Dal Nuovo Patto su Migrazione e Asilo alla tenuta di Schengen: una dovuta riflessione
Nel contributo che lancia il Forum Migrazioni del CeSPI ‘L’Italia, l’Europa e il dibattito sulla nuova politica migratoria’ (26 Gennaio 2021) Andrea Stocchiero rileva come nel 2015 i meccanismi europei dell’asilo e di Schengen si siano inceppati, come la fiducia tra stati si sia ridotta a livelli allarmanti e come con essa abbiano traballato i tanto ripetuti principi di solidarietà e responsabilità, assi portanti dell’integrazione europea. Se si è molto dibattuto sulle disfunzionalità del sistema di asilo europeo, causa madre della delega (con pegno) della gestione della ‘crisi dei rifugiati’ (Statement tra Unione Europea e Turchia del Marzo 2016), meno spazio è stato invece dedicato al legame tra la disfunzionalità del sistema di asilo e la tenuta del sistema Schengen. Il ragionamento è rimasto spesso confinato ai circoli di esperti, impegnati a ponderare le conseguenze, soprattutto economiche, di un possibile collasso dello spazio interno senza controlli ai confini e tenuto lontano dai riflettori. Ridotta e approssimativa è stata anche l’attenzione dei media, impegnati come erano (quotidiani italiani compresi e senza differenze di linea editoriale) a speculare sull’impatto della temuta ‘ondata migratoria’ sul proprio paese e a premere per una soluzione rapida della questione, salvo denunciare, ma solo in un secondo momento, il destino dei migranti intrappolati nelle maglie dell’ingarbugliata reazione Europea.
Eppure, alla fine del 2015 il sistema Schengen e la sua sopravvivenza avevano assunto una centralità inedita, minati dall’introduzione non coordinata dei controlli ai confini interni, tanto da mobilitare l’Unione a interventi rapidi e decisi per normalizzare la situazione di crisi in direzione, appunto, dell’esternalizzazione e del puntellamento del confine esterno. Allora, la storia che per tanto tempo l’Unione si è raccontata, ovvero che il rafforzamento del confine esterno è il naturale contrappeso all’eliminazione dei controlli ai confini interni, ha retto, supportata dalla rappresentazione della ‘minaccia esterna’ verso l’area di libera circolazione. Eppure, col tempo, osservando quel tentativo di normalizzazione fatto di misure che avrebbero dovuto deduttivamente condurre alla eliminazione progressiva dei confini interni, la consueta narrazione è parsa sempre meno convincente.
Oggi, dopo sei anni e nel tempo del COVID-19, osserviamo uno spazio Schengen fortificato da rafforzati confini esterni (con una discutibile securitizzazione dei flussi e una ancora più pericolosa miopia sulla situazione dei migranti bloccati all’esterno del confine) e, soprattutto, ancora frammentato da controlli ai confini interni, alcuni attivati ex novo sulla scorta della crisi pandemica, altri che permangono dal lontano 2015. Quella che dovrebbe essere una letale minaccia alla sopravvivenza di Schengen, ovvero la presenza continuativa di confini interni in violazione delle misure previste dal Codice che ne tutela il sistema, è la nuova normalità.
La riflessione di questo contributo è dunque incentrata sulla relazione tra gli elementi cardine del sistema d’asilo europeo e la tenuta dello spazio Schengen così come pensata dall’Unione e ribadita nel recente Patto su Migrazione e Asilo: l’enfasi sulla minaccia che viene dall’esterno non solo perpetua la disfunzionalità di un sistema di protezione internazionale che ruota attorno a supposte minacce al sistema Schengen evitando però di risolverle, ma eclissa la realtà di una sfida interna più profondamente ontologica per l’Unione. Sfida che appare tanto più urgente oggi, in cui l’evidenza dei benefici di uno spazio senza confini interni appare in tutta la sua potenza e in cui uno slancio verso un livello di integrazione impensabile solo qualche anno fa si è materializzata in molti domini ostinatamente westphaliani, come il piano Next Generation Europe sta a dimostrare.
Tra la primavera e l’estate del 2015, quando numerosi richiedenti asilo e migranti si sono riversati sulle coste greche, l’Unione ha cercato di mettere in campo strumenti di solidarietà, volti ad alleggerire il peso della gestione sugli stati di confine (principalmente Grecia ed Italia), avendo, questi, secondo la normativa europea, la responsabilità del controllo del confine esterno anche per gli altri stati membri ed essendo responsabili dell’esame delle richieste di asilo presentate all’arrivo nell’Unione. L’intervento dell’Unione Europea era esplicitamente volto ad evitare i ‘movimenti secondari’ e si concretizzò in due piani di ricollocamento. La misura, tuttavia, percepita come una ingerenza inaccettabile da parte di alcuni stati membri e blandamente applicata da altri (nonostante la sua cogenza non fu sufficiente a calmierare i timori circa la capacità della Grecia di essere in grado di gestire la situazione al confine. Se l’Unione cercava di mostrare l’esistenza di mezzi (tra fondi, agenzie e meccanismi) a disposizione per affrontare la crisi e invitava ad intraprendere misure coordinate, alcuni stati membri ignoravano l’appello reintroducendo in maniera non coordinata e senza previa notifica, controlli ai confini interni, inserendosi dunque al di fuori di quel Codice Schengen che pure prevedeva misure simili ma in un contesto normato e coordinato.
