Protracted displacement e dis-integrazione: un problema europeo
“O stabilmente dentro, o fuori”: un modello europeo
Le teorie normative implicite – o, se preferite, le ideologie – sottese alle politiche d’integrazione degli immigrati negli stati dell’Europa occidentale e (più tardi) meridionale, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, hanno avuto alcuni importanti tratti in comune. Al di là della retorica sui “modelli nazionali”, spesso frutto di costruzioni identitarie più che di effettive specificità sul piano pratico, tutti i paesi della vecchia UE a 15 (prima degli allargamenti a est e di Brexit) condividevano un ideale di inclusione graduale e selettiva.
Abbandonata l’idea ingannevole, coltivata almeno fino agli anni Settanta, che i lavoratori immigrati fossero “ospiti temporanei” (Gastarbeiter), tutti i principali paesi europei di destinazione sposarono ufficialmente il concetto che chi non aveva diritto a rimanere dovesse essere espulso, ma che per tutti gli altri – stagionali a parte – si aprisse un percorso a tappe avente l’acquisizione della cittadinanza come approdo finale. Il succo, insomma, era che tutti gli immigrati (e ovviamente i loro discendenti) dovessero trovare una collocazione stabile: o dentro – con una incorporazione progressiva, ma in prospettiva piena – o fuori.
In questo, l’Europa si distingueva dai grandi paesi destinatari di migrazioni “di popolamento”, e in particolare dagli Stati Uniti, per una maggior gradualità nei percorsi di inclusione giuridica. Ma questo “modello europeo” si scostava anche dall’approccio prevalente nei paesi asiatici, dove l’immigrazione internazionale, che allora cominciava ad aumentare in parallelo con la crescita economica delle “Tigri asiatiche”, rimaneva (e rimane, perlopiù, tuttora) strettamente ancorata a una rigida temporaneità della presenza, con opportunità di ricongiungimento famigliare e di naturalizzazione limitatissime o nulle.
Un passaggio cruciale, nella consacrazione di questo approccio a livello sovranazionale fu, nel 2003, l’adozione della direttiva sui “soggiornanti di lungo periodo” (03/109/EC), che garantisce agli immigrati regolari ed economicamente autonomi (dal 2011, anche ai beneficiari di protezione internazionale), dopo cinque anni di soggiorno regolare, l’accesso a uno status di soggiorno senza limiti di tempo.
Il contraltare di questa progressiva stabilizzazione amministrativa per i “regolari” era la negazione di ogni prospettiva di soggiorno a lungo termine per gli “irregolari”, inesorabilmente destinati al rimpatrio. Ma, se questo era vero sulla carta, nei fatti, anche per milioni di sans-papiers, è stato a lungo possibile tornare sul binario della inclusione graduale, attraverso procedure di regolarizzazione. A lungo, questo è stato vero, in forme diverse, sia negli stati membri mediterranei, tipicamente mediante “sanatorie” più o meno indiscriminate e massicce, sia in contrade più nordiche, in forme più discrete, discrezionali e individualizzate.
“Protracted displacement”: da eccezione a regola?
Il principio che una persona, qualunque persona, non possa rimanere a lungo in una situazione di sradicamento e non appartenenza al di fuori del proprio paese di origine, ma debba invece trovare una collocazione stabile, “incardinandosi” all’interno di un sistema giuridico nazionale, vige anche all’interno del regime internazionale dei rifugiati. Già all’articolo 1 dello Statuto dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, approvato il 14 dicembre 1950 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si disponeva che “L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati [...] assume funzioni di protezione internazionale [...] e di ricerca di soluzioni permanenti del problema dei rifugiati, aiutando i Governi e - previa approvazione dei Governi interessati – le organizzazioni private per facilitare il libero rimpatrio di tali profughi o la loro assimilazione in nuove comunità nazionali” (corsivo aggiunto).
Nel corso del tempo, questo principio si è venuto precisando, nel diritto e nella prassi, conducendo alla triade canonica delle “soluzioni permanenti” (durable solutions), tuttora alla base dell’operato del UNHCR: rimpatrio volontario in condizioni di sicurezza e dignità, integrazione nel paese dove il rifugiato è attualmente ospitato (il termine “assimilazione”, usato nel 1950, è stato in seguito sostituito, perché politicamente controverso), o reinsediamento (resettlement) in un ulteriore approdo sicuro.
