea”, si sa, non può fare a meno della Russia. Ma le stesse ambizioni della Russia, va detto, non possono prescindere dell’Europa.
Ad oltre trent’anni dalla caduta del Muro ci si chiede sempre se la Russia possa diventare un interlocutore, o rimanga l’antagonista, di un’Europa che fatica a crescere come attore internazionale. I propositi di Mosca rimangono poco decifrabili, bloccati nel limbo di una mal definita collocazione strategica in quel che definisce “Eurasia”.
La Russia, si direbbe, aspira a tornare nell’Olimpo, piuttosto che nella stanza dei bottoni, dei “Grandi”. Uno status che l’Europa non è in grado di conferirle, mentre Stati Uniti (e Cina) possono riconoscerglielo soltanto qualora si dimostri disponibile ad assumersene le responsabilità. Il potere - i fatti lo dimostrano - non consiste più tanto nella potenza militare, quanto nella capacità di aggregare consenso nel fissare l’agenda internazionale. Funzioni che la Russia ha perso e non si preoccupa nemmeno più di esercitare, limitandosi sostanzialmente ad ostruire l’operato altrui, per quanto discutibile, invece di far valere le proprie ragioni in un rapporto dialettico con gli altri attori internazionali. La sua stessa forza di attrazione si è dispersa: nel sopravvenuto generale “ognun per sé” non riesce infatti a dotarsi che di occasionali, eterogenee coalizioni ad hoc.
Vero è che, con la presunta “fine della Storia”, l’Occidente ha fidato nella capacità del sistema internazionale di assestarsi spontaneamente. L’atteggiamento di un Gorbaciov fautore della ricostituzione di una casa comune europea, di un Eltsin accondiscendente, del primo Putin e infine di Medvedev nel breve periodo di presidenza concessogli, sembravano consentirlo. La lotta al terrorismo rappresentò d’altronde subito, per l’Est come per l’Ovest, il comune denominatore per una riesumazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite.
L’Atto Finale di Helsinki del 1975, istitutivo della CSCE, avrebbe potuto costituire l’incastellatura di nuovi rapporti di collaborazione paneuropei per la gestione delle tante sopravvenute “crisi di crescenza” continentali. Gorbaciov vi si riferì subito, facendosi promotore della Carta di Parigi per la Sicurezza europea. Mosca fu progressivamente accolta in tutti i gruppi ristretti costituiti per gestire la transizione, nei Balcani, in Medio Oriente, e persino, per iniziativa italiana, nel G8 e in un apposito Consiglio NATO-Russia. Mosca non ha però saputo (voluto?) parteciparvi attivamente, avvertendone le costrizioni piuttosto che le opportunità. Dissociandosene infatti poi ostentatamente, considerandole quali cavalli di Troia occidentali nelle proprie aree di preminente interesse.
Eppure Putin stesso aveva inizialmente ritenuto di poter affermare che “la Russia è un membro della famiglia europea, per spirito, storia e cultura… Non vedo alcuna area che non possa essere aperta ad una collaborazione strategica paritaria, basata su obiettivi e valori comuni; pur nel rispetto delle diversità storiche che contraddistinguono la civiltà europea”. Medvedev, impegnatosi in un progetto di modernizzazione nazionale, aggiunse che “la Russia e gli Stati Uniti possono offrire molto al mondo, mantenendo la nostra speciale responsabilità nella conduzione degli affari mondiali”. La proposta di Obama di “resettare” i rapporti bilaterali, nonostante l’intervento russo in Georgia, non ebbe però alcun seguito, travolta come fu dall’improvviso cambio di rotta intrapreso con il ritorno di Putin al Cremlino, deciso ad affermare unilateralmente le ragioni della Russia tanto in Ucraina e Crimea, quanto in Siria, e ora in Libia, persino in Africa.