La successiva mossa dell’Unione, dunque, si articolò attorno all’urgenza di ristabilire ordine, prevedibilità e normalità nello spazio Schengen: le misure che vennero dunque prese avevano l’obiettivo di rimuovere i controlli ai confini interni, motivati dai timori sui movimenti secondari. Tra proposte di ‘Mini-Schengen’ o addirittura di spostamento del confine Schengen dalla Grecia all’Europa centrale, fomentate da un elettorato sempre più propenso ad una ri-nazionalizzazione dei confini (Ilvo Diamanti, ‘L’Europa si chiude: cresce la voglia di confini: solo i giovani dicono no’, La Repubblica, 9 Maggio 2016) l’Unione si mosse invocando la procedura di salvaguardia dell’articolo 29 del Codice Schengen che adeguava dunque i controlli alle regole previste da Schengen (‘preserviamo Schengen applicandolo, spiegava la Commissione). Si rafforzava poi la presenza in Grecia subentrando di fatto alla gestione dei flussi in entrata e si accelerava l’approvazione di misure già in fieri volte a eliminare, si riteneva, il problema dei movimenti secondari: ovvero, il rafforzamento della frontiera esterna, con la creazione della European Border and Coast Guard e l’appalto della gestione ai paesi dei Balcani e in maniera più massiccia alla Turchia (Statement del Marzo 2016). Tutto bene, dunque, se è vero che i flussi verso la Grecia dal Marzo 2016 furono praticamente nulli. Tranne il fatto che i confini interni, che si intendeva eliminare, rimasero con la giustificazione del timore per i movimenti secondari.
La progressiva de-securitizzazione dei controlli ai confini interni disegnava dunque una nuova normalità a cui il Codice Schengen faticava ad adattarsi: di certo non si poteva parlare di ‘tempi eccezionali’ dato i ridotti flussi in entrata, né si rintracciavano gli elementi di proporzionalità e l’inevitabilità dell’’ultima risorsa’ a disposizione. Anche il dibattito istituzionale si fratturava tra la Commissione che riconosceva l’esigenza di adattare Schengen alle nuove sfide così da soddisfare appieno le esigenze degli stati membri e il Parlamento con la Rapporteur Fajon che controbatteva e ribadiva l’illegalità dei controlli ai confini interni e rendeva evidente quello che, davanti agli occhi di tutti, nessuno sembrava ammettere. Ovvero, le massicce misure per proteggere il confine esterno non riuscivano ad eliminare i controlli all’interno, sintomo che la narrazione su cui si costruiva l’intera politica migratoria dell’Unione era, a voler essere ottimisti, solo una parte della storia.
La ‘crisi dei rifugiati’ del 2015 ha di certo stimolato una riflessione sulla politica dell’Unione, se non altro per le critiche che tale gestione sollevò e per la tacita consapevolezza che l’esternalizzazione della crisi rimandava e non risolveva la disfunzionalità del sistema di asilo. Tra le proposte di riforma della Commissione del 2016 e quelle molto più coraggiose del Parlamento nel 2017 si è faticato, tuttavia, a trovare la quadra. Non sorprende dunque come la nuova Commissione insediata nel 2019 abbia posto al centro della propria agenda una revisione del sistema di asilo: elemento cardine era di nuovo quella ‘solidarietà’ pesantemente e colpevolmente mancata durante la crisi del 2015 e l’obiettivo era quello di trovare nuove formule, meno ambiziose ma più efficaci, per promuovere la ‘condivisione’.
Una solidarietà, si spiegava, necessaria per sostenere Schengen. Le misure proposte, tuttavia, non sembravano sconvolgere il principio del ‘primo paese di ingresso’ ormai per tutti il cuore della disfunzionalità del sistema di asilo. Non solo: con l’antico adagio della solidarietà necessaria per evitare i movimenti secondari e di questi ultimi come deleteri per la tenuta di Schengen si rendeva chiaro che la direzione intrapresa non era, per l’ennesima volta, quella di un unico sistema di asilo (Stefano Manservisi, ‘The EU’s Pact on Migration and Asylum: A Tsunami of Papers but Little Waves of Change’, IAI Commentaries 20/88, Dicembre 2020) unica reale medicina per la questione dei movimenti secondari. Non sorprende, dunque, che gli stati di frontiera, come evidenziato da Stocchiero, siano rimasti piuttosto freddi verso il nuovo Patto.
