Che impatto avrà l’elezione di Donald Trump sulle guerre in corso? È la domanda che si pongono tutte le cancellerie e a cui, in campagna elettorale, il neo eletto presidente USA ha già dato una risposta proclamando più volte la sua volontà di porre fine ai conflitti armati in Ucraina e in Medio Oriente. Obiettivo facile a proclamarsi, più complesso da realizzare.
Per ciò che riguarda l’Ucraina, se un’ipotesi negoziale - auspicata da tutti - non si è dimostrata fino ad oggi praticabile è per la condizione preventiva posta da Putin di veder riconosciute le annessioni alla Federazione Russa della Crimea e dei territori ucraini del Donbass occupati dall’esercito russo dal febbraio ‘22 ad oggi. Una condizione che il Presidente russo ritiene non negoziabile e che l’Ucraina rifiuta perché significherebbe la mutilazione della sua integrità territoriale. Dunque, per mettere fine alla guerra russo-ucraina Trump dovrebbe convincere gli ucraini ad accettare un accordo umiliante che legittimerebbe un’invasione che tutta la comunità internazionale ha condannato come inaccettabile violazione del diritto internazionale e delle regole di convivenza tra le nazioni. Certo sarebbe una pace “né giusta, né sicura” che premierebbe l’aggressore e punirebbe l’aggredito. Una soluzione che susciterebbe forti reazioni negative in Ucraina, destabilizzandone gli equilibri interni. È tuttavia possibile che Trump intraprenda quella strada, anche usando l’interruzione delle forniture militari per piegare gli ucraini. Forse si prometterà a Kiev la certezza di ingresso nella NATO, anche se più volte Trump ha manifestato la sua scarsa considerazione verso l’Alleanza Atlantica. E forse si prometteranno a Kiev consistenti risorse per la ricostruzione di ciò che la guerra ha distrutto. Ma in ogni caso l’atteggiamento di Trump appare condizionato più dalla volontà di ristabilire un rapporto con Putin che dalla esigenza di difendere le ragioni di un Paese aggredito.
Diverso lo scenario mediorientale.
La consonanza tra Trump e Netanyahu è inversamente proporzionale ai critici rapporti del governo di Israele con l’amministrazione Biden. Peraltro Trump può vantare fatti che gli sono valsi fin qui la fiducia della attuale leadership israeliana: ha dato corso al trasferimento, sul piano formale, dell’ambasciata USA a Gerusalemme, riconoscendone il carattere di unica e indivisibile capitale di Israele; ha promosso e patrocinato gli Accordi di Abramo tra Israele e gli Emirati; intrattiene buone relazioni con la dirigenza saudita il cui ruolo per una soluzione di pace e stabilità è decisivo. Non è difficile immaginare dunque che Trump voglia riprendere quel cammino, rassicurante per Israele, anche se assai meno chiaro è il rapporto con la dirigenza palestinese verso la quale il Presidente americano si affiderà probabilmente alla mediazione dell’Arabia Saudita, l’unico paese arabo che può patrocinare la nascita di uno Stato palestinese a guida moderata che non comprometta la sicurezza di Israele.
Tutto questo potrà avere una rilevante influenza sulle dinamiche politiche interne di Israele. Netanyahu ha fatto di una radicale intransigenza il mantra della sua politica, conducendo una guerra spietata e infliggendo ai palestinesi costi umani altissimi, anche a costo di sacrificare gli ostaggi in mano ad Hamas. Peraltro la eliminazione dei principali dirigenti di Hamas e Hezbollah consente a Netanyahu di presentarsi agli israeliani come il difensore della loro sicurezza e della stessa esistenza di Israele, rafforzando la propria permanenza al potere e creando condizioni favorevoli a una conferma nel momento in cui si andrà ad elezioni. Uno scenario che certo può non spiacere a Trump, anche se i più recenti sondaggi registrano una riduzione dei consensi al Likud a favore di una crescita dei partiti di opposizione.
In ogni caso lo scenario che si prefigura mette l’opposizione israeliana - che anche in questi giorni ha dimostrato la propria combattività - nella necessità di aggiornare la propria strategia per perseguire una pace che non rinunci all’unica soluzione di stabilità e convivenza: certezze per lo Stato di Israele e una patria per i palestinesi. Saranno comunque le prime mosse del Presidente americano a rendere chiaro che piega prenderanno le cose.