Un comportamento che prescinde dalle norme internazionali ma che, va sottolineato, non ha provocato la reazione della tanto temuta NATO, pur determinando l’estromissione di Mosca dal G8 e l’applicazione di un regime di sanzioni, ineccepibile ai sensi del diritto internazionale anche se controverso su quello dell’opportunità politica. La cui efficacia dipende però dalla disponibilità della controparte ad accettarne il significato. La partecipazione russa a tante riunioni internazionali non ne è stata menomata. Ma Mosca, diversamente da Pechino, non pare volersene avvalere. Il che contraddice la sua ambizione di ritrovare un ruolo determinante nella trattazione delle questioni mondiali.
Una reattività di cui non si ha per ora alcuna traccia, in un governo che non pare curarsi dell’utilità di un più preciso disegno strategico che possa raccogliere più ampie adesioni; che prescinde dal coinvolgimento dell’ONU, formando invece di volta in volta delle eterogenee coalizioni “di comodo”, con la Turchia e l’Iran, l’Egitto e l’Arabia Saudita. (Mentre la Cina prosegue imperterrita per la propria strada… in Asia Centrale, in Africa, in America Latina). Un comportamento dispersivo, che Mosca definisce “multi-vettoriale”, ma che appare disordinatamente tattico, privandola di alleati, quanto meno di compagni di strada. Nel proprio “ventre molle” meridionale, sterile risulta il suo atteggiamento nel Transcaucaso nei confronti di Armenia, Georgia, Azerbaijan; passivo in un’Asia Centrale insidiata dalla Nuova via della seta cinese; frammentario nei confronti di Iran e Turchia, nonostante il coinvolgimento di Mosca nel negoziato nucleare con Teheran e, con Ankara, in Siria ma non in Libia. In quell’affannosa eterna ricerca di uno sbocco sui mari caldi, da Caterina la Grande in Crimea, a Lenin con Ataturk, fino a Brezhnev con i baathisti Assad e Hussein.
Una nazione post-imperiale che esige il rispetto delle sue antiche sfere di influenza; perenne “Terza Roma” a difesa dell’ortodossia tanto all’interno del paese quanto in Medio Oriente e nei Balcani; aggrappata allo status quo, invece di impegnarsi in quell’opera di introspezione e di rinnovamento politico nel quale gli altri principali attori internazionale sono bene o male impegnati. La Russia, dice Dmitri Trenin, direttore del Centro Carnegie a Mosca, è in pratica tornata allo zarismo, ovverosia alla restaurazione di un regime rigorosamente centralizzato, più che autoritario: piuttosto che democratizzarsi, dice, dovrebbe trasformarsi in monarchia costituzionale. Il fatto è che storicamente il popolo russo è passato dal Medioevo al Romanticismo, in una commistione tossica non depurata dal Rinascimento, Umanesimo, Illuminismo che hanno invece diversamente plasmato l’Occidente.
Territorialmente immensa, alle prese con la solitudine dei grandi spazi, Giano bifronte fra Occidente e Oriente, la Russia continua a pretendere un “cordone sanitario” nella fascia di Stati che rilutta a considerare di comune responsabilità. Finendo col voltare le spalle a quell’internazionalismo che ne ha fatto uno dei protagonisti del secolo scorso, la Russia è tornata a rifugiarsi nel suo eccezionalismo storico, teorizzato dall’ideologo Dugin, condiviso dallo stesso Ministro degli Esteri Lavrov. Affermando l’esistenza di un conflitto fra la propria rigorosa civiltà e il lassismo di quella occidentale (evidenziando in proposito certe sintonie con il Pontefice Romano). L’ambizione di ritrovare una preminenza nella trattazione delle questioni europee e mondiali si scontra pertanto con l’evidente sua indisponibilità (congenita incapacità?) a confrontarsi con il “mondo nuovo”.
Di fronte all’espansione dell’influenza occidentale nel suo “estero vicino”, temendone la contaminazione si è presto ritratta, nel ricorrente movimento del pendolo fra slavofili e occidentalizzanti (come d’altronde era accaduto fra bolscevichi e menscevichi). Anche Trenin avverte che “la democrazia può consolidarsi solamente quando l’insieme della società dispone di standard di vita ben oltre il livello di minima sussistenza; altrimenti ogni tentativo di istituire un governo democratico non si tradurrà che nel populismo”. Il politologo del Cremlino Sergei Karaganov mette in guardia contro ogni concessione unilaterale, in presenza della “spada di Damocle occidentale”; per Sergo Mikoyan, “i governanti statunitensi hanno spesso valutato il comportamento internazionale russo in termini di sottomissione alle pressioni americane”.
