L’Unione europea tra voglia di Occidente e capacità politica
L’aggressione russa dell’Ucraina di più di un anno fa ha radicalmente sconvolto la prognosi fatta da Emmanuel Macron nell’autunno del 2019. Sulla scia del disimpegno americano dal nord della Siria, della nuova politica estera aggressiva della Turchia e sul mancato coordinamento del processo decisionale strategico tra Stati Uniti ed alleati, il presidente francese si era espresso con parole sferzanti nei confronti dell’alleanza atlantica, accusandola di trovarsi in uno stato di “morte celebrale”.
Effettivamente, se la NATO ha svolto tra il 1949 e il 1991 la sua funzione originaria di difesa dell’Europa occidentale contro l’espansionismo sovietico, con la fine dell’URSS e la dissoluzione del Patto di Varsavia, quell’ombrello geopolitico è progressivamente venuto meno. E quel declino ha preso forma sia per responsabilità dei paesi europei – si pensi agli stanziamenti ben al di sotto della soglia del 2% del PIL delle spese per la difesa – sia per le parole di Trump che hanno creato turbolenze tra le due sponde dell’oceano e per le azioni culminate sotto l’amministrazione Biden con il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. Quel 15 agosto del 2021 ha messo infatti in evidenza tutta la mancanza di coordinamento di una organizzazione che pure per decenni ha assicurato pace e stabilità a tutta l’area europea e nordatlantica, consentendo la cooperazione nei settori della difesa e della sicurezza nonché l’implementazione di una stabile agorà per il dialogo geopolitico tra le parti.
La guerra in Ucraina ha completamente sparigliato le carte in tavola e radicalmente cambiato alcuni pattern, in particolare sul lato europeo. Se l’amministrazione Biden ed il Congresso sono intervenuti sul piano finanziario stanziando risorse per oltre 73 miliardi di euro, è sul lato destro dell’Atlantico che si stanno determinando profondi mutamenti geopolitici in termini di potenziali e attuali allargamenti.
Dopo un anno dall’inizio di quella brutale invasione infatti l’Unione europea si appresta ad ingrandirsi: nel giugno del 2022 Ucraina e Moldavia sono diventate ufficialmente paesi candidati ad entrare nell’Unione. Per quanto il percorso non sarà né semplice né di breve durata per le riforme economiche e quelle relative allo stato di diritto che dovranno essere messe in pratica da entrambi, ma intanto la porta europea è stata aperta. A sua volta, questa apertura potrebbe dare da un lato un’accelerazione ai negoziati con quei paesi che candidati lo sono da tempo, come Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia del Nord, e dall’altro una spinta riformista dell’Ue per permetterle di funzionare con ulteriori allargamenti ad est. Se fino a poco tempo fa gli interessi tra i partner NATO risultavano essere divergenti, inclusi quelli tra i membri europei, la risposta dell’Unione è stata univoca e compatta: 5 milioni di rifugiati ucraini accolti, 3,6 miliardi di euro mobilitati per il supporto militare alle forze armate dell’Ucraina, 50 miliardi di sostegno complessivo e ben dieci pacchetti di sanzioni nei confronti della Russia. Al contempo si è assistito per un verso al ribilanciamento a favore dell’Europa orientale, con Polonia e Paesi Baltici in testa, così come ad una accelerazione sull’ingresso di Finlandia e Svezia nella NATO, prevista per il vertice di Vilnius nel giugno2023. La loro adesione dipende dal via libera turco e ungherese, a tale proposito sembrano esserci spazi di apertura. Che il via libero definitivo per entrambi i paesi verrà dato entro giugno può essere ancora considerata una visione ottimista, ma che ciò avverrà nel breve termine sembra essere scontato. In ogni caso, la loro richiesta comune di adesione pone fine ad un altro dei pattern rimasto in piedi per decenni: fine alla lunga tradizione del non-allineamento, perno del loro approccio strategico teso a mantenere un rapporto cooperativo e di equidistanza tra blocco occidentale e comunista durante la guerra fredda e tra Occidente e Russia poi. È poi radicalmente cambiato l’approccio pragmatico di merkeliana memoria, tradotto a livello politico da parte dell’Unione europea in un atteggiamento intransigente, volto al contenimento delle mire espansionistiche russe.
