Sviluppo sostenibile dell'Africa, migrazioni, sfide e opportunità per l’Europa e per l’Italia
I rapporti dell’Europa con l’Africa avranno un ruolo cruciale per il futuro del nostro continente ed in particolare dell’Italia considerata la sua posizione nel Mediterraneo. Tali rapporti, oltre che dalla vicinanza geografica, sono inevitabilmente condizionati dai differenziali demografici ed economici che assieme a molti altri fattori sono alla base dei movimenti migratori attuali e futuri.
Il prodotto interno lordo africano complessivo è cresciuto in modo sostenuto nel primo decennio di questo secolo. Vi è stata una riduzione complessiva della povertà assoluta, scesa dal 60% della popolazione nel 1993 al 40% nel 2010. In alcuni paesi come Etiopia, Ghana, Botswana e, in alcune fasi, Angola e Mozambico l'aumento del PIL è stato a due cifre. Il notevole rallentamento poi intervenuto, in larga parte a causa della crisi mondiale e della conseguente caduta dei prezzi delle materie prime, è stato in parte superato anche se è difficile prevedere per quanto tempo. Ma si è trattato di una crescita squilibrata con ampi fenomeni di emarginazione ed esclusione, spesso su base etnica o percepita come tale, considerata la natura prevalente degli Stati africani, delle loro composizioni sociali e delle articolazioni dei loro sistemi di potere sul cui insediamento hanno fortemente inciso le potenze ex-coloniali e i protagonisti della guerra fredda. È stata inoltre una crescita impedita, frenata o stravolta in molte parti da conflitti, cambiamenti climatici, processi di desertificazione accentuati in diversi casi da investimenti con gravi impatti ambientali.
I fattori di questa crescita sono molteplici. In primo luogo gli investimenti esteri - inclusi quelli in alcuni campi di affluenti diaspore che hanno stimolato anche quelli interni - favoriti da nuove politiche economiche dei governi africani che hanno superato le chiusure e i sostanziali monopoli dei tempi post-coloniali e della guerra fredda. Dopo decenni di regimi a partito unico e dittature militari, le aperture democratiche degli anni Novanta, con un ritrovato pluripartitismo spesso però su base etnica ed elezioni a volte sfociate in nuovi conflitti, si sono unite a forme di economia di mercato funzionali agli incipienti processi di globalizzazione. Questi investimenti dall’estero hanno continuato ad essere soprattutto nel settore primario minerario e agricolo come in epoca coloniale, ed ora anche nei servizi stimolati dalle tecnologie informatiche, ma con nuovi attori: oltre alle ex-potenze coloniali, gli Stati Uniti ed altri paesi dell'OCSE, e soprattutto la Cina e poi i paesi del Golfo e dell’Asia sud-orientale, l'India e, nella fase in cui era in crescita, il Brasile. Anche la Russia, dopo che l’URSS vi era stata molto attiva durante la guerra fredda, vi sta riaffermando la propria presenza, sia pure con i limiti posti dalle sue fragilità economiche.
Recentemente, dopo che l'industrializzazione asiatica trainata dalla globalizzazione ha fatto crescere in quei paesi consumi e costo del lavoro, investimenti sono giunti anche nel settore manifatturiero dalla Cina ma anche da altri paesi dell’Europa, dell’Asia e delle Americhe. Accanto a quello della sicurezza alimentare e del mantenimento delle popolazioni rurali sul territorio per filiere produttive destinate sia al mercato interno che all'esportazione, è questo il settore che produce più occupazione, reddito diffuso e trasformazioni sociali ed è quindi quello più funzionale allo sviluppo soprattutto se in grado di determinare un indotto, a monte e a valle, gestito da una imprenditoria locale. Come lo sono le rimesse degli emigranti, diventate da tempo la seconda fonte di flussi finanziari verso l’Africa (in quella subsahariana attorno a 38 miliardi di dollari nel 2017, circa 63 in tutto il continente) con volumi assai maggiori di quelli dell’aiuto pubblico allo sviluppo bilaterale e multilaterale.