Anche qui, dunque, l’idea di fondo è che il migrante forzato non possa rimanere a lungo in una condizione di sradicamento e apolidia di fatto, ma debba invece essere riconnesso quanto prima alla potestà e allo spazio di cittadinanza di uno stato: quello di origine, qualora possibile, oppure quello dove ha trovato temporaneamente rifugio, o ancora in un terzo paese disposto ad accoglierlo su base volontaria.
Fin qui, la teoria. In pratica, fin dagli anni Novanta, è apparso sempre più chiaro che, sul terreno, questo ideale incontrava enormi ostacoli. Operatori e istituzioni, UNHCR in primis, misero gradualmente a fuoco l’esistenza di “protracted refugee situations”, in cui collettività intere di rifugiati si trovavano costrette a vivere per lunghi periodi in condizioni di marginalità e precarietà. Esistenze confinate in una sorta di “limbo” (termine spesso usato anche in documenti ufficiali), senza reali opportunità di integrazione, né di rimpatrio in sicurezza e tantomeno di reinsediamento in destinazioni ulteriori. Di queste situazioni, l’Alto Commissariato fornì nel 2004 una definizione operativa di massima: “25.000 rifugiati o più, della stessa nazionalità, che sono rimasti in esilio in un determinato paese di asilo per cinque anni consecutivi o più”.
Inizialmente, questa definizione era riferita esclusivamente a contesti “in via di sviluppo”, specialmente in Africa, dove i numerosi conflitti di fine Novecento avevano dato luogo a esodi massicci, in larga misura contenuti, più che accolti, in campi di accoglienza progressivamente trasformati in bidonville e poi in veri e propri insediamenti urbani, miseri ma duraturi.
A quasi vent’anni dalla sua adozione ufficiale, il concetto di “protracted refugee situations” e quello strettamente connesso di “protracted displacement” (che si potrebbe tradurre, con inevitabile approssimazione, come “esilio protratto”) sono diventati imprescindibili ai fini dell’analisi delle tendenze migratorie su scala globale. Come si vede nel grafico sottostante, prodotto nell’ambito del progetto europeo “Transnational Figurations of Displacement-TRAFIG” (Etzold et al., 2019), negli ultimi quindici anni, nel quadro di un’impennata del numero di migranti forzati a livello globale, sono cresciute sensibilmente le persone in condizione di esilio protratto, mentre ritorni volontari e reinsediamenti ristagnano, a livelli decisamente bassi.
Fonti: UNHCR Population Statistics (http://popstats.unhcr.org/en/overview); UNHCR Global Trends 2005-2020; Resettlement Data Finder (https://rsq.unhcr.org/en).
Crisi sovrapposte e dis-integrazione
Per noi italiani, assuefatti da decenni alle baraccopoli stagionali in tanti distretti agricoli e alla vergogna dei “campi nomadi”, il concetto di “protracted displacement” non è – o, almeno, non dovrebbe essere – un’astrazione né una peculiarità esotica. Dovremmo essere ben consapevoli del fenomeno in espansione di masse migranti per cui la via del ritorno è impraticabile, la riemigrazione vietata e l’integrazione in loco irraggiungibile.
Ma, su scala europea, questa scomoda realtà, che smentisce la rassicurante linearità del modello dell’inclusione progressiva, è stata a lungo rimossa. Nel panorama continentale del dibattito pubblico sulle tematiche migratorie, generalmente caratterizzato da livelli elevati di eurocentrismo e da una scarsa propensione alla riflessività, l’incapacità di mettere a fuoco il fenomeno del protracted displacement e la connessa crisi dell’integrazione costituiscono aspetti particolarmente preoccupanti.
I sintomi di questa carenza di introspezione collettiva sono numerosi. Un esempio clamoroso è l’assenza pressoché totale di stime sulla consistenza complessiva della popolazione immigrata in condizioni di irregolarità nel nostro continente. Tra le pochissime eccezioni, a più di dieci anni dalle ultime stime prodotte in ambito accademico, si può ricordare un rapporto dello statunitense Pew Research Center che, nel 2019, ha stimato una presenza totale nella UE pre-Brexit (più i paesi EFTA: Islanda Liechtenstein, Norvegia e Svizzera) oscillante tra i 2,9 e i 3,8 milioni, pari al 12-16% della popolazione immigrata totale; Germania e Regno Unito da soli ospiterebbero metà di questa corposa minoranza transnazionale sommersa. Ancor più ampio si deve ritenere, pur in assenza di stime accurate, il variegato contingente dei “semiregolari”, dotati di titoli di soggiorno nazionali di durata molto limitata, difficilmente rinnovabili e spesso gravati da restrizioni alla mobilità e alla facoltà di lavorare.