La nuova solidarietà targata UE, dunque, continuando ad attribuire centralità alla questione dei movimenti secondari e alla narrazione che li accompagna non modifica l’impianto che rende possibile e che anzi ‘legittima’ l’introduzione e, oggi sempre di più, la permanenza dei controlli ai confini interni. La mancata modifica dell’asilo e della costruzione del suo legame con la tenuta di Schengen si interseca oggi in maniera interessante e peculiare con l’introduzione di nuovi controlli ai confini interni. La sospensione a causa della pandemia di attività legate all’asilo (l’Italia ha definito i suoi porti ‘non sicuri per definizione’ ad esempio) ha ridotto del 35% le domande di protezione internazionale depositate nell’Unione tra Gennaio e Ottobre 2020 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (ECRE, ‘Covid-19 measures and updates related to asylum and mihration across Europe’, 7 Dicembre 2020). Non sorprende inoltre neanche, secondo quanto detto in precedenza, che la prima risposta dell’Unione alla pandemia sia stata la chiusura del confine esterno (Charles Grant, ‘How Coronavirus is reshaping Europe in a dangerous way’, The Guardian, 14 May 2020) con l’obiettivo di evitare la chiusura dei confini all’interno.
Anche oggi come nel 2015 l’introduzione dei controlli ai confini interni è avvenuta in modo non-coordinato e dunque unilaterale e dubbi sono sorti circa la necessità della misura e la sua utilità (Matthias Eckardt, Kalle Kappner e Nikolaus Wolf, ‘Covid-19 across European regions: The role of border controls, VOX, CEPR Policy Portal, 4 Novembre 2020) la sua inevitabilità, la sua durata, le proroghe ‘a catena’ e soprattutto la base giuridica a suo sostegno (Raphael Bossong, ‘EU Border Security in a Time of Pandemic’, SWP Comment 28, June 2020). Molto spesso, infatti, gli stati membri si sono mossi con naturalezza dalla giustificazione dei movimenti secondari, della situazione al confine esterno e dei timori legati al terrorismo all’emergenza pandemica. Ad oggi, otto stati mantengono controlli ai confini interni per ragioni legate alla pandemia e cinque per motivazioni legate a movimenti secondari, confine esterno e terrorismo.
La chiusura dei confini dovuta alla pandemia ha di certo complicato la gestione della migrazione da parte dei paesi di confine: tra la sospensione dell’Accordo di Malta del 2019 per una redistribuzione dei migranti soccorsi nel Mediterraneo alle difficoltà nell’implementazione dei ritorni degli irregolari e le esigenze del distanziamento sociale, l’Italia ha chiaramente denunciato il rischio di improvvise e però sempre più frequenti ‘soluzioni nazionali’. L’automatismo della soluzione nazionale first e dell’intervento dell’Unione (eventually) dovrebbe destare però maggiori riflessioni: è come se Schengen fosse un sintomo, riporta l’Economist: ‘quando l’Unione è in difficoltà allo stesso modo lo è Schengen, indebolito anche dalla maggior ‘malleabilità’ che questo progetto di integrazione ha rispetto ad altri meno reversibili (Economist, ‘Covid-19is threatening Europe’s Schengen passport-free zone’, 22 August 2020). Le code ai confini, il blocco delle merci, la mancata circolazione di materiale sanitario, il blocco dei commuters, di manodopera necessaria nell’ambito agricolo, alimentare e dell’assistenza per non parlare delle proprie responsabilità in ambito di protezione internazionale non può dunque che stimolare un serio dibattito su che cosa ne sia di Schengen, delle sue finalità, dei suoi obiettivi e soprattutto dei pilastri su cui si fonda come la solidarietà e la fiducia reciproca. Fiducia che, come sottolineato, è accordata ad alcuni stati ma non ad altri, creando blocchi regionali e partigianerie che rimandano agli schieramenti emersi durante la crisi dei rifugiati ricordati in precedenza (Hanne Beirens, Susan Fratzke and Lena Kainz, ‘When Emergency Measures Become the Norm: Post-Coronavirus Prospects for the Schengen Zone’, Commentaries, MPI, Agosto 2020). Una seria riflessione depurata da costruzioni narrative smentite oggi dai fatti stempererebbe anche i timori di coloro che temono che una possibile ‘securitizzazione di Schengen’ si traduca in misure che, come in passato, ricadano sfavorevolmente sui migranti.
Soprattutto in questa direzione si spera insisteranno la valutazione in corso sul futuro di Schengen (Schengen Forum) e quella prevista per i prossimi mesi (Strategy on the Future of Schengen) così come Conferenza sul futuro dell’Europa rimandata a causa della pandemia, magari sulla scorta del coraggio politico in favore della ‘discontinuità’ nell’approccio alle crisi dimostrato in ambito economico (Sergio Fabbrini, ‘Scelte chiave per costruire il futuro della UE, Il Sole24Ore, 8 Dicembre 2020). Tra le opzioni di ‘relaunch e disintegration’, immaginate da Michael Leigh (Michael Leigh, ‘Relaunch or Disintegration? What Covid-19 means for the future of Europe, LSE Europeblog, 14 December 2020) si spera fortemente l’Unione saprà scegliere la prima.