I Paesi balcanici e la prospettiva di adesione all'Unione Europea
Non esiste documento, né dichiarazione dei leader europei, che non riconosca che il modo più appropriato per assicurare stabilità all’intero continente europeo sia ancorare, in maniera permanente e coerente, i Paesi balcanici ad una prospettiva di adesione all’Unione Europea.
Aprire la strada dell’integrazione ai Paesi della ex Jugoslavia (ed all’Albania) e permettere loro di uscire da un limbo politico (e non solo) nel quale la storia e la geografia li ha confinati, viene ritenuto, più che desiderabile, necessario.
Al processo di allargamento vengono quindi spesso attribuite le caratteristiche della ”ineluttabilità”: un processo, dunque, da attuare auspicabilmente senza eccessivi ritardi poiché, in mancanza di una chiara prospettiva europea, i Paesi dell’area rischierebbero, da un lato, il riemergere o l’approfondirsi delle tragiche problematiche intra–regionali che hanno pesantemente caratterizzato gli ultimi due decenni, e dall’altro, di venire sottoposti al condizionamento ed alle ingerenze di forti poteri regionali che bussano alle porte dell’Europa. Su tali considerazioni – a parte alcuni inevitabili distinguo- si registra una generale concordanza.
C’è da chiedersi se – a partire da tale analisi più o meno accettata da tutti – gli attori Europei (a partire dalla Commissione UE) abbiano agito con coerenza e con la necessaria decisione nel corso degli anni.
Qualche dubbio potrebbe sorgere se si considera che, dall’aperto sostegno per le prospettive di “adesione “ dei Paesi dell’area, formalizzato ben quindici anni orsono a Salonicco e coronato in maniera molto parziale solo dall’ingresso di Slovenia e , molto dopo, della Croazia, ci troviamo oggi di fronte ad una Dichiarazione di Sofia non solo dai toni molto meno entusiastici, ma che evita accuratamente di parlare di adesione e nuovo allargamento, rifugiandosi nella formula più realistica di “prospettiva europea”, e suscitando così uno strisciante senso di delusione nei governanti balcanici.
D’altra parte, a cavallo di un lungo periodo di stallo, i passaggi intermedi tra Salonicco e Sofia non facevano presagire molto di più. Dalla “ doccia fredda” dispensata ai Paesi dell’area dall’allora neo – eletto Presidente Junker nel 2014, che con franchezza annunciava che nulla si sarebbe mosso in materia di allargamento durante il suo mandato (solo temperato qualche anno dopo dal discorso del settembre 2017) , alla presentazione della strategia per l’allargamento della Commissione pubblicata nel febbraio di quest’anno, fino alla già citata Dichiarazione di Sofia, il cammino appariva ben tracciato : “prospettive “ di allargamento si , ma attraverso un cammino estremamente prudente , caratterizzato da un puntuale e , direi , puntiglioso rispetto dei criteri di Copenaghen ed a patto che ogni disputa bilaterale venisse previamente risolta. La parola adesione sbiadiva fino a sparire.
Una scelta cosi “conservatrice” è da biasimare? Probabilmente no, considerati gli insufficienti progressi necessari per l’adesione da parte di quasi tutti i pretendenti nelle materie più significative, ed anche tenuto conto di crescenti perplessità emerse di recente in alcuni partner, anche di peso, all’interno dell’Unione. Allo stato, dunque, la strategia di allargamento resta fermamente ancorata al principio di condizionalità e rimane articolata in una serie di adempimenti vincolati all’acquis comunitario.
Alcune domande tuttavia si impongono.
Mantenere un “buco nero“ nella pancia stessa della costruzione europea per ancora lunghi anni può essere considerata una politica saggia ? Si tratta in fondo di paesi che - come è stato correttamente osservato - hanno, tutti assieme, l'estensione della Romania ed un PIL pari a quello della Slovacchia.
Sarebbe così proibitivo per una Unione che, solo alcuni anni fa, è riuscita a pagare il conto e "digerire" l'enorme allargamento ad est inglobando Paesi (che, tra l'altro oggi non mostrano grande spirito europeo), favorire in tempi ragionevolmente brevi una adesione dei Paesi dei Balcani occidentali, operazione che unanimemente viene ritenuta di grande valore per la sicurezza e la stabilità di tutto il continente?
I criteri di Copenaghen sono indubbiamente stati fondamentali per guidare il cammino dei richiedenti verso l'adesione. Mantenerli tuttavia rigidi ed immutabili ancora oggi e per il prevedibile futuro per comunità che hanno avuto una storia tragica e del tutto peculiare continua ad essere così necessario?
Siamo certi che il rispetto di tali principi venga più incoraggiato lasciando questi Paesi nel cuore stesso dell’Europa in un frustrante limbo, piuttosto che esercitando su di esse una forte pressione una volta fatti entrare?
È corretto, inoltre, continuare a considerare solo i vantaggi che questi Paesi ricaverebbero da una loro adesione alla UE senza tenere in conto i riscontri positivi che ci sarebbero anche per tutti noi?
La frustrazione dei leader balcanici che hanno scommesso sull'Europa è forte e non si è certo attenuata dopo Sofia. Le sirene di potenze regionali e non, aumentano di intensità. Ci sveglieremo un giorno per accorgerci che chi guardava all'Europa, spesso anche contro una parte della propria opinione pubblica, deluso dai troppi rinvii si è rivolto altrove?
Sono domande queste alle quali è difficile dare risposta ma che dovremmo comunque porci, magari con spirito nuovo e senza restare prigionieri dei consueti e vecchi nostri schemi mentali.
Il processo di Berlino, iniziato nel 2014, anche per attutire lo shock provocato nei paesi dell’area dalla chiusura di Junker all'inizio del proprio mandato ha cercato e sta cercando di dare ragionevoli risposte ed indicare realistiche strade per il futuro. Esso è oggi guidato dal Regno Unito, un paese che sta uscendo dall'UE: bisogna riconoscere che non è un bel messaggio per quanti da anni anelano ad un posto nell’Unione.
Tra tutti gli indubbi positivi effetti di questo esercizio voluto dalla Germania, il coinvolgimento della società civile costituisce forse uno degli aspetti più interessanti.
Mette conto rilevare, a tale proposito, che la cosiddetta “società civile “era già stata in precedenza chiamata da organizzazioni governative e non a dare il proprio contributo alla ricostruzione di un dialogo di prossimità con le comunità balcaniche martoriate dagli eventi degli anni novanta.
Già da quasi due decenni, con la “ Carta di Ancona “del maggio del 2000, i Ministri degli Esteri della Iniziativa Adriatico Ionica (dal cui seno sarebbe poi nata la Strategia macroregionale EUSAIR ) avevano posto le basi per ricucire un tessuto di amicizia e collaborazione non solo tra Governi ma anche tra comunità locali ed attori della vita economica e culturale con la contemporanea creazione dei Forum delle Camere di Commercio , delle Università e delle Città dell’Adriatico e dello Ionio.
La suggestiva teoria dei “cerchi olimpici “cui fanno oggi riferimento tanti studiosi, descrive bene il fenomeno che si è venuto a creare ai bordi dell’Unione grazie alle costruzioni intergovernative e macroregionali.
Si sono creati, nel corso degli anni, lungo i confini dell’Unione Europea spazi comuni tra paesi membri UE e paesi che aspirano all’adesione (e gravitano nel vicinato). Si tratta di una ulteriore visione dell’Europa, una visione policentrica e delle diversità che, lungi dal porsi come competitiva con la visione concentrica, appare capace di offrire alla costruzione europea un contributo di originalità e freschezza purché venga convenientemente sollecitata ed utilizzata. Uno sviluppo policentrico può fare crescere l’Unione anche grazie al superamento delle complessità di alcune aree, come quella dei Balcani occidentali, favorendo una correlazione più stretta tra paesi membri e paesi in via di adesione.
Le strategie macroregionali sono uno strumento relativamente nuovo, nato dalla politica regionale e mirante ad una integrazione delle politiche nazionali e sub-nazionali in diversi ambiti settoriali. Il loro lancio pubblico è stato purtroppo caratterizzato dalla discutibile formula dei “tre no “(quale pubblicitario lancerebbe un prodotto sottolineandone i limiti invece di indicarne i vantaggi e le potenzialità?).
Correttamente intesa, la EUSAIR rappresenta dunque un ulteriore strumento per favorire lo sviluppo dell’area balcanica che mira a valorizzare le diversità armonizzandoli in un quadro d’insieme. Essa ha inoltre un valore del tutto particolare se comparata alle altre costruzioni macroregionali oggi in essere, un valore che non discende solo dai progetti economici che sarà capace di promuovere ma dal suo significato strategico – politico che rimane unico.
E’ inutile nascondersi che la sua “governance “ costituisce un processo faticoso, a volte frustrante e soffre della ovvia complessità che deriva dal dover rappresentare Paesi con una partecipazione asimmetrica a causa delle diverse capacità istituzionali, di una partecipazione limitata delle parti interessate e, soprattutto, della mancanza di collegamenti e strumenti finanziari.
L’avvicinamento quasi quotidiano degli attori della EUSAIR con quelli della cooperazione sub- nazionale (soprattutto regionale) rappresenta comunque di per se un valore importante. L’Iniziativa Adriatico Ionica prima e la EUSAIR che da essa è scaturita, poi si sono dimostrate nel tempo una grande “palestra di allenamento” e di abitudine al lavoro comune tra rappresentanti a vari livelli di paesi UE e paesi “non ancora” UE in vista di una presenza futura nell’Unione. Anche questo non è un risultato disprezzabile.
La parte più intergovernativa dell’intero esercizio, la IAI, continua ad avere, dopo più di diciotto anni, un suo potere di attrazione. Solo poco tempo fa, a Catania, al termine della Presidenza italiana, il Consiglio Adriatico Ionico (Ministri degli Esteri della IAI) ha accolto la repubblica del Nord Macedonia come suo nono membro, quale uno dei primi positivi effetti dell’intesa raggiunta pochi mesi prima con la Grecia. Ancora la IAI, tramite lo strumento delle Tavole Rotonde, si caratterizza oggi come portavoce della società civile presso la EUSAIR, grazie al solido rapporto quasi ventennale che la lega ai Forum delle Camere di Commercio, delle Università e delle Città dell’Adriatico e dello Ionio.
Queste esperienze, che aggiungono alla costruzione principale una visione policentrica che fa tesoro delle diversità costituiscono, pur con tutti i loro limiti, una ricchezza che va coltivata e nutrita anche nel quadro della necessaria e non più rinviabile riflessione (o forse revisione) dei principi che hanno finora condizionato un tema così delicato come quello dell’allargamento ai paesi dei Balcani.