Ambienti di apprendimento per ridurre le vulnerabilità. La prospettiva dei corridoi universitari
“Quando studiavo a Bamako desideravo tanto fare un master in Europa. Sembrava un sogno irrealizzabile, si è concretizzato e sono felicissimo”. In questa frase ritroviamo, in breve, la storia di Bakari Coulibaly, il primo laureato in Italia grazie alle 100 borse di studio messe a disposizione ogni anno a partire dal 2016 dal Ministero dell’Interno a favore di studenti titolari di protezione internazionale, di concerto con la CRUI e ANDISU. L’esperienza di Bakari offre uno spunto per inserirci sulle questioni sollevate da Andrea Stocchiero nell’intervento “L’Italia, l’Europa e il dibattito sulla Nuova Politica Migratoria”. Più in generale sul ruolo dell’istruzione terziaria, quale strumento per una integrazione efficace dei rifugiati nel “paesaggio sociale e nella vita economica delle nostre società, ingrediente strutturale dei nostri spazi di vita, del nostro presente e del nostro futuro” e come richiamato nelle conclusioni di Sebastiano Ceschi nell’intervento “L’Integrazione è a senso unico?”.
Focalizzeremo l’analisi nell’ambito del Nuovo Patto su Migrazione ed Asilo varato dalla Commissione Europea nel settembre 2020, declinandolo sulla figura del rifugiato, le sue possibilità di ottenere un titolo di studio universitario e le prospettive di aprire nuove narrazioni sul fenomeno migratorio.
Un punto fermo da cui partire. È ormai riconosciuto, a prescindere dallo status in cui si trovi lo studente, che l'istruzione superiore sia un volano fondamentale per promuovere la crescita, ridurre la povertà e promuovere la prosperità. Una forza lavoro altamente qualificata e con una solida istruzione post-secondaria, è un prerequisito per l'innovazione e la crescita: le persone ben istruite hanno una maggiore probabilità di trovare occupazione, hanno retribuzioni maggiori e hanno un livello di resilienza più elevato agli shock economici. Tuttavia, solo recentemente e grazie all’Education Strategy 2012-2016 e al Refugee Education 2030 dell’UNHCR, l’educazione universitaria per i rifugiati è divenuta uno dei pillar di azione. La rilevanza dell’istruzione terziaria è oggi testimoniata dai fatti. Su un campione di 5000 studenti cha hanno usufruito della scholarship DAFI - il programma leader dell’UNHCR nel campo dell’istruzione universitaria - e che hanno conseguito una laurea, il 78% si è integrato nel paese ospitante e il 93% di coloro che sono rientrati nel proprio paese hanno un’occupazione.
L’accesso all’istruzione terziaria dei rifugiati è infatti un fattore di crescita complessiva per il paese ospitante e per i paesi di provenienza. Anche la storia di Bakary lo conferma: oggi è un borsista presso il Dipartimento di Architettura, Design e Urbanistica dell’Università di. Il suo messaggio, come quello di altri studenti che oggi hanno seguito il suo percorso, è chiaro: comunicare ai giovani dei loro paesi i pericoli che si nascondono nel percorso migratorio, cercare sostegno nelle istituzioni per avviare una collaborazione sui processi di formazione, aprire nuove opportunità di studio rispetto alle attuali situazioni che escludono tanti giovani dalla scuola e dall’università. Senza questo, affermano, non esiste nessuna prospettiva di crescita e sviluppo.
Questa, però, è ancora una storia di pochi. Secondo i dati dell’UNHCR, oggi solo il 3% dei giovani rifugiati, contro il 37% degli altri studenti, ha accesso a una istruzione universitaria (Steeping Up: Refugee Education in Crisis, UNHCR, 2019). Il progetto UNICORE, University Corridors for Refugees dell’UNHCR, ha per questo l’obiettivo di creare percorsi di ingresso regolare e sicuro per studenti rifugiati provenienti dall'Etiopia. Un progetto sostenuto da un partenariato nazionale e da una rete di soggetti pubblico-privata promossa dalle diversità per agevolare i percorsi di accoglienza e formazione.