Questa sostanziosa presenza irregolare e semiregolare non è solo il frutto dei massicci arrivi degli ultimi anni lungo le rotte del Mediterraneo orientale e centrale. E’ anche il risultato dell’impatto differenziale della profonda e prolungata crisi occupazionale innescata dalla Grande Recessione del 2008, che ha reso più precarie le condizioni economiche di milioni di migranti, mettendo a repentaglio il loro status amministrativo. Questo impatto negativo è stato particolarmente pesante nei paesi dell’Europa meridionale. Mi limito a fornire un dato di grande rilevanza: fino agli anni Duemila, in Italia e in Spagna, a differenza che in Francia e in Germania, gli immigrati avevano in media maggiori probabilità di essere occupati rispetto ai nativi. Questo vantaggio comparativo è stato annullato – come mostra un prezioso rapporto di ricerca recente – dalla grande crisi scoppiata nel 2008, che ha eroso il tasso d’occupazione dei nati all’estero assai più di quello dei nativi.
Con la pandemia di COVID-19, l’integrazione tra le varie componenti socio-demografiche delle società europee, già compromessa, subisce un nuovo trauma sistemico. Anche questa volta, lo shock esogeno divarica ulteriormente faglie di disuguaglianza già esistenti: quelle legate all’età e al genere, così come quelle che fanno leva sull’origine, l’appartenenza etnica o culturale, il colore della pelle.
Esemplifico con qualche dato ricavato da una recente analisi basata sulla Labour Force Survey europea. Come già rivelato dalla cronaca e dall’esperienza quotidiana, gli immigrati sono sovrarappresentati nelle attività “essenziali”, quelle che non si sono mai fermate, neppure nelle fasi di lockdown più stretto: le svolge il 39% degli immigrati, contro il 33% dei nativi. Senza immigrate/i nei campi e nelle stalle, per produrre il nostro cibo, nei magazzini e sulle strade, per distribuirlo, nelle case, per cucinarlo (e, se necessario, per imboccarci), senza immigrate/i nelle residenze sanitarie assistite e nelle corsie d’ospedale, il nostro paese, come tanti altri in Europa e oltre, collasserebbe.
Ma, essere “essenziali” non vuol dire essere riconosciuti pubblicamente come tali, né essere remunerati di conseguenza, e non è neppure garanzia di regolarità del soggiorno. In compenso, svolgere un compito essenziale significa essere quotidianamente esposti al contagio, per il semplice motivo che non si può arare un campo o lavare un corpo “da remoto”. In altri termini, gli immigrant jobs, cioè i lavori in cui gli immigrati sono sovrarappresentati, sono meno suscettibili di essere esercitati a distanza o in modalità smart. E l’ Italia – come dimostrano ancora Tommaso Frattini e Tommaso Sartori nel lavoro appena citato – spicca come il paese europeo in cui questo teleworkability gap è più ampio.
Da questi squilibri, a cui si aggiunge la maggior concentrazione di lavoratori e lavoratrici nati all’estero in lavori atipici e a termine, consegue che la crisi scatenata dal COVID-19 li colpisca più pesantemente degli altri. Su 100 nativi che risultavano occupati nella prima metà del 2019, cinque oggi hanno perso il lavoro, mentre tra gli immigrati sono ben nove. E purtroppo siamo solo all’inizio di un terremoto in cui, secondo un’altra indagine recente , ben nove milioni di migranti nella sola Europa occidentale e meridionale (UE-14 + Regno Unito) si trovano esposti a un elevato rischio di disoccupazione.
Investire per reintegrare
Questo quadro drammatico impone un ripensamento radicale dell’approccio delle nostre istituzioni all’integrazione, ormai da molti anni minimalista e rinunciatario. Non possiamo più contare sul fatto che, con il passare del tempo, anche in assenza di politiche e investimenti pubblici mirati (fatta eccezione per una pletora di interventi a livello locale, finanziati perlopiù con fondi europei, talvolta meritevoli ma sporadici e sottodimensionati), siano le dinamiche spontanee sociali e di mercato a ridurre lentamente i divari tra immigrati e nativi.