La necessità di uno sviluppo più equilibrato e sostenibile in Africa si collega alle prospettive di crescita della sua popolazione che ora supera nel suo insieme l,2 miliardi di persone, aventi una età media di 19 anni (44 in Europa) e supererà ampiamente i due miliardi nel 2050. Quanto più queste persone saranno prive di lavoro e redditi nei loro paesi, a causa di condizionamenti sociali, economici, politici e ambientali accentuati dai cambiamenti climatici, tanto più saranno spinte a cercare fortuna e benessere altrove, fermo restando che nel breve e medio periodo i mutamenti sociali e culturali nelle fasi iniziali dello sviluppo non freneranno, ma anzi potranno incentivare le migrazioni economiche, aspetto questo che va compreso e adeguatamente gestito. Secondo dati delle Nazioni Unite (International Migration Report), nel 2017 su uno stock di 36 milioni di africani emigrati (nati cioè in un paese diverso da quello in cui vivono) 23 milioni erano migranti all’interno dell’Africa e 13 milioni all’esterno del continente, con una parte consistente peraltro verso i paesi del Golfo. Prevale quindi l’emigrazione interafricana, ma quella verso l’esterno è in costante aumento anche se corrisponde attualmente a meno dell’1% della popolazione. E questo senza contare gli enormi flussi migratori all’interno dei singoli paesi, con processi di urbanizzazione che hanno portato il 40% della popolazione africana a vivere oggi in centri urbani, molti con diversi milioni di abitanti.
La gestione dell’insieme di questi problemi richiede un grande sforzo coordinato della Comunità internazionale - ed in primo luogo dell’Europa o di quella parte di essa che vorrà e saprà farlo - ed ovviamente dell’Africa stessa, coinvolgendo anche gli altri grandi attori mondiali perché, se è vero che questo è soprattutto un problema euro-africano, i suoi effetti a livello globale sono evidenti. Richiede un mix di risorse pubbliche e private e deve poter favorire uno sviluppo sostenibile e inclusivo, secondo i parametri stabiliti dai Sustainable Development Goals adottati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2015. Vanno privilegiate le attività generatrici di occupazione e di reddito, la sicurezza alimentare e ambientale, intensificando anche l’uso delle fonti di energia rinnovabili - già in forte sviluppo in alcune parti del continente soprattutto per l’autoconsumo - grazie al quale l’elettrificazione si sta estendendo a crescenti fasce della popolazione altrimenti escluse, la formazione e il sostegno alle capacità di buon governo e di gestione in tutti i campi, con una attenzione all’aspetto demografico sostenendo l’educazione alla maternità responsabile e l’”empowerment” della componente femminile.
Gli stanziamenti finora previsti dagli impegni assunti dall’UE nei vertici euro-africani di La Valletta e di Abidjian, in parte con il riciclo di fondi già diversamente destinati all’Africa, sono certamente insufficienti, tenendo anche presente che l’impegno assunto dai paesi sviluppati con l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici del 2015 per rispondere al riscaldamento dell’atmosfera e ridurlo, ora fortemente messo in discussione dalle decisioni dell’Amministrazione Trump, è per flussi complessivi dai paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo di 100 miliardi di dollari l’anno a partire dal 2020. Andranno anche riattivati canali di migrazione legali considerando le esigenze dei paesi di provenienza e di arrivo. E tutto questo in coerenza con il Global Compact di cui l’Italia è stata tra i promotori nell’ambito dell’ONU ma che non ha finora sottoscritto, diversamente da quanto fatto dalla stragrande maggioranza delle nazioni e da tutti i principali partners europei.