Ma se l'istruzione superiore può offrire tali vantaggi, per tutti, perché lo sviluppo di opportunità di istruzione secondaria è molto limitato? Quali sono le barriere ma, soprattutto, cosa fare per abbatterle e per incrementare la percentuale di accesso all’istruzione universitaria per i rifugiati al target del 15%, obiettivo 2030 dell’UNHCR? Le barriere sono diverse, alcune permangono da decenni e, solo recentemente, si sono visti timidi passi in avanti nella loro rimozione. La prima barriera all’ingresso di rifugiati nel nostro sistema di istruzione terziaria (ma in generale, nei sistemi di istruzione di gran parte dei paesi) è, oggi come ieri, la carenza di documentazione che attesti il conseguimento di un diploma di scuola secondaria. Smarrimenti o furti durante i percorsi migratori o la permanenza nei centri di accoglienza. Sono tra le principali cause. Inoltre, anche se questi documenti fossero disponibili, il più delle volte essi devono essere sottoposti a complessi procedimenti di riconoscimento. L’articolo VII della Convenzione di Lisbona, recepito dall’Italia nel 2007, consente alle università di individuare processi di valutazione, di convalida e di accreditamento di titoli anche in assenza di documentazione. Tuttavia, anche se esistono alcuni importanti progetti, quali l’European Qualification Passport for Refugees, un sistema integrato di riconoscimento non è ancora a regime.
Insufficienza di anni di scolarità secondaria indotti da interruzioni di studi causati dai periodi di esilio, o più semplicemente, un minor numero di anni scolarità previsti nel paese di provenienza del rifugiato rispetto a quelli di previsti dal paese ospitante, costituiscono una seconda barriera all’ingresso dei rifugiati nel sistema di istruzione superiore. L’istituzione di Foundation Course per coprire i gap di conoscenza e di competenza è oggi la risposta di molte università italiane a questo problema. Restano le difficoltà legate all’allungamento del periodo di studio e al conseguente aumento dei costi (sia per lo studente, sia per le istituzioni che attivano i corsi) che possono motivare la mancata richiesta di accesso.
Secondo una survey dell’UNHCR del 2018, l’85% degli studenti indicano nella non buona conoscenza dei sistemi di istruzione superiore e nelle carenze delle attività di orientamento nei paesi ospitanti un ostacolo ai loro studi superiori. Sebbene gli istituti di istruzione superiore abbiano cercato di sopperire a questa barriera attraverso comunicazioni nelle loro piattaforme web, permangono difficoltà nello sviluppo di un coerente sistema comunicativo. Paradossalmente, almeno nel nostro paese, in cui il periodo trascorso nei centri di accoglienza è mediamente di due-tre anni, la conoscenza della lingua italiana non è un ostacolo all’ingresso nel percorso di studi universitari. Non può essere invece trascurato il problema economico. Anche se gran parte delle Università esonera lo studente dal pagamento delle tasse, permangono problemi legati ai costi per il materiale di studio, l’assicurazione sanitaria, il vitto e l’alloggio durante il periodo di studi.
Crediamo che la costruzione di nuove alleanze tra Università e territori (dei paesi che accolgono ma anche quelli di provenienza dei giovani migranti) possa dare un grande contributo alla realizzazione di politiche pubbliche e azioni efficaci per contrastare la migrazione. Non si tratta a nostro avviso solo di dare l’accento all’inserimento di giovani universitari nel sistema italiano. Si tratta piuttosto di alimentare ambienti di apprendimento e di scambio tra mondi spesso distanti, pur accomunati dagli effetti della migrazione: i territori di provenienza subiscono l’abbandono, i territori d’arrivo subiscono la cosiddetta “invasione”. O in un’altra prospettiva, i territori di provenienza mettono a disposizione il loro capitale umano, i territori d’arrivo condividono conoscenze, metodi e strumenti per nuovi percorsi di crescita di una generazione, spesso priva di prospettive concrete.
I corridoi universitari, quelli istituzionalizzati ma anche quelli promossi dal basso dagli stessi studenti che arrivano in Italia dopo un percorso migratorio, ci permettono per questo di ampliare lo sguardo. Essi costruiscono occasioni per ridurre le vulnerabilità di tanti giovani, li rendono soggetti attivi e non più marginali: alimentano legami tra culture e territori e diventano per questo generatori di progettualità e politiche efficaci di cooperazione.