Questo è effettivamente avvenuto, pur con molti limiti e squilibri, fino a una decina di anni fa. Ma da tempo il meccanismo si è inceppato e stiamo assistendo a un doppio movimento, di pauperizzazione dell’immigrazione, per un verso, di etnicizzazione della povertà, per l’altro. In altre parole, due insiemi distinti, quello della popolazione di origine immigrata e quello di chi si trova in condizione di povertà, tendono a sovrapporsi sempre di più. Una pesantissima conferma di questa tendenza viene dalle stime preliminari diffuse a marzo 2021 dall’ISTAT : “nel 2020, l’incidenza di povertà assoluta passa dal 4,9% al 6,0% tra le famiglie composte solamente da italiani, dal 22,0% al 25,7% tra quelle con stranieri”.
Siamo chiaramente di fronte all’accelerazione di un processo già avviato di dis-integrazione che, se non verrà messo a fuoco nella coscienza collettiva, individuato come un problema di tutti (e non solo delle vittime immediate) e quindi affrontato mediante strategie mirate di reinclusione, ci trasformerà in una società ancora più gerarchizzata in base alla provenienza (magari neppure propria, ma dei genitori o persino dei nonni) e al colore della pelle. Una società che, di conseguenza, finirebbe per essere non solo più ingiusta, ma anche assai meno dinamica e resiliente.
Per invertire un trend così marcato servono tre ingredienti: una volontà politica netta, una visione strategica di lungo periodo e risorse ingenti. Le prime due, evidentemente, mancano. Le risorse, invece, per la prima volta da decenni, ci sarebbero. Mi riferisco, ovviamente, al pacchetto anti-crisi adottato dal Consiglio europeo nell’estate 2020. Ma, finora, nel dibattito italiano ed europeo sull’utilizzo dei fondi di NextGenerationEU, il tema dell’integrazione delle collettività di origine immigrata, sostanzialmente prive di rappresentanza e di accesso diretto ai media e ai processi decisionali, è stato completamente ignorato. Eppure, come ho sottolineato altrove, i piani nazionali “di rilancio e resilienza” devono essere coerenti con le raccomandazioni rivolte annualmente ai paesi membri dalla Commissione europea, nell’ambito della procedura denominata “Semestre europeo”. E, nelle raccomandazioni specifiche rivolte all’Italia, l’intensificazione degli sforzi per l’inclusione sociale e lavorativa dei gruppi vulnerabili, in cui rientra una fetta significativa di popolazione immigrata, figura come una priorità centrale.
Per contrastare la dis-integrazione, le politiche attive del lavoro avranno un’importanza decisiva. Orientamento e certificazione delle competenze (su cui, a livello europeo, si è investito molto, ma con esiti diseguali) non basteranno. Servirà un investimento massiccio nella formazione (upskilling e reskilling) di centinaia di migliaia di giovani migranti il cui bagaglio educativo e professionale necessita di un potenziamento.
Per molti di loro, come abbiamo visto, si pone anche un problema di status amministrativo. Sebbene il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione europea a settembre 2020, insista molto sul rafforzamento delle politiche comuni in materia di rimpatrio, è illusorio pensare – anche per chi lo ritenga desiderabile – che milioni di irregolari possano essere espulsi dal continente.
Eppure, a livello europeo, la questione della regolarizzazione rimane un tabù assoluto. Si preferisce rimuovere il tema dal dibattito pubblico, ad eccezione di pochi paesi (come il nostro, o, recentemente, il Portogallo), dove però le soluzioni adottate si rivelano, alla prova dei fatti, troppo timide, inefficaci e vulnerabili agli abusi.
Occorre dunque uno straordinario sforzo creativo, che per esempio leghi l’esigenza di stabilizzazione amministrativa a quella di formazione, creando percorsi graduali, basati su incentivi progressivi. Si potrebbe immaginare che un primo permesso di soggiorno di durata annuale, possa essere rinnovato, anche per un periodo più lungo, per coloro che hanno partecipato con profitto ad attività di formazione. Qualcosa del genere è stato sperimentato in Germania negli ultimi anni, per alcune categorie di richiedenti asilo. Indubbiamente, si tratta di politiche complesse da gestire, costose e non necessariamente paganti dal punto di vista elettorale. Ma, se la sfida della reintegrazione non verrà raccolta, la dis-integrazione procederà e non saranno solo le vittime dirette a farne le spese.