Alla fine delle vacanze, tornano a socchiudersi le porte della Casa Bianca
Il prossimo 5 novembre, 435 seggi parlamentari saranno in lizza per il nuovo Congresso che uscirà dalle elezioni, e che governerà il parlamento federale americano. Trentatré dei cento seggi del Senato saranno ugualmente in palio. Attualmente 50 seggi sono considerati Repubblicani, 47 Democratici, e 3 indefiniti.
Oltre 160 milioni di americani sono iscritti a votare. Occorre infatti essere registrati come votanti, dato che la registrazione non è automatica. Inoltre, questo permette di indicare la propria preferenza politica (repubblicani, democratici, ecc.), consentendo la partecipazione alle attività pre-elettorali, come le consultazioni per scegliere il candidato che concorrerà e, potenzialmente, diventerà il prossimo Presidente.
Tutto ciò fa parte naturalmente dell’architettura storica del sistema politico americano, semplicemente complicato per essere l’espressione della politica dei cinquanta stati che lo compongono, e riflesso delle particolari questioni che dominano il dibattito politico in ciascuno. Ma esiste sempre un tema centrale, attorno al quale si sviluppano le decisioni elettorali dei cittadini: quest’anno, il tema centrale è inevitabilmente Trump. Insofferente del dominio della legge, percepita come un intralcio, ed egocentrico oltre il verosimile, Trump riflette un elemento radicato nella psiche dei suoi connazionali, allevati nella persuasione che nulla può essere precluso a un americano che abbia un progetto e abbastanza vigore da perseguirlo. È un’ottica rispettabile, ma a volte si scontra con la salvaguardia del concetto di legalità, che si trova al centro di tutta la storia dell’Unione. Trump agita l’idea di mettere i cittadini “al riparo dall’interferenza del governo”, suggerendo così che ai suoi occhi il governo della nazione, il prodotto della sua democrazia, non sia nulla più che una indesiderabile “interferenza”.
Nonostante queste anomalie, a un osservatore esterno può apparire che il sostegno a Trump, nel paese, sia vasto – anche se non maggioritario nell’insieme, per quanto possa esserlo in aree specifiche. In queste condizioni è difficile nella nazione condannare Trump ed estrometterlo dalla scena politica: anche se i sondaggi elettorali al momento indicano una preferenza per Harris al 49% e per Trump al 46%, non si può ignorare che milioni di americani sono succubi della figura, tutt’altro che esemplare, del magnate newyorchese. Non solo ciò indica un divario minimo tra i due aspiranti alla Casa Bianca, ma conferma la presa subliminale che ha sull’elettorato americano questa forma di egocentrismo, di cui Trump è campione, e che evidentemente genera più invidia (e desiderio di imitazione) che non rifiuto e condanna – anche quando la condanna è ufficialmente dichiarata dalle stesse istituzioni nazionali (Trump ha un fardello di 34 condanne per reati comuni, senza contare i vari “sex scandals” di cui sembra compiacersi).
Come tutto ciò sia possibile nello stesso paese che ha contribuito così decisivamente all’affermazione della democrazia come sistema di governo nei paesi liberi sfida l’immaginazione. Resta solo l’osservazione che per molti americani la meta luminosa della perfetta società democratica è incrinata dalla difficoltà di raggiungere la sua perfetta applicazione alla vita quotidiana: il divario tra ciò che ci circonda e ciò cui la nostra società ci consente di aspirare riflette il divario tra diritto e possibilità, e conferma la necessità di impegno e abilità per riuscire a raccogliere i frutti cui crediamo di avere diritto.
È palese in questi tempi che viviamo la sensazione che gli americani sono talvolta di nascosto delusi dalla irraggiungibile immagine della “shining city on the hill” proposta dal mito fondatore della nazione. Chi, come Trump, ne offre una versione sottocosto proponendo al tempo stesso il cattivo esempio di sé stesso e l’affermazione del suo successo (almeno per quanto concerne farla franca), può riscuotere quanto meno tacita approvazione, ma, nel tempo – molto più pericolosamente – anche la implicita accettazione dell’istituzionalità di questa visione.
Oggi il consenso popolare per Trump è indietro rispetto a Harris: tenendo conto delle limitazioni di quest’ultima come figura popolare, è un risultato rispettabile, ma non rassicurante. Resta che Trump può vincere le elezioni, per quanto ciò faccia accapponare la pelle a molti americani, e non sappiamo ancora se Harris saprà negarglielo al momento del voto.
Nel frattempo, la lunga battaglia politica deve svolgersi fino alla fine; le realtà locali debbono essere inquadrate, il “team” politico deve essere completato, e quotidianamente l’attitudine dei candidati sarà scrutinata severamente, mentre il rastrellamento delle finanze necessarie procederà fino alla fine. Se Kamala Harris saprà portare fino a novembre l’immagine di una personalità limpida e capace, non solo avrà guadagnato il diritto a trasferirsi alla Casa Bianca, ma avrà anche rilanciato per vari anni il meccanismo della democrazia americana. In caso contrario, una seconda presidenza di Trump, una figura ormai da tutti palesemente riconoscibile, avrebbe l’effetto di un terremoto sulla credibilità stessa del suo Paese e – peggio – del sistema di cui è paladino.
A Roma, davanti al centro sportivo olimpico, abbiamo ancor oggi un obelisco che ci ricorda la traiettoria della nostra versione di Trump. In Europa, questi recessi dalla democrazia hanno in passato sempre condotto a catastrofi globali; e proprio la democrazia americana ci ha salvato dalle peggiori conseguenze.
Non resta allora nelle attuali circostanze che augurarsi che il buon senso dei nostri amici oltre oceano prevalga su ogni ipotesi di deriva in quella direzione.