Da ultimo, si evidenzia un ritorno nella Germania nella “storia” tramite la cosiddetta Zeitenwende (svolta epocale): sono bastati infatti tre giorni dall’inizio della guerra in Ucraina per includere finalmente la politica estera e di sicurezza nella cassetta degli attrezzi della propria politica internazionale, iniziando a lasciarsi alle spalle quella sorta di ritegno speciale e unico nel prendere posizioni forti anche in quei campi. Come poi recentemente affermato sulla rivista Foreign Affairs dallo stesso cancelliere tedesco Olaf Scholz nel dicembre 2022, la sua visione è quella di una “Germania che intende diventare garante della sicurezza europea”. Al netto delle difficoltà di implementazione, si pensi ai 100 miliardi di euro stanziati ad inizio marzo 2022 per il rinnovamento della Bundeswehr, il potenziamento della presenza militare tedesca nei battlegroups stanziati sul fianco Est dell’Alleanza Atlantica (in Lituania, Slovacchia, Estonia e Polonia), il contributo alla difesa navale del Mar Baltico, e la proposta, accolta da 14 paesi dell’UE, dell’European Sky Shield Initiative, un progetto di difesa dello spazio aereo europeo da implementare con accordi paralleli all’esistente framework della NATO. Non si dimentichi poi lo sblocco dell’invio dei carri armati Leopard, per nulla scontato se si pensa al rapporto unico che questo Paese ha con la guerra, la memoria e la sua sofferta elaborazione che dal dopoguerra contraddistinguono i tedeschi e la loro classe politica.
Per riassumere, ciò che sembrava “morto cerebralmente” è nel giro di qualche giorno resuscitato. Ciò che sembrava quasi impossibile, quella perseverante e intransigente unità europea, si è rivelata fin da subito fondamentale per gli esiti della guerra. Ciò che sembrava tutt’altro che probabile, come un ritorno tedesco nella storia, è ormai una realtà. In base a questi elementi, si può affermare che l’Occidente, con NATO e Ue al seguito, è vivo, compatto ed è alle prese con una svolta epocale.
Pur tuttavia, risultano altrettanto evidenti alcuni punti su cui è bene che gli europei riflettano. La difesa europea resta in modo inevitabile vincolata al ruolo degli Stati Uniti e della NATO. Mancati coordinamenti e interventi strutturali negli anni passati non hanno favorito una preparazione tale da poter sostenere autonomamente un intervento a sostegno dell’Ucraina. L’autonomia strategica avanzata da Emmanuel Macron e dalla Commissione “geopolitica” di Ursula Von der Leyen non sembra poter bilanciare in termini sostanziali il contributo da parte statunitense. Con o senza guerra alle porte dell’Unione sembrano mancare elementi di forte solidità relativi al motore franco-tedesco che, per motivi legati alla loro rispettiva politica interna, difficilmente sembra voler (poter?) favorire riforme europee non più prorogabili, in particolare in politica estera e di sicurezza comune, dossier su cui, insieme agli ambiti della fiscalità, di sicurezza sociale, di adesione di nuovi Stati all’Ue e di cooperazione di polizia operativa tra i paesi membri, vige ancora l’unanimità. Non sembra ancora bastare la policrisi europea, che ha caratterizzato gli ultimi quindici anni, a quantomeno tentare di riformare il Trattato di Lisbona, firmato nel lontano 2007; un altro mondo, dunque, in cui le crisi finanziaria, economica, migratoria, securitaria, pandemica, ecologica erano ancora di là da venire. Una policrisi i cui effetti sono ben visibili nei vari rapporti dell’Eurobarometro che mostra una opinione pubblica preoccupata per l’aumento del costo della vita, seguito dalla paura di esclusione sociale e povertà, nonché dal potenziale allargamento del conflitto ucraino ad altri Paesi.
È dirimente per l’Ue che in situazioni come queste non si avanzino risposte nazionali per risolvere problemi di portata europea ed internazionale. Se non c’è una volontà (forza?) politica di riformare i trattati o di intervenire su alcune policies specifiche, si eviti quantomeno di dare voce a quella tentazione dei governi di rispondere in solitaria, a discapito di un coordinamento europeo. Queste risposte, se non coordinate, non permetterebbero infatti un respiro ampio, europeo ed internazionale nei vari ambiti indicati precedentemente, ma potrebbero anzi favorire uno scollamento tra l’operato dell’Unione e quello che si aspetta proprio l’opinione pubblica, i cui tre quarti si dicono ancora favorevoli al sostegno europeo in Ucraina, ma dove iniziano ad intravedersi dei distinguo, come per esempio in Italia, dove la percentuale dei favorevoli si attesta al 62%.
In questa era dell’incertezza, è fondamentale dunque che non sia la logica esclusivamente nazionale a prevalere poiché quest’ultima non permetterebbe di andare oltre il proprio giardino in un tempo in cui sono le grandi potenze a dettare legge - USA, Russia e Cina su tutte. Se invece si opterà di comune accordo a soluzioni tali da permettere il giusto equilibrio tra gli interessi nazionali e il consolidamento di politiche comuni basate su regole condivise, l’Ue potrà essere fornita di visione e della giusta spinta politica atte a navigare in questo tempo arduo.