Illusorio parrebbe pertanto il puntare, come alcuni suggeriscono, su una collaborazione con Mosca nelle aree circostanti al continente europeo, aggirando la zona di diretto contatto, dove l’allargamento prima della NATO e poi dell’Unione europea le ha fornito lo spunto per riesumare, anche a fini interni, la sua antica sindrome da accerchiamento. Nell’attuale ostentato distacco dell’America, e nell’apparente indifferenza della Cina, l’Europa si trova in prima linea nel dover affrontare la riluttanza di Mosca a stabilire rapporti di collaborazione paneuropei. Il che dovrebbe indurci ad insistere in quel che il Presidente Macron definisce un “dialogo esigente”, fermo sulla necessità di ricomporre una convergenza di intenti piuttosto che confrontare i reciproci comportamenti.
Pur stretto fra Washington e Mosca durante la Guerra fredda, lo stesso De Gaulle aveva auspicato un’Europa allargata dall’Atlantico agli Urali. La caduta del Muro ne ha determinato l’emancipazione, con l’avvio di una propria Politica estera e di sicurezza, subito tradottasi nell’Accordo di partenariato e cooperazione con Mosca che, nel 2005, avrebbe dovuto trasformarsi in un Partenariato strategico, impostato su quattro spazi comuni riguardanti rispettivamente l’economia, la politica interna, la ricerca e cultura, e la sicurezza esterna. Rivolto, quest’ultimo, ad istituire regolari consultazioni per risolvere le residue situazioni di crisi (i conflitti congelati) nella fascia di “comune vicinato”. Lodevoli intenzioni presto arenatesi per la sopravvenuta indisponibilità del Cremlino a lasciarsi coinvolgere in un rapporto di cooperazione politica con l’Unione, a complemento dell’intensità dei reciproci rapporti economici (che anche una Carta energetica, per le forniture di gas e idrocarburi, avrebbe dovuto alimentare).
Una riluttanza esasperata dall’evoluzione della situazione in Ucraina. Quando la disponibilità di Bruxelles a facilitarne la transizione mediante un accordo di associazione provocò la ferma opposizione del Cremlino che, invece di accettarlo come possibile anello di congiunzione transcontinentale, pretese l’adesione di Kiev ad una propria “Unione euroasiatica” ancora in fieri.
Nel tentativo di recuperare il suo antico rango, piuttosto che avvalersi del suo status di membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Mosca preferisce continuare a muoversi in controtendenza, per vie interne, in un opportunismo che non appare avvalersi di un preciso senso di direzione. Nell’attuale situazione di transizione dei rapporti internazionali, né l’America, né l’Europa, e nemmeno la Cina, appaiono disposte a fornirle la sponda che pretenderebbe, in riconoscimento del suo passato status di superpotenza. Idealmente, il rapporto triangolare fra America, Europa e Russia da isoscele - a danno dell’Europa, quale è stato in quest’intero dopoguerra - dovrebbe diventare equilatero. Se la morsa della Russia nel suo “estero vicino” non ha lacerato i rapporti continentali, ciò significa che gli interessi vitali dell’America e dell’Unione non sono stati ancora compromessi. Diversamente va invece considerato il tentativo di espansione della presenza russa in Medio Oriente, Nord Africa e Balcani occidentali, la cui pacificazione dovrebbe essere nel comune interesse, oltre che a tutela dell’integrità del sistema internazionale.
Antica, storicamente radicata, è la sensibilità italiana nei confronti di Mosca. Ma il nostro perdurante atteggiamento ondivago nei confronti delle istituzioni di Bruxelles preclude la capacità di influenzarne l’atteggiamento, in questa come in altre questioni di rilevanza continentale.