Il voto espresso il 26 maggio dagli elettori europei ridisegna la geografia politica del continente e pone interrogativi a cui tutti sono chiamati a rispondere.
Sollecita prima di tutto una riflessione non propagandistica alle forze politiche che hanno chiesto un voto contro l’attuale Unione Europea. Al netto del successo indubitabile della Lega, lo sfondamento non c’è stato. Il Front National in Francia ha ottenuto lo 0.9% in più di Macron, non andando molto al di là dei consensi delle presidenziali di tre anni fa. In Ungheria il partito di governo ha confermato alti consensi già ottenuti, che tuttavia nessuno pensava si sarebbero ridotti. In Polonia al 43% raccolto dal’euroscettico PIS, partito di governo, fa da contrappunto il 38% raccolto dal rassemblement europeista. E in Gran Bretagna il ragguardevole 32% raccolto da Farage è in ogni caso inferiore di venti punti al 51% raccolto al referendum dai Brexiters. In tutti gli altri paesi i consensi di forze antieuropee o euroscettiche oscillano tra il 15 e il 10% o anche meno, come il crollo di consensi del partito di Wilders in Olanda, di Vox in Spagna, di Alba dorata in Grecia. Uno scenario che si ritrova negli equilibri del Parlamento Europeo dove gli eletti di partiti euroscettici o antieuropei si attestano intorno al 20% dell’Assemblea a fronte di 3/4 di parlamentari appartenenti a gruppi pro Europa. In altri termini, onestà intellettuale vuole che si prenda atto che le forze proeuropee - sia pure con programmi diversi - hanno ottenuto un netto e largo consenso.
La stessa onestà intellettuale richiede che anche chi ha chiesto un voto per proseguire il processo di integrazione si interroghi sulle ragioni che hanno spinto una parte dell’elettorato ad affidare la sua rappresentanza a forze antieuropee. Non c’è dubbio infatti che molti cittadini abbiano maturato la convinzione che l’Unione Europea non rappresenti una convenienza ma un peso, imputando alle istituzioni di Bruxelles politiche lontane dalle loro aspettative. Che questa convinzione sia stata propagandisticamente diffusa, attribuendo alla UE anche molte responsabilità che non ha, non riduce il fatto che molti cittadini l’abbiano creduta vera. Così come non vi è dubbio che chi ha vissuto sulla propria pelle i colpi della crisi ha ritenuto l’UE responsabile di mancata protezione.
Sono ragioni che devono spingere chi ha chiesto un voto per l’Europa a mettere in campo una profonda revisione sia delle politiche europee, sia degli assetti organizzativi e delle procedure decisionali dell’Unione. Si è molto usata negli ultimi mesi l’espressione “nuova Europa”: se non si vuole ridurla a una formula retorica, adesso occorre mettere in campo le tante “innovazioni” necessarie.
Una politica economica che metta al centro investimenti e creazione di lavoro - e non solo equilibri di bilancio - impone che si sottragga la spesa per investimenti dal computo del deficit e si consenta all’Unione di disporre di risorse proprie reperite sul mercato dei capitali con emissione di titoli.
Per evitare forme di dumping e concorrenza tra paesi dell’Unione è ineludibile che a moneta unica e mercato unico debbano corrispondere l’armonizzazione della fiscalità, dei mercati del lavoro e delle regole di ingaggio degli investimenti. La coesione sociale non può esaurirsi solo nei fondi strutturali - che pur sono stati preziosi - ma richiede strumenti europei nei sistemi di protezione sociale, di previdenza e di tutela sanitaria. Gli Accordi di Parigi offrono una formidabile occasione per lanciare un modello di sviluppo fondato sulla sostenibilità. Le dinamiche demografiche - che nell’arco di questo secolo vedranno il continente europeo ridurre la propria popolazione - richiedono un contributo demografico aggiuntivo che sollecita finalmente a dotarsi di una politica europea dell’immigrazione. Oltreché una strategia per lo sviluppo dell’Africa che alla fine del secolo raggiungerà i 4 miliardi di abitanti (il 40% della popolazione del pianeta).
E, last but not least, le turbolenze che scuotono il mondo - a partire da ciò che accade nel Mediterraneo - richiedono che gli Stati europei si liberino della “gelosia delle nazioni” per conferire davvero all’Unione gli strumenti e le responsabilità di una politica estera e di sicurezza comune.
So bene che ciascuno di quei dossier richiede scelte difficili, quali la condivisione di responsabilità oggi spesso gestite da ogni Paese in gelosa solitudine e il riconoscimento di ambiti di sovranità all’Unione. Ma francamente una “nuova Europa” che voglia riconquistare la fiducia degli europei si costruisce solo se si ha coraggio, visione e ambizione.
Europa: un voto che interroga tutti
Il voto espresso il 26 maggio dagli elettori europei ridisegna la geografia politica del continente e pone interrogativi a cui tutti sono chiamati a rispondere.
Sollecita prima di tutto una riflessione non propagandistica alle forze politiche che hanno chiesto un voto contro l’attuale Unione Europea. Al netto del successo indubitabile della Lega, lo sfondamento non c’è stato. Il Front National in Francia ha ottenuto lo 0.9% in più di Macron, non andando molto al di là dei consensi delle presidenziali di tre anni fa. In Ungheria il partito di governo ha confermato alti consensi già ottenuti, che tuttavia nessuno pensava si sarebbero ridotti. In Polonia al 43% raccolto dal’euroscettico PIS, partito di governo, fa da contrappunto il 38% raccolto dal rassemblement europeista. E in Gran Bretagna il ragguardevole 32% raccolto da Farage è in ogni caso inferiore di venti punti al 51% raccolto al referendum dai Brexiters. In tutti gli altri paesi i consensi di forze antieuropee o euroscettiche oscillano tra il 15 e il 10% o anche meno, come il crollo di consensi del partito di Wilders in Olanda, di Vox in Spagna, di Alba dorata in Grecia. Uno scenario che si ritrova negli equilibri del Parlamento Europeo dove gli eletti di partiti euroscettici o antieuropei si attestano intorno al 20% dell’Assemblea a fronte di 3/4 di parlamentari appartenenti a gruppi pro Europa. In altri termini, onestà intellettuale vuole che si prenda atto che le forze proeuropee - sia pure con programmi diversi - hanno ottenuto un netto e largo consenso.
La stessa onestà intellettuale richiede che anche chi ha chiesto un voto per proseguire il processo di integrazione si interroghi sulle ragioni che hanno spinto una parte dell’elettorato ad affidare la sua rappresentanza a forze antieuropee. Non c’è dubbio infatti che molti cittadini abbiano maturato la convinzione che l’Unione Europea non rappresenti una convenienza ma un peso, imputando alle istituzioni di Bruxelles politiche lontane dalle loro aspettative. Che questa convinzione sia stata propagandisticamente diffusa, attribuendo alla UE anche molte responsabilità che non ha, non riduce il fatto che molti cittadini l’abbiano creduta vera. Così come non vi è dubbio che chi ha vissuto sulla propria pelle i colpi della crisi ha ritenuto l’UE responsabile di mancata protezione.
Sono ragioni che devono spingere chi ha chiesto un voto per l’Europa a mettere in campo una profonda revisione sia delle politiche europee, sia degli assetti organizzativi e delle procedure decisionali dell’Unione. Si è molto usata negli ultimi mesi l’espressione “nuova Europa”: se non si vuole ridurla a una formula retorica, adesso occorre mettere in campo le tante “innovazioni” necessarie.
Una politica economica che metta al centro investimenti e creazione di lavoro - e non solo equilibri di bilancio - impone che si sottragga la spesa per investimenti dal computo del deficit e si consenta all’Unione di disporre di risorse proprie reperite sul mercato dei capitali con emissione di titoli.
Per evitare forme di dumping e concorrenza tra paesi dell’Unione è ineludibile che a moneta unica e mercato unico debbano corrispondere l’armonizzazione della fiscalità, dei mercati del lavoro e delle regole di ingaggio degli investimenti. La coesione sociale non può esaurirsi solo nei fondi strutturali - che pur sono stati preziosi - ma richiede strumenti europei nei sistemi di protezione sociale, di previdenza e di tutela sanitaria. Gli Accordi di Parigi offrono una formidabile occasione per lanciare un modello di sviluppo fondato sulla sostenibilità. Le dinamiche demografiche - che nell’arco di questo secolo vedranno il continente europeo ridurre la propria popolazione - richiedono un contributo demografico aggiuntivo che sollecita finalmente a dotarsi di una politica europea dell’immigrazione. Oltreché una strategia per lo sviluppo dell’Africa che alla fine del secolo raggiungerà i 4 miliardi di abitanti (il 40% della popolazione del pianeta).
E, last but not least, le turbolenze che scuotono il mondo - a partire da ciò che accade nel Mediterraneo - richiedono che gli Stati europei si liberino della “gelosia delle nazioni” per conferire davvero all’Unione gli strumenti e le responsabilità di una politica estera e di sicurezza comune.
So bene che ciascuno di quei dossier richiede scelte difficili, quali la condivisione di responsabilità oggi spesso gestite da ogni Paese in gelosa solitudine e il riconoscimento di ambiti di sovranità all’Unione. Ma francamente una “nuova Europa” che voglia riconquistare la fiducia degli europei si costruisce solo se si ha coraggio, visione e ambizione.