Trump e le guerre
Che impatto avrà l’elezione di Donald Trump sulle guerre in corso? È la domanda che si pongono tutte le cancellerie e a cui, in campagna elettorale, il neo eletto presidente USA ha già dato una risposta proclamando più volte la sua volontà di porre fine ai conflitti armati in Ucraina e in Medio Oriente. Obiettivo facile a proclamarsi, più complesso da realizzare.
Per ciò che riguarda l’Ucraina, se un’ipotesi negoziale - auspicata da tutti - non si è dimostrata fino ad oggi praticabile è per la condizione preventiva posta da Putin di veder riconosciute le annessioni alla Federazione Russa della Crimea e dei territori ucraini del Donbass occupati dall’esercito russo dal febbraio ‘22 ad oggi. Una condizione che il Presidente russo ritiene non negoziabile e che l’Ucraina rifiuta perché significherebbe la mutilazione della sua integrità territoriale. Dunque, per mettere fine alla guerra russo-ucraina Trump dovrebbe convincere gli ucraini ad accettare un accordo umiliante che legittimerebbe un’invasione che tutta la comunità internazionale ha condannato come inaccettabile violazione del diritto internazionale e delle regole di convivenza tra le nazioni. Certo sarebbe una pace “né giusta, né sicura” che premierebbe l’aggressore e punirebbe l’aggredito. Una soluzione che susciterebbe forti reazioni negative in Ucraina, destabilizzandone gli equilibri interni. È tuttavia possibile che Trump intraprenda quella strada, anche usando l’interruzione delle forniture militari per piegare gli ucraini. Forse si prometterà a Kiev la certezza di ingresso nella NATO, anche se più volte Trump ha manifestato la sua scarsa considerazione verso l’Alleanza Atlantica. E forse si prometteranno a Kiev consistenti risorse per la ricostruzione di ciò che la guerra ha distrutto. Ma in ogni caso l’atteggiamento di Trump appare condizionato più dalla volontà di ristabilire un rapporto con Putin che dalla esigenza di difendere le ragioni di un Paese aggredito.
Diverso lo scenario mediorientale.
La consonanza tra Trump e Netanyahu è inversamente proporzionale ai critici rapporti del governo di Israele con l’amministrazione Biden. Peraltro Trump può vantare fatti che gli sono valsi fin qui la fiducia della attuale leadership israeliana: ha dato corso al trasferimento, sul piano formale, dell’ambasciata USA a Gerusalemme, riconoscendone il carattere di unica e indivisibile capitale di Israele; ha promosso e patrocinato gli Accordi di Abramo tra Israele e gli Emirati; intrattiene buone relazioni con la dirigenza saudita il cui ruolo per una soluzione di pace e stabilità è decisivo. Non è difficile immaginare dunque che Trump voglia riprendere quel cammino, rassicurante per Israele, anche se assai meno chiaro è il rapporto con la dirigenza palestinese verso la quale il Presidente americano si affiderà probabilmente alla mediazione dell’Arabia Saudita, l’unico paese arabo che può patrocinare la nascita di uno Stato palestinese a guida moderata che non comprometta la sicurezza di Israele.
Tutto questo potrà avere una rilevante influenza sulle dinamiche politiche interne di Israele. Netanyahu ha fatto di una radicale intransigenza il mantra della sua politica, conducendo una guerra spietata e infliggendo ai palestinesi costi umani altissimi, anche a costo di sacrificare gli ostaggi in mano ad Hamas. Peraltro la eliminazione dei principali dirigenti di Hamas e Hezbollah consente a Netanyahu di presentarsi agli israeliani come il difensore della loro sicurezza e della stessa esistenza di Israele, rafforzando la propria permanenza al potere e creando condizioni favorevoli a una conferma nel momento in cui si andrà ad elezioni. Uno scenario che certo può non spiacere a Trump, anche se i più recenti sondaggi registrano una riduzione dei consensi al Likud a favore di una crescita dei partiti di opposizione.
In ogni caso lo scenario che si prefigura mette l’opposizione israeliana - che anche in questi giorni ha dimostrato la propria combattività - nella necessità di aggiornare la propria strategia per perseguire una pace che non rinunci all’unica soluzione di stabilità e convivenza: certezze per lo Stato di Israele e una patria per i palestinesi. Saranno comunque le prime mosse del Presidente americano a rendere chiaro che piega prenderanno le cose.