Tale azione va naturalmente svolta assieme ai governi africani, aiutandoli a superare i loro diffusi limiti di capacità e di buon governo, e alle organizzazioni regionali e sub-regionali africane con in primo luogo l’Unione Africana (UA). Queste carenze derivano in larga parte da come hanno avuto luogo la decolonizzazione e l’insediamento di leadership che, durante la guerra fredda e poi con l’arrivo di nuovi attori nel quadro della globalizzazione, non hanno operato per superarle ma hanno fatto anzi in modo di perpetuarle a loro vantaggio. L’Unione Africana ha progressivamente assunto un importante ruolo nella gestione delle crisi e nella promozione della cooperazione interafricana per lo sviluppo. L’istituzione, decisa nel marzo 2018, di una zona di libero scambio continentale, unificando spazi già esistenti a livello sub-regionale, è un passo importante verso l’integrazione economica necessaria allo sviluppo, considerando che il commercio interafricano costituisce meno del 15% del totale di quello estero dei singoli paesi contro il 50% circa in Asia e circa il 70% in Europa. Ma servono le infrastrutture per renderla operativa e per questo occorrono investimenti, prevalentemente esteri, sostenuti da politiche dirette al superamento di sistemi logistici e di connettività in larga parte ereditati dall’epoca coloniale e quasi esclusivamente funzionali ai collegamenti tra le aree produttrici di materie prime e i paesi industrializzati.
In tale contesto l’Italia ha un ruolo importante da svolgere purché vi impieghi le risorse e il capitale politico necessari, considerando le opportunità per il suo settore produttivo e le esigenze di approvvigionamenti energetici, di materie prime e di beni intermedi nel quadro di nuove catene del valore, nonché le specificità delle sue preoccupazioni migratorie, valorizzando le sue capacità ed anche il capitale umano e di credibilità delle sue organizzazioni non governative e delle presenze religiose. Un aumento dell’impegno italiano per l’Africa si è avuto negli ultimi anni, con più intensi contatti politici e maggiori stanziamenti pubblici, tuttavia ancora insufficienti, e con persistenti carenze nelle capacità di spesa. L’Italia è comunque attualmente il terzo investitore estero in Africa, dopo Cina ed Emirati, con una grandissima parte però dei suoi investimenti nel settore energetico.
Sul piano politico essa dovrebbe in particolare riprendere a favorire, con un coinvolgimento e un protagonismo dell’UE come in varie occasioni è accaduto in passato, la soluzione di situazioni di crisi e il sostegno a processi virtuosi di pace e collaborazione regionale come quello apertosi tra Etiopia ed Eritrea, nonché la stabilizzazione in Somalia, Sud-Sudan e paesi saheliani, tutte aree rilevanti rispetto ai fenomeni migratori, sia sotto il profilo delle provenienze che di quello del transito e delle politiche di rimpatri volontari assistiti e incentivati lungo le rotte migratorie. All’interno dovranno ovviamente migliorare le modalità di accoglienza e integrazione di chi arriva sulla base dei molti positivi esempi di convivenza esistenti, e andranno riarticolati un sistema formativo e una cultura che preparino alla società sempre più multietnica che ci attende. Andare in una direzione diversa, di illusoria chiusura, ghettizzazione e respingimento delle diversità non può che far crescere le tensioni sociali e i rischi per la sicurezza.
È da auspicare che il multiforme impegno dell’Italia continui e si rafforzi quantitativamente e qualitativamente, nella consapevolezza tuttavia che nessun impatto reale potrà esservi senza uno sforzo complessivo europeo, in coordinamento e in sinergia con gli altri grandi attori della Comunità internazionale. Tutti, per ragioni diverse, hanno interesse ad una stabilizzazione del Continente e ad un suo sviluppo equilibrato e sostenibile, superando modalità di interazione e investimento che, come accaduto in diverse fasi della storia africana post-coloniale, hanno prodotto indebitamento insostenibile e anche, per questa via, intrappolamento delle prospettive dello sviluppo.