Le ambizioni del Piano Mattei con l’Africa

Mario Giro
Professore straordinario di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università per Stranieri di Perugia, già Vice Ministro degli Affari Esteri

Il Piano Mattei giunge in un momento particolare per le relazioni tra Africa ed Europa. Assistiamo ad una specie di rottura sentimentale e alla nascita di un’Africa come soggetto autonomo che non sopporta più i paternalismi del passato ma cerca i suoi partner altrove e li vuole liberamente scegliere. Ciò comporta anche una mutazione nella governance con conseguenze per ciò che concerne la democrazia.

Il desiderio di democrazia in Africa non è venuto meno ma si è modificato: il continente è teatro di notevoli cambiamenti che investono in particolare le giovani generazioni. La domanda democratica dei popoli africani è nata con l’aspirazione all’indipendenza: la ricerca di autodeterminazione politica andava di pari passo con quella dell’eguaglianza sociale nel quadro di uno stato di diritto. L’esplosione di sentimenti democratici all’epoca delle conferenze nazionali degli anni ’90 lo conferma in maniera inequivocabile. Com’è avvenuto più tardi con le primavere arabe, il fallimento della traduzione pratica di tali spinte non significa che sia venuta meno l’aspirazione ad un cambiamento ma la delusione è grande e crescente.

Nuove forme di mobilitazione della società (si pensi ai social media divenuti veri spauracchi per i governi in carica) testimoniano la vitalità resiliente di alcuni strati della popolazione, in particolare tra i giovani in zona urbana che chiedono più inclusività. Per contrastare tale deriva è prioritario non lasciar deperire soprattutto i settori sanitario, formativo ed educativo. La democrazia in Africa ha i suoi sostenitori che non vanno abbandonati. Se le alternative estremiste (jihadiste, militari o wagner) fioriscono a causa delle delusioni democratiche, la democrazia rimane una delle condizioni di stabilità del continente a lungo termine.

Sempre più spesso la liberal-democrazia viene considerata dai giovani africani come il cavallo di Troia dell’ingerenza internazionale a causa di un’economia estrattiva e predatoria che sembra essere una maledizione. Altre volte è stata deviata in forme di scontro etnico tra gruppi o clan in lotta fra loro. La speranza non si spegne del tutto ma molti giovani “votano con i piedi” cioè se ne vanno.

Dopo la generazione sacrificata dell’aggiustamento strutturale (1985-2000), oggi ne è giunta a maturità un’altra che non vuole fare la stessa fine. Per questo si ribella a modo suo e non si fida più di nessuno. La sfida è ricreare un terreno d’intesa riscostruendo le basi di un dialogo comune. La polemica anti-coloniale o neocoloniale ha le sue conseguenze e viene strumentalizzata dalle élite africane per difendersi dai propri giovani.

 In Africa si pensa che la decolonizzazione non sia stata del tutto completata, non solo a causa del neocolonialismo economico ma soprattutto per l’assenza di “decolonizzazione mentale”. Tornano in auge tra i giovani africani i fautori di una linea radicale come Franz Fanon o alcuni leader dell’indipendenza come Patrice Lumumba, Thomas Sankara e così via. Non stupisce che alcuni regimi del sud ne approfittino per consolidarsi al potere. Sono tornate alla superficie le polemiche sulla tratta degli schiavi, rimaste in sospeso dopo il fallimento della conferenza ONU di Durban del 2001 (quella “contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza”). Intellettuali del sud globale - molto ascoltati dai giovani - sostengono che il colonialismo sia stato “l’atto di forza fondativo” dell’Occidente che ha consentito la rivoluzione industriale, offrendogli il dominio del mondo.

Contrastare (soprattutto sul piano sentimentale ed emotivo) tale visione degli ultimi 500 anni è molto difficile: schiavismo e tratta sono esistiti; cosi come lo sfruttamento, il lavoro servile e varie forme di neocolonialismo. Come effetto si è instaurata una concorrenza tra vittimismi, una corsa alla loro gerarchizzazione, confondendo passato e presente schiacciati in un’unica melassa.

Davanti alla forza del revisionismo ideologico in atto, la proposta del Piano Mattei assume la sua rilevanza innanzi tutto sul piano simbolico e politico. Si tratta di reagire in maniera non paternalistica ma nemmeno tecnocratica o soltanto finanziaria. Il fatto che team di diplomatici ed esperti italiani stiano già girando il continente a chiedere l’opinione degli africani, guardare e ascoltare, lancia già di per sé un messaggio in senso opposto: senza pregiudizi né luoghi comuni, l’Italia è disposta ad accogliere ogni proposta e vagliarla assieme.

Il primo livello di risposta deve essere politico: ascolto e continuità di presenza sono le chiavi per una nuova relazione Italia-Africa. Il successo del vertice di gennaio scorso deve molto al modo in cui è stato fatto, al rispetto e alla solennità che sono stati utilizzati nei confronti dei leader africani. Condizionalità e imposizioni (anche giuste) non funzionano più: è con tali classi dirigenti che si deve lavorare, assieme alle loro società civili, se si vuole raggiungere lo scopo.

Cosa deve esserci nel Piano Mattei per reagire alle sfide dell’Africa odierna?

Per ottenere un impatto reale non può che basarsi sul lungo termine e accettare la sfida del grande problema dei giovani, della loro sicurezza e del loro futuro. Dobbiamo essere consapevoli che l’Africa produrrà ancora per lungo tempo migranti, almeno fino a che non potrà disporre di una produzione locale fruibile per il proprio mercato interno.

Il Piano Mattei dovrebbe prevedere lo spostamento progressivo verso l’Africa di una parte delle produzioni, della manifattura o delle industrie di trasformazione europee, in specie nel settore agroalimentare. L’Italia può dare l’esempio. È la sola strada per ottenere una dinamica di sviluppo virtuosa. Non basta un piano di aiuti di emergenza, pur sempre necessari: ci vuole un progetto sociale ed economico a lungo termine.

Qui si innesta la seconda condizione: negoziare con gli africani stessi. Non farlo sarebbe proseguire sulla strada seguita fino ad ora dall’Europa che - giusta o sbagliata - non ha portato a buoni risultati. Non si tratta solo di una questione morale, etica o di diritti: è un tema squisitamente politico. Anche ammettendo che le nostre idee siano migliori e che il nostro approccio sia più equo, non è più il tempo per imposizioni, paternalismo o anche semplici indicazioni. Gli africani non accetterebbero in nessun caso. Per tali ragioni occorre trattare e trovare convenienze e convergenze comuni.

Quali sono le sfide più evidenti per l’Italia e l’Africa? Innanzi tutto c’è un tema strutturale: la tenuta degli Stati. All’Italia (come all’Europa tutta) serve che in Africa vi siano Stati resilienti, in pieno controllo del proprio territorio. L’esperienza libica ha fatto comprendere sin troppo bene a entrambi quanto sia complicato accordarsi con milizie, gruppi armati e altri soggetti simili. Va evitato il caos gestito da soggetti armati senza alcuna legittimità e dediti a traffici di ogni tipo e ciò non vale solo per l’Italia o l’Europa ma anche per l’Africa. La privatizzazione della violenza uccide le nazioni. Occorre difendere la tenuta degli Stati sub-sahariani perché senza di essi non ci sarebbe alcun soggetto con cui accordarsi, né alcuna possibilità di progettare lo sviluppo. Certamente sarebbe meglio avere a che fare con Stati democratici. Tuttavia anche Stati in transizione o ancora indietro su tale terreno sono comunque degli interlocutori necessari.

Serve una politica di cooperazione e sicurezza che l’Italia non può svolgere in solitaria: in Africa è necessario un accordo europeo a cui aggiungere intese con altri, per esempio Turchia, paesi del Golfo ecc. La politica italiana con il Niger è un esempio di cooperazione sulla sicurezza italo-africana in cui i nigerini sono certi che li stiamo aiutando senza approfittarne. A tali condizioni il Piano Mattei può puntare a gestire i flussi incontrollati di emigrazione, evitando anche molte morti in mare o nel deserto. Se si vuole ottenere la collaborazione degli Stati di origine e transito occorre offrire in cambio qualcosa di concreto come la fine delle doppie imposizioni, i trasferimenti pensionistici, la cooperazione tecnologica, lo spostamento delle produzioni, in particolare agricole e così via.

L’Africa deve poter produrre e trasformare in loco: è questa la chiave. Come già detto l’economia della rendita da materie prime non è più sufficiente ed è diventata invisa alle popolazioni locali che la leggono come sfruttamento, paternalismo o neocolonialismo. Essenziale sostenere il settore educativo e sanitario: se i giovani africani pensano di non potersi istruire né curare, se ne vanno. Esperienze italiane in Africa già esistono e se ne può aumentare la magnitudine e l’impatto.

Oltre a quello pubblico, cioè sanità, educazione e formazione, è nel settore agricolo che l’Italia può fare di più, mediante un partenariato tecnologicamente innovativo e la trasformazione dei prodotti in loco. Possiamo dare un grosso contributo alla nascita di un’industria agroalimentare africana mediate le nostre PMI, anche se questo ci costerà il dover cedere su qualcosa. L’Italia ha il know how necessario e migliaia di produttori piccoli e medi che possono trasmetterlo. Un grande piano Italia-Africa sull’agribusiness andrebbe ad incidere davvero sulla realtà africana rurale intercettando molti giovani e aiutandoli a fissarsi sul territorio con politiche di modernizzazione agricola.

Vi sono anche altri settori importanti del Piano Mattei come l’energia, il turismo, l’edilizia ecc. L’agribusiness resta tuttavia strategico dal punto di vista occupazionale e quindi anche in funzione di contenimento migratorio. È evidente che per una tale operazione serve tempo e pazienza.

Infine un ulteriore capitolo per il Piano Mattei sono le opere infrastrutturali. Non bisogna solo immaginare grandi opere: in Africa mancano le opere medie, le strade intermedie di collegamento, i porti e gli aeroporti medi, i corridoi secondari, gli snodi intermodali e la logistica afferente. Ciò vale anche per l’energia: mini o micro grids e altri sistemi localizzati per fornire energia laddove l’alta tensione non può arrivare perché antieconomica. Non sempre il gigantismo è sufficiente: sono necessari i grandi varchi per collegare l’Africa Atlantica a quella dell’Oceano Indiano, oppure la dorsale nord sud o anche la grande strada costiera dell’Africa occidentale e centrale. Se ne stanno già occupando i cinesi ma anche la UE con il programma Global Gateway. Lanciato nel 2021 quest’ultimo vuole essere la risposta europea all’aggressività strategica di Pechino. Il Gateway è ben finanziato e mobilita il settore privato. Con il Piano Mattei, l’Italia può entrare nel Global Gateway mediante le proprie grandi imprese private di trasporto e grandi opere.

Potremmo anche creare un programma parallelo per aggiungere le linee secondarie: proprio quelle che riguardano le aree interne dei paesi africani da dove si muove la massa dei giovani che cercano di raggiungere le città maggiori.

Ciò che già si sta facendo è inventare e mettere in pratica il tanto atteso sistema circolare delle migrazioni: la possibilità di venire a formarsi in Italia e anche a lavorarci per un periodo, per poi rientrare (disseminando così know how) ed avere la possibilità - dopo un congruo numero di anni - di ritornare per riciclaggio o specializzazione e così via. È il modo per non rassegnarsi all’irregolarità e ai trafficanti privilegiando vie legali e sicure.

Si dice che il Piano non possiede sufficienti risorse: è vero ma non si tratta solo di denaro. Se l’Italia riuscirà con il Piano Mattei a impostare una partnership rinnovata avrà fatto un vero salto di qualità che sarà positivo per l’Europa tutta.