Dall'Europa all'Italia: la retorica dell'emergenza e il sistema di accoglienza in crisi
Nonostante i numeri riguardanti i movimenti di persone verso l'Europa siano tutt'altro che allarmanti, risposte di carattere securitario dominano il disegno delle politiche europee. Dalla lettura del Patto Europeo Migrazioni ed Asilo più che una volontà di gestione condivisa della migrazione, emerge la preoccupazione per il movimento, criminalizzato in sé (dalla partenza ai cd. movimenti secondari), e per il controllo delle frontiere attraverso tre pilastri: arginare, filtrare e rimpatriare.
L’approvazione del budget multi-annuale 2020/2027 dell'Unione Europea del dicembre del 2020, rispecchia questa tendenza e la cristallizza nei numeri e nelle categorie delle voci di budget. Compare, per la prima volta, un capitolo di spesa dedicato, emblematicamente denominato: “migrazioni e gestione delle frontiere”.
L’appiattimento delle politiche migratorie sul mero controllo delle frontiere, dei transiti e delle persone sul territorio è sempre più radicato, sia nella strategia della Commissione, sia in quella degli Stati Membri. In questa prospettiva l’obiettivo diventa impedire che le persone in viaggio raggiungano gli SM, se non richiedenti asilo “veri”. Non a caso molto si insiste sull’introduzione di un meccanismo di esame preliminare, definito di “pre-ingresso”: in pratica quel che già avviene in Italia con l’approccio hotspot, viene esteso ora a tutta l’UE e ai migranti in condizione irregolare già presenti sul territorio e intercettati in qualsiasi momento.
L’Italia, come mostra la cd. Road map prima e l’approccio hotspot poi, non solo si muove nel solco di questo metodo, ma tende ad essere un contesto di sperimentazione di pratiche al limite del diritto, poi estese a livello europeo. Come rilevato anche nel recente lavoro “The big wall”, lo scellerato accordo con la Libia del febbraio 2017 è solo la punta dell’iceberg di una strategia di esternalizzazione e di contrasto alla cd. migrazione irregolare, in perfetta continuità con l’approccio europeo, con il principio del more for more e della condizionalità degli aiuti.
Senza perdersi in questa sede in argomentazioni che avrebbero bisogno di un ampio respiro, è utile almeno stigmatizzare l’incapacità di decisori italiani e europei di basarsi su dati di fatto nell’analizzare le politiche migratorie (e di conseguenza proporre misure efficaci), con una frase ripresa dal commento della direttrice dello European Council on Refugees and Exiles(ECRE), Catherine Woollard: “there are few other areas of policy where EU law is so systematically disregarded with impunity”
Infatti, nonostante molte delle istituzioni europee abbiano chiesto una diversa politica europea di immigrazione, gli Stati Membri hanno di fatto condizionato l’orientamento della Commissione e determinato l’incapacità di costruire una politica centrata sui diritti delle persone. Per comprenderlo basta guardare ai numerosi studi sia a livello europeo che nazionale che fanno un bilancio delle politiche migratorie in atto e propongono misure alternative, regolarmente ignorati.
Ancora una volta, dunque, Italia ed Unione Europea sono in perfetta continuità nell’ “ignorare tanto impunemente e sistematicamente” - per parafrasare Catherine Woollard – non solo il diritto (e i diritti delle persone migranti), ma anche studi capaci di illuminare politiche efficaci e fenomeni sottesi, strutturali e di natura complessa.
L’investimento nelle politiche migratorie non è pensabile né in Europa né in Italia. Il lavoro di ActionAid sul sistema di accoglienza dimostra come questo sia un caso emblematico: anche in occasione dell’ultima riforma del sistema segnata dal D.L. 130/2020 non si sono elaborate nuove misure in base a un’analisi dei dati. Un dibattito così importante è basato, ancora oggi, non su dati di fatto verificabili e misurabili, ma su posizioni ideologiche.
La risultante è l’uso estensivo della retorica dell’emergenza con la logica conseguenza di derubricare le migrazioni a problema di ordine pubblico da gestire. Un carattere eccezionale ed emergenziale che trova il suo corrispettivo nella mancata volontà di incentivare la microaccoglienza diffusa e integrata e in un sistema di accoglienza straordinario che diventa di fatto il sistema principale.
