America Latina in fermento
Una domanda di diritti politici, economici e sociali
Nelle proteste che da oltre due anni scuotono l’America Latina - esplose in molti paesi quasi simultaneamente nella seconda metà del 2019 – convergono ragioni politiche e ragioni socioeconomiche. Si tratta al contempo di crisi politiche, che mettono in discussione la gestione del potere in quanto tale e non solo programmi e misure, e di crisi sociali, che pongono al centro le forme in cui la diseguaglianza si manifesta nel continente più diseguale al mondo: è vero che nell’insieme la povertà si è ridotta, ma mentre la base della piramide sociale sale leggermente le fasce alte si distanziano sempre più dal resto della popolazione. Colpisce come, pur nella differenza di segno “ideologico”, governi di destra e governi di sinistra debbano fare i conti con movimenti di massa che pongono sul tappeto le stesse questioni: l’inclusione economica e sociale, le libertà democratiche, la trasparenza istituzionale, la lotta alla corruzione, l’accesso ai servizi sociali e la loro qualità, i diritti umani, la necessità di liberare sistemi politici infiltrati dalle organizzazioni criminali internazionali e dal narcotraffico. Su questi temi si sono mobilitati grandi settori della popolazione in un’ampia gamma di paesi latinoamericani che vanno da realtà molto povere come il Nicaragua, l’Honduras e Haiti sino a quel Cile che per tanti anni è stato indicato come un esempio per tutto il continente (“un’oasi in un’America Latina agitata”, l’aveva definito il presidente Piñera pochi giorni prima dell’inizio delle proteste).
Leggendo a posteriori, si rileva come tutte le ragioni delle proteste che attraversano il continente latinoamericano – in larga parte pacifiche – fossero visibili già da prima che i movimenti prendessero forma, eppure nessun politico o analista sembrava prevedere quel che poi è accaduto, mentre i movimenti hanno avuto una grande capacità di leggere, interpretare e re-inventare quanto Internet diffondeva in tempo reale sia all’interno dei paesi sia da un paese all’altro (basti pensare al ruolo delle reti sociali nell’organizzazione e nella rapida diffusione delle proteste in Nicaragua a partire dall’aprile 2018 o alla rapidità con cui quel che accadeva in Ecuador si è poi diffuso in Bolivia e in Cile fino a “contagiare” la Colombia). Più in generale, l’interconnessione globale permette ai popoli latinoamericani di percepire come mai in precedenza le diseguaglianze economiche e sociali nei loro paesi e il grado di corruzione e autoreferenzialità del potere, indipendentemente dal colore politico di chi lo esercita.
È interessante notare come in tutti i paesi la forma in cui le proteste sono iniziate e si sono estese siano simili, tutte hanno avuto un detonatore specifico e in alcuni casi di dimensioni limitate: in Nicaragua l’elemento scatenante fu la riforma del sistema pensionistico, in Ecuador il rincaro della benzina, in Cile l’aumento del biglietto del trasporto pubblico, ma a partire da questi “inneschi” si sono sviluppati movimenti di massa che contestano il sistema politico, economico e sociale dei rispettivi paesi, con l’accelerazione impressa dalla repressione da parte della polizia, dell’esercito o addirittura di formazioni paramilitari operanti al fianco dei reparti anti-sommossa.
Diverso è tuttavia l’ordine delle “priorità”: in Nicaragua e in Honduras l’accento è sul carattere autoritario e sulla mancata trasparenza dei rispettivi governi (di segno politico opposto), accompagnate in entrambi i paesi dalla rielezione presidenziale in violazione alle Costituzioni. L’autocrazia presidenziale è stata anche la causa della crisi boliviana all’indomani di risultati elettorali dubbi (il black-out nel flusso di informazioni sul conteggio dei voti è stato pressoché identico a quello verificatosi in Honduras nel 2017, quando sembrava che il candidato della sinistra stesse prevalendo sul presidente uscente Hernández, che si era ricandidato dopo aver ottenuto dalla Corte Suprema la ratifica della sentenza del Tribunale Elettorale che dichiarava “incostituzionale” l’articolo della Costituzione che proibisce la rielezione). In Cile le proteste prendono di mira il sistema economico-sociale, eredità della dittatura di Pinochet, un modello neoliberista allo stato puro caratterizzato tra l’altro da una generale privatizzazione dei servizi (persino del sistema pensionistico) e una fortissima polarizzazione sociale che esclude una parte enorme del paese: secondo la CEPAL, al 50 % delle famiglie cilene giunge appena il 2,1% della ricchezza prodotta.
Compressione salariale, mano libera agli investitori internazionali, servizi pubblici ridotti in quantità e in qualità, collusione fra governi e grande impresa privata, caratterizzano lo scenario economico di gran parte dei paesi dell’America Latina. Come si è detto, il rifiuto di una gestione opaca, autoritaria e corrotta delle istituzioni si accompagna in molti paesi al rifiuto di un modello economico che ha generato gravi diseguaglianze ed esclusione più di quanto non lo rilevino i dati macroeconomici .
Un malessere che si esprime anche nel voto - sebbene non sembri sufficiente
In tutti i paesi un ruolo molto rilevante è stato assunto dai movimenti delle donne, che hanno inserito nelle rivendicazioni sociali la lotta contro la violenza e contro il maschilismo, a partire a quello del potere istituzionale sino alle forme diffuse in tutti i settori della società.
Quasi tutte le elezioni presidenziali tenutesi in America Latina fra il 2017 e il 2019 hanno visto la vittoria di forze dell’opposizione, con l’eccezione di Costarica e Paraguay. Casi a parte sono le elezioni in Nicaragua (fine 2016), Venezuela, Honduras e Bolivia, dove irregolarità gravi, brogli e intimidazioni sono state denunciate dall’opposizione, da forze sociali e da osservatori internazionali. Da notare inoltre le recenti elezioni amministrative realizzate in Colombia nelle quali, a meno di un anno dalla vittoria del candidato presidenziale della destra Iván Duque, hanno prevalso forze di opposizione, tra cui spicca lo schieramento ambientalista che ha conquistato l’amministrazione comunale di Bogotà.
È poi da ricordare che tra l’ottobre 2018 e l’ottobre 2019 nei maggiori paesi dell'America latina si sono svolte elezioni che hanno portato alla presidenza schieramenti radicalmente opposti a quelli uscenti: il sovranista Bolsonaro è succeduto in Brasile al lungo periodo di governi di sinistra di Lula e di Dilma Rousseff; in Argentina la vittoria del centrosinistra di matrice peronista guidato da Alberto Fernández ha chiuso l'epoca della destra di Mauricio Macri; infine in Messico si è affermata la proposta riformatrice di Andrés Manuel López Obrador. Si tratta di paesi attraversati anch'essi da problemi di grande complessità, che spesso generano fratture profonde nelle società latinoamericane: la politica dichiaratamente anti-ambientalista e anti-indigenista di Bolsonaro è causa di forti mobilitazioni dell'opposizione sociale (in un contesto particolarmente teso per la vicenda politico-giudiziaria che ha colpito l'ex presidente Lula e i rapporti espliciti fra il pubblico ministero che ne ha ottenuto la condanna e il governo Bolsonaro); la grave crisi economica argentina dovrà essere affrontata da Férnandez cercando di dare risposta sia ai vasti settori sociali colpiti in questi anni sia al Fondo Monetario Internazionale. López Obrador si trova oggi a dover gestire un’agenda complessa che richiede azioni concrete per combattere la violenza, i cartelli criminali e la corruzione. Allo stesso tempo dovrà favorire l’inclusione economica e sociale degli ampi settori sociali che gli hanno dato fiducia con il voto e mantenere aperto l’inevitabile, permanente negoziato con gli Stati Uniti su sicurezza, lotta alla criminalità organizzata, migrazioni e commercio.
La prevalenza di quello che alcuni analisti chiamano “voto di punizione” non deve tuttavia far passare in secondo piano il fatto che le forze politiche di opposizione non sembrano aver avuto un ruolo significativo nei movimenti di protesta che scuotono l’America Latina: come spesso avviene, anche in questi casi le dinamiche sociali sono state molto più veloci della politica.
Insicurezza sociale, istituzioni senza credibilità, democrazia “in affanno”
In realtà tra loro differenti gli osservatori ripetono lo stesso concetto: niente sarà più come prima. Ciò vale sia per i paesi in cui la scelta di un modello neo-liberista è stata esplicita– come il Cile, la Colombia o l‘Honduras – sia per quelli in cui il discorso ufficiale sembrava indicare un cammino diverso, talvolta in forma di puramente retorica, talvolta attraverso misure che per molto tempo hanno effettivamente aperto spazi di partecipazione e inclusione per settori di popolazione – in primo luogo indigena – sino ad allora esclusi, come in Bolivia e nell’Ecuador di Correa, salvo poi costruire meccanismi che larghi strati della popolazione hanno visto come autoritari e predatori nei confronti delle risorse naturali, non dissimili da quelle che si dichiarava di voler combattere: basti vedere le posizioni assunte da organizzazioni indigene e contadine ecuadoriane e boliviane che, nel criticare senza sconti le posizioni della destra di governo o di opposizione, si sono fortemente distanziate dal cosiddetto “Socialismo del XXI Secolo (concretamente, il governo di Evo Morales e i proclami dal Belgio del ex-presidente ecuadoriano Correa). Un esempio in questa direzione sono le accuse della Confederazione delle Organizzazioni indigene del bacino amazzonico (COICA) al governo di Evo Morales per gli incendi nella regione amazzonica dell’agosto 2019, attribuiti alla volontà di favorire gli interessi di grandi agricoltori e allevatori, un comportamento non dissimile da quello del presidente Bolsonaro in Brasile.
Dopo anni di crescita sostenuta in quasi tutti i paesi, oggi per l’America Latina si prospetta una sostanziale stagnazione economica. La CEPAL stima una crescita complessiva nel 2019 intorno allo 0,1%. Queste previsioni riflettono tendenze visibili in tutti i paesi dell’America Latina e dei Caraibi e secondo alcuni analisti accrescono il senso di insicurezza dei cittadini dopo un lungo periodo in cui, pur con tutte le asimmetrie che abbiamo indicato, la prospettiva di un sia pur timido miglioramento delle proprie condizioni di vita sembrava un dato acquisito. A ciò si aggiunge alcuni paesi - tra cui Nicaragