Il cambiamento climatico in Africa come amplificatore di crisi e il ruolo dell’Europa
È ormai inequivocabile che sul nostro pianeta sia in atto un riscaldamento globale. La temperatura media alla superficie è infatti aumentata di circa 1°C nell’ultimo secolo. Sappiamo bene che anche in un passato più lontano la Terra ha conosciuto passaggi tra ere glaciali e periodi più caldi, ma mai il tasso di incremento è stato così rapido come negli ultimi decenni. Inoltre, la nostra conoscenza scientifica del sistema clima e i risultati dei nostri modelli climatici, anche di tipo molto diverso l’uno dall’altro, concordano nel mostrare che la causa fondamentale di questo riscaldamento non è naturale, ma va ascritta alle nostre emissioni di gas ad effetto serra come l’anidride carbonica (CO2), che derivano sostanzialmente da uno sviluppo basato sulle combustioni fossili e da un non corretto uso del suolo (principalmente per attività di deforestazione e agricoltura non sostenibile).
In questo quadro, sostanzialmente per la minore capacità termica dei suoli rispetto alle acque di mari e oceani, le terre emerse si sono riscaldate di più della media globale: in Italia, ad esempio, l’aumento è stato di circa 2°C nell’ultimo secolo, in Africa mediamente un po’ meno di 2°C. In ogni caso, ciò che preoccupa non sono i pochi gradi in più in sé, quanto gli impatti di questa temperatura maggiore sui territori, gli ecosistemi e l’uomo, con le sue attività produttive – prima fra tutte l’agricoltura – e la sua salute e gli influssi sulle attività economiche, specie in paesi dalla struttura economica e sociale molto fragile.
Si sente parlare spesso, per tante zone del mondo, dell’aumento di intensità e talvolta di frequenza di ondate di calore, siccità prolungate, eventi estremi con precipitazioni molto violente, come uragani e tifoni, ma anche di alluvioni lampo che in poche ore riversano la quantità di pioggia che normalmente sarebbe caduta in parecchi mesi. Tutto il mondo è colpito dai vari fenomeni associati ai cambiamenti climatici, ma gli impatti dipendono anche dalla vulnerabilità dei territori, delle economie e delle strutture sociali. In questo senso, ovviamente, l’Africa appare come un continente estremamente fragile, una zona in cui il cambiamento climatico può amplificare problemi già endemici, fino a far superare soglie di vivibilità e sopravvivenza e contribuendo spesso a determinare conflitti e migrazioni.
Prima di analizzare brevemente come i cambiamenti del clima indotti dal riscaldamento globale agiscano in zone particolarmente fragili del continente africano, però, va assolutamente sottolineato il fatto che i paesi dell’Africa e i loro abitanti non hanno contribuito praticamente per nulla alla nascita di questi cambiamenti: storicamente le loro emissioni di CO2 e di altri gas ad effetto serra sono sempre state bassissime e anche adesso solo il Sudafrica supera l’1% del totale delle emissioni mondiali. Questo innesca, ovviamente, un problema di equità internazionale: chi è meno responsabile subisce invece gli impatti più grandi del riscaldamento globale, sicuramente a causa della fragilità dei territori, delle infrastrutture e delle economie, ma anche per alcune peculiarità del clima africano.
L’andamento di temperature e precipitazioni, almeno nella fascia tropicale e subtropicale africana, è generalmente molto diverso da quello delle medie latitudini. In particolare, la temperatura è alta ma mostra meno escursione termica, sia tra giorno e notte che tra le varie stagioni, mentre le precipitazioni sono concentrate nella cosiddetta “stagione delle piogge”. Per questo motivo le piante, gli animali, e anche gli uomini che vivono in queste zone si sono adattati a questo clima dalle temperature pressoché costanti e ogni ondata di calore rilevante può arrecare molto danno, fino al superamento delle soglie di tolleranza termica fisiologica. Nella letteratura scientifica recente è stato documentato un consistente incremento di ondate di calore nel continente africano negli ultimi decenni e un loro aumento di intensità è previsto per il futuro se non riusciremo a fermare il riscaldamento globale. Tutto ciò, insieme ad eventuali siccità prolungate, può portare a difficoltà di crescita dei raccolti, fino alla loro perdita totale, e dunque a carestie, conflitti per le risorse e infine migrazioni.
In particolare, vorrei concentrarmi sulla zona del Sahel, il territorio da cui attualmente giungono in Italia 9 migranti su 10 di quelli che percorrono la rotta mediterranea. Si tratta di quella fascia compresa tra il deserto del Sahara a nord e la foresta tropicale a sud, che include dieci paesi fragili: Senegal, Gambia, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Ciad, Sudan, Eritrea. Nel Sahel l’aumento di temperatura e il cambiamento nella stagione delle piogge, che avviene a causa del riscaldamento globale ma anche per l’attività di deforestazione degli ultimi decenni, stanno producendo un fenomeno molto intenso di desertificazione. I terreni fertili si degradano e le risorse idriche vengono sempre più diminuendo. Si pensi, ad esempio, che la superficie del lago Ciad dagli anni ’60 si è ridotta di ben 17 volte, a causa dell’azione congiunta di cambiamenti climatici e di emungimenti insostenibili di acqua.
In questa situazione si assiste a due fenomeni. Da un lato, le popolazioni entrano in conflitto per le risorse: l’acqua in primo luogo ma anche le derrate alimentari, più scarse e dunque più costose per la perdita di raccolti. D’altro lato, i terreni degradati si desertificano sempre più, in quanto la pioggia (che qui cade in modo violento) non viene assorbita e anzi dilava via in misura sempre maggiore il residuo sottile strato superficiale di nutrienti. Ovviamente questi fenomeni si amplificano l’un l’altro in un circolo vizioso che porta ad una spirale da cui sembra difficile uscire.
Se a questi fenomeni climatici si sommano una corruzione diffusa e l’azione spesso spregiudicata di multinazionali occidentali, il quadro è chiaro: il cambiamento climatico sta amplificando a dismisura le crisi in paesi già fragili, crisi che sempre più spesso si manifestano in conflitti e migrazioni.
In questo contesto, l’Europa, e l’Italia in particolare, assiste all’espansione del fenomeno migratorio connesso a queste crisi accelerate dal cambiamento climatico. Sappiamo bene quale sia la tentazione ricorrente di molti paesi: la chiusura e i muri, “soluzioni” locali ad un problema (in gran parte connesso coi cambiamenti climatici) creato sostanzialmente proprio dal mondo occidentale e che presenta caratteristiche di interazione complessa tra vari fattori. Nell’Agenda 2030 è chiaro come non si possa raggiungere un obiettivo a scapito degli altri, ma che si debbano attuare strategie sistemiche molteplicemente vincenti. E questo è il caso anche dei conflitti e delle migrazioni amplificate dal clima che cambia.
Perché erigere un muro, una “soluzione” locale e non sistemica che porta solo ad esacerbare ancor più i problemi al di là del muro? Perché non contribuire a risolvere insieme i problemi climatici e conflittuali/migratori con azioni benefiche per gli uni e per gli altri e doppiamente vincenti? Un esempio sarebbe il recupero dei terreni degradati e desertificati del Sahel. Se riportiamo a pascolo, agricoltura sostenibile o foresta quei terreni facciamo del bene al clima, perché essi tornano ad essere assorbitori netti di anidride carbonica mitigando così il riscaldamento, e facciamo del bene alle persone che vivono in quei territori, perché allora si può innescare una nuova agricoltura che porti a commerci e stabilità, disinnescando nel contempo anche la bomba della migrazione forzata per fuggire alla fame e alle guerre.
Il recupero di questi terreni costa pochissimo e la cooperazione internazionale è l’unica strada che l’Europa dovrebbe seguire, con l’Italia in prima linea. Sarebbe un’azione etica e responsabile, e con molteplici vantaggi.