L’accoglienza in Italia: la retorica dell’emergenza e un sistema in crisi
Stando ai dati del Ministero dell’Interno (fonte cruscotto statistico), al 31 dicembre 2019 le persone migranti nel sistema di accoglienza erano circa 90.000. Di questi, il 73% (oltre 66.000) erano ospitati nei centri di accoglienza straordinaria (Cas). Nel 2018, si registrava la presenza, al 31 dicembre 2018, di circa 134.000 persone. Di queste, quasi l’80% (107000) ospitate all’interno dei Cas. Queste percentuali della distribuzione dell’accoglienza, che vedono in maggiore misura il ricorso ai Cas, rimangono pressoché invariate anche negli anni precedenti.
Il sistema Cas, tuttavia, dovrebbe rappresentare la deroga alla norma. Ad eccezione della parentesi del decreto Salvini che ne ha fatto una tappa obbligata per i richiedenti asilo, il ricorso a queste strutture dovrebbe essere attivato solo nel caso in cui si esaurissero i posti disponibili nel sistema di accoglienza ordinaria. Ciononostante, come fra le altre cose rilevato dal rapporto “Il sistema a un bivio” della serie Centri d’Italia, il sistema ordinario non solo praticamente non è il principale, ma nel corso degli anni, prima si è tentato di cancellare le poche esperienze virtuose che si erano consolidate, e poi si è deliberatamente deciso di non dare seguito ad un approccio nato con la conferenza stato regioni del 2014 e proseguito con il DM dl 2016, per una preminenza fattiva del circuito ordinario e un graduale superamento dei Cas. Nel periodo 2014/2020, come evidenziato nel rapporto, il ricorso all’accoglienza straordinaria ha rappresentato la norma, nonostante studi indipendenti e il lavoro della commissione di inchiesta parlamentare sul sistema di accoglienza siano stati concordi nel definire il regime dei Cas “una spina nel fianco” (audizione del 13.10.2015, Domenico Manzione, al tempo Sottosegretario di Stato del Ministero dell’Interno).
Nonostante non vada dimenticato il costo umano del deplorevole accordo con la Libia e del seguente calo degli arrivi, negli ultimi anni, con un numero di presenze drasticamente ridotte (anche per le espulsioni dovute all’abrogazione della protezione umanitaria e alla ridefinizione del sistema di accoglienza con il decreto sicurezza), si sarebbe potuto consolidare il sistema di accoglienza a titolarità pubblica e farne davvero quello principale.
Purtroppo, le cose sono andate in direzione inversa. Non solo con l’approvazione del decreto sicurezza da parte del governo Conte I, che ha di fatto determinato un’emergenza che diceva di voler combattere e contribuito a contrarre significativamente i diritti delle persone migranti, ma anche dal governo Conte II che ha lasciato trascorrere un anno prima di rivedere la disciplina dell’accoglienza.
Il decreto sicurezza, in particolare, ha trasformato i Cas in meri contenitori, tappa obbligata priva di servizi per l’avviamento all’autonomia, in cui i richiedenti asilo attendono l’esito della domanda di protezione internazionale. Un periodo mediamente di oltre un anno, in cui le persone ospitate sono escluse da qualsiasi percorso di integrazione, sociale o lavorativa. Il decreto sicurezza, inoltre, insieme al capitolato di gara, non solo ha ridotto i servizi, reso nei fatti insostenibile l’accoglienza diffusa e favorito il concentramento delle persone in grandi centri di accoglienza, spesso gestititi da soggetti senza adeguate competenze o a vocazione sociale. Ma ha enormemente complicato la gestione delle prefetture, strette tra l’esigenza di reperire posti in accoglienza e regole inapplicabili. Gli uffici territoriali del governo, infatti, si sono visti obbligati a prorogare contratti in essere o a bandire più volte per reperire posti, spesso in risposta alla decisione, da parte di alcune realtà di consolidata esperienza nell’accoglienza, di non partecipare alle gare.
Con la nuova normativa, il sistema della prima accoglienza recupera teoricamente il suo originario carattere di transitorietà, con misure finalizzate all’espletamento delle operazioni utili alla definizione della posizione giuridica dello straniero come richiedente asilo (verbalizzazione della domanda di protezione e avvio dell’iter). Si torna dunque ad un sistema unico di accoglienza come già avveniva con lo Sprar, sebbene l’odierno Sai (Sistema di accoglienza e integrazione) si sviluppi su due livelli di servizi e di fatto precluda ai richiedenti asilo l’accesso ad alcuni servizi volti all’integrazione e all’orientamento lavorativo.
Il Sai, seppur con molti limiti, quindi, rappresenta un miglioramento rispetto al Siproimi. Tuttavia, si tratta di miglioramenti di cui potranno godere solo quei pochi richiedenti asilo che riusciranno, più o meno casualmente, ad accedere a questo circuito di accoglienza, tuttora residuale.
La necessità di un dibattito informato e della valutazione delle politiche
Se da una parte, dunque, nella storia del sistema di accoglienza italiano (ormai più che ventennale) il ricorso a misure straordinarie e ad una gestione di tipo emergenziale è divenuto la regola, dall’altra, il denominatore comune è rappresentato dalla carenza di informazioni e dalla opacità del circuito straordinario.
La relazione annuale sul sistema di accoglienza che il Ministero dell’interno dovrebbe pubblicare per legge entro il 30 di giugno viene regolarmente presentata in ritardo. Il rinvio della pubblicazione è variabile e nell’ultimo anno ha superato i sei mesi. Non esiste, ad oggi, un sistema centralizzato di informazioni sul sistema di accoglienza realmente accessibile, dal quale sia possibile estrapolare informazioni non aggregate per analisi e studi indipendenti. Né esistono degli strumenti di accountability che consentano ai decisori di valutare le politiche per elaborarne di nuove ed efficaci e al parlamento di esercitare il ruolo di controllo che gli è proprio.
ActionAid e openpolis hanno condotto negli anni un percorso di analisi inedito, impegnandosi a fare luce sul sistema di accoglienza a partire dai dati oggettivi, quelli amministrativi. Per farlo, in assenza di trasparenza, siamo stati costretti a continui accessi agli atti, ai quali spesso è necessario far seguire procedura di riesame, ricorso al TAR e persino al Consiglio di Stato.
Un dibattito informato è necessario non solo per gli aspetti legati alla trasparenza della gestione da parte della pubblica amministrazione, ma anche per evitare speculazioni sulle spalle dei migranti e strumentalizzazioni che viviamo da troppo tempo. Norme e politiche volte alla contrazione dei diritti dei migranti (dal “muro di norme” della legge Minniti Orlando al decreto sicurezza dell’ex ministro Salvini, per nominare solo due degli ultimi pilastri della criminalizzazione delle dinamiche migratorie) hanno costituito un elemento per disciplinare anche le comunità accoglienti. In un momento di crisi sociale e sanitaria, l’antagonismo nei confronti di una parte facilmente riconoscibile del corpo sociale ha l’effetto di rendere più accettabile la condizione difficile che si vive, avendo i decisori (agli occhi degli autoctoni) fatto il possibile per tutelare, gli interessi della popolazione locale nella “competizione per le risorse”.
L’importanza di un’analisi capillare
L’analisi dei territori come quella avviata nell’ultimo numero del rapporto Centri d’Italia “Una mappa dell’accoglienza” è fondamentale. La conoscenza diffusa dell’incidenza degli accolti a livello comunale, provinciale e regionale, le tipologie di contratto di assegnazione con i relativi costi e servizi, il coinvolgimento degli enti locali per evitare la creazione di sistemi di “welfare parallelo” (M. Giovannetti, La frontiera mobile dell’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati in Italia, Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 1/2019) e garantire la continuità della presa in carico e il ruolo sussidiario del terzo settore, la trasmissione di buone pratiche: sono tutti elementi chiave per il disegno ed il monitoraggio delle politiche pubbliche in materia di accoglienza dei migranti.
Fino a quando la maggioranza dei richiedenti asilo che si trovano sul territorio nazionale sarà ospitata in centri straordinari, non ci potrà essere un approccio sistemico all’accoglienza sui territori. Fino a quado informazioni di dettaglio non verranno fornite con regolarità, sarà difficile diffondere l’importanza di un sistema ordinario a titolarità pubblica ed i vantaggi che da questo possono derivare per la comunità ospitante, oltre che per le stesse persone accolte e dunque per l’intero sistema.
Al contrario il Viminale continua a negare non solo il rilascio di informazioni essenziali sul sistema di accoglienza ma anche dati fondamentali sulle attività di monitoraggio della gestione dei centri di accoglienza svolte da parte del Ministero dell'Interno e dalle Prefetture.
ActionAid chiede ora al nuovo governo di non mancare l’opportunità per un’azione concretamente democratica: ci aspettiamo che le istituzioni rispondano positivamente a questa operazione di trasparenza, poiché rientra nelle loro prerogative e responsabilità.