L’Africa e noi
Non ne abbiamo certezza, mancando dati sufficienti su cui basare un giudizio obiettivo. Ma abbiamo molti indizi che aiutano a rappresentare una realtà spesso misconosciuta che certamente non viene riflessa nei ‘rassicuranti’ tassi di crescita delle statistiche ufficiali. Semplificando per esigenze di chiarezza, si può infatti individuare un corto-circuito tra gli eventi, un avvitamento delle dinamiche, una concatenazione di fatti interni ed esterni, che determinano il fallimento delle ribellioni popolari con esiti spesso drammatici. Alla base del corto-circuito sta quello che l’Ambasciatore Stefano Dejak da Nairobi ben individua come debole legittimità delle istituzioni statali, fragilità dello stesso concetto di nazione e prevalenza delle tradizioni clanico-tribali che tuttora costituiscono la più solida ossatura del tessuto sociale.
Così, la sequenza inizia da obiettive condizioni di povertà e privazione di larghi settori sociali, nel quadro di condizioni di arrogante privilegio, corruzione, malgoverno delle leadership, con le quali si interfacciano regolarmente anche le politiche europee, al di là delle buone intenzioni. Prosegue con l’accumulazione, da parte delle stesse leadership, di ingenti proventi derivanti da concessioni a compagnie straniere per lo sfruttamento delle risorse del paese o addirittura da programmi di sviluppo internazionali, proventi spesso spediti in banche estere quale sorta di ‘assicurazione’ per il proprio futuro e con la distribuzione del residuo a limitati segmenti sociali, seguendo un criterio clanico o di vicinanza al potere. Il terzo ineluttabile momento è la ribellione dei clan emarginati, che vedono allargarsi le diseguaglianze, allontanarsi ogni senso di giustizia e si sentono impotenti a conseguire un ricambio dei vertici mediante gli strumenti di democrazia elettorale. In effetti, accade non di raro che allo scadere del secondo mandato, il vertice provvede, o tenta di provvedere, ad emendare la Costituzione che non ne contempla un terzo, o ricorre a qualsiasi altro mezzo per restare il potere. La quarta fase è quella dell’esplosione di conflitti, che si scaricano spesso sui clan che vengono privilegiati dal potere e si traducono in cruente guerre tribali e/o nell’esodo dei perdenti verso paesi vicini; per chi è giovane e ha acquisito una qualche scolarizzazione, verso l’Europa. In larga sintesi, la scelta delle persone è tra rischiare la vita in conflitto o emigrare. In tal caso sappiamo cosa attende loro. Uno su mille ce la farà, gli altri periranno in mare o trascineranno i migliori anni in campi di raccolta (o detenzione), se fortunati con l’assistenza dell’ONU.
E peraltro, si fa strada una versione più ottimista di quella descritta. Da una decina di anni, si sostiene, le ribellioni in Africa non si sarebbero tradotte in ricorso alle armi ma sarebbero state pacifiche, come in Zimbabwe nel 2017 e da ultimo in Algeria e Sudan. Avrebbero contribuito a mutarne la natura violenta l’aver appreso l’importanza del coordinamento tra corpi sociali intermedi, associazioni di professionisti, sindacati, istituzioni confessionali cristiane e, al contempo, la partecipazione attiva delle donne, culturalmente meno inclini alla guerra, e quella massiccia dei giovani, più colti e lontani da logiche tribali. Come pure la dissociazione dallo statu quo delle forze armate e di sicurezza che, ad esempio in Sudan, hanno scelto di proteggere i ribelli rispetto alle famigerate milizie filo-establishment Janjaweed (fermo restando il rischio di sequestro della protesta a proprio vantaggio). E per contro, è spesso risultato ambiguo - in Burundi nel 2015, nella RDC nel 2018, in Camerun, Ciad…- il ruolo dell’Unione Africana, che solo negli ultimi casi di Algeria e Sudan si è determinata con chiarezza a favore dei movimenti popolari, re-interpretando la clausola statutaria che vieta cambiamenti incostituzionali. Confermando, si auspica, che in Africa è possibile sancire i principi della democrazia senza interventi esterni dell’Occidente.
Il ruolo dell’Unione Africana e delle otto organizzazioni sub-regionali che vi fanno riferimento è peraltro cruciale, in ragione vuoi del principio generale di ‘ownership’, vuoi del rischio concreto di interferenze dall’esterno che di norma finiscono per estendere lo scacchiere della conflittualità, vuoi, infine, del ‘nuovo corso’ apparentemente intrapreso di fatto dalla stessa Europa, che pare ormai aver sacrificato l’obiettivo della democratizzazione (cui pure ha dedicato oltre 300 miliardi in questi anni) a quello della ‘stabilità’, considerata la migliore garanzia contro i flussi migratori. Un approccio perverso, già applicato in occasione delle cosiddette ‘primavere arabe’.
Resta il fatto che un’evoluzione democratica delle modalità di governo in Africa è questione vitale tanto per gli Europei quanto per gli stessi Africani, e che un fondamentale cambiamento di passo si impone per evitare che si consolidino infiltrazioni jihadiste e per impostare un rapporto cooperativo mirato ad una vera politica di sviluppo. Questa è la sfida del XXI secolo.