Verso le elezioni europee: che fine hanno fatto gli Europartiti?
In “Quale Europeismo?” Marco Piantini pone alcune questioni di grande importanza per il futuro dell’Unione. Tra le proposte avanzate, centrale è quella della costituzione di un soggetto e di una proposta politica che sappia andare oltre i confini nazionali, e capace di parlare alle opinioni pubbliche nazionali.
In teoria, attori di questo tipo già esistono nell’attuale Unione. Gli Europartiti avrebbero il compito, stando alla lettera del Trattato di Lisbona, di contribuire alla creazione di una “democrazia rappresentativa” europea. Ad ogni tornata elettorale europea, le principali famiglie partitiche europee propongono un programma comune e, nel 2014, hanno ciascuna sostenuto un candidato alla presidenza della Commissione Europea. E così si apprestano a fare per le elezioni europee del maggio 2019.
Eppure, non soltanto i cittadini europei, ma anche gli addetti ai lavori farebbero fatica ad identificare la posizione – per dire – dei popolari sulle politiche dell’accoglienza, o dei socialisti sulla mutualizzazione del debito. Dico farebbero, e non fanno, perché gli Europartiti non sono pensati per comunicare ai cittadini le loro proposte politiche. Oltre alla formulazione di generici programmi elettorali faticosamente messi insieme in vista delle elezioni europee, l’attività degli Europartiti si concentra a Bruxelles, condannandoli alla quasi totale irrilevanza presso le opinioni pubbliche nazionali.
Se vi è qualche attenzione mediatica sugli Europartiti, è in genere a causa delle loro contraddizioni e tensioni intestine. Ad esempio, la Cancelliera Merkel ed il Primo Ministro ungherese Orban condividono il tetto del Partito Popolare Europeo, mentre il leader dei liberali al Parlamento Europeo Verhofstadt ha cercato – non riuscendoci a causa dell’opposizione interna – di allearsi con il Movimento Cinque Stelle.
Paradossalmente, le regole comunitarie favoriscono questi “matrimoni d’interesse”: tanto più grandi gli Europartiti, tanto maggiore il loro potere di controllare le nomine all’interno del Parlamento e significativi i fondi che ricevono. Naturalmente, gli Orban di turno possono ringraziare per il surplus di legittimità che gli deriva dall’affiliazione con una tra le principali famiglie partitiche europee.
Un altro paradosso della politica dei partiti a livello europeo è che, se ci sono dei partiti che hanno saputo meglio di altri utilizzare il palcoscenico europeo (e, aggiungerei, i fondi comunitari) per avanzare i propri interessi a livello nazionale, si tratta degli Euroscettici. Lo UK Independence Party si è molto giovato della capacità oratorie del suo leader, Nigel Farage, negli altrimenti spesso soporiferi dibattiti al Parlamento Europeo. Un partito senza seggi a Westminster, e per lungo tempo con una limitata rappresentanza territoriale, si è affermato anche grazie allo spazio e alle risorse messe a disposizione dall’Europa.
In questo senso, coglie nel segno Marco Piantini quando sottolinea come sia venuta a mancare una visione pragmatica e concreta dell’Europeismo, capace di contrastare – anche comunicativamente – l’efficace messaggio Euroscettico. Così, ad un Europeismo percepito (a torto o a ragione), come vuoto di contenuti e timido nel rivendicare i suoi successi, si è contrapposto un messaggio Euroscettico – o, più correttamente, anti-Europeo – spregiudicatamente fatto proprio ed efficacemente comunicato da leader più giovani, più nuovi, e più “coraggiosi”.
Il caso britannico è emblematico di questa tendenza e, nell’Europa di oggi, rischia di non essere (più) eccezionale. Durante la campagna elettorale che portato al referendum sulla Brexit, coloro che sostenevano la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, tra cui il Primo Ministro Cameron, hanno impostato una campagna essenzialmente negativa. Rimanere nell’Unione “conveniva”, mentre l’uscita comportava alti costi economici. Al contrario, i sostenitori della Brexit decantavano le opportunità di un’uscita dall’Unione, dalla capacità di controllare finalmente i flussi migratori alla ritrovata centralità del Parlamento di Westminster. In sostanza, i Brexiteers hanno giocato all’attacco, mentre i Remainers si sono arroccati in difesa.
Il fatto è che – e non solo in Gran Bretagna dove pure, a causa del processo della Brexit, questo fenomeno conosce la sua massima espressione – la politica ha già da tempo varcato i confini nazionali. Il “consenso permissivo” per l’integrazione europea è ormai dimenticato, e i temi europei sono quotidianamente politicizzati. A causa della Brexit, il dibattito pubblico britannico può concentrarsi per giorni e giorni sul confronto tra “modello svizzero” e “modello ucraino” nella definizione dei rapporti futuri con l’Unione Europea, o sulla tecnologia necessaria per rendere il confine tra Repubblica irlandese e Irlanda del Nord (quasi) invisibile. Senza arrivare a questi estremi, politiche nazionali come l’immigrazione ed il debito sono, ormai, politiche europee – e come tali vengono dibattute.
Non solo l’UE è ormai una divisione di importanza pari, se non maggiore, a quella classica tra destra e sinistra in molti Stati membri. La contestazione dell’Unione condiziona il comportamento delle sue istituzioni sovranazionali, ed all’interno di esse. Così, la Commissione modera la sua agenda legislativa in un contesto più Euroscettico – evitando di spingere in avanti l’asticella dell’integrazione – mentre i parlamentari europei diventano più sensibili al ciclo elettorale nazionale, seguendo le indicazioni dei loro partiti nazionali piuttosto che europei. Le istituzioni sovranazionali non sono (più) isolate dal dibattito politico nazionale e, anzi, ne sono spesso protagoniste (in negativo).
La politicizzazione dell’Ue da parte dei partiti Euroscettici o Anti-Europei può trovare un riscontro elettorale importante alle prossime elezioni europee. Resta da chiedersi, come fa Marco Piantini, se i partiti europeisti riescano finalmente a contrapporsi al fronte euroscettico proponendo un’agenda politica europea concentrata sui temi che più interessano i suoi cittadini. Tale scenario richiederebbe una riconfigurazione delle attuali famiglie politiche, e un’offerta politica transnazionale non più allineata sull’asse destra-sinistra, con la costituzione di nuove alleanze. A dieci mesi dalla costituzione del nuovo Parlamento Europeo il tempo per gli esperimenti inizia, però, a scarseggiare. Il rischio serio per l’Unione è che siano gli Anti-Europei a rappresentare, paradossalmente, la proposta politica più europea, mobilitando l’opinione pubblica contro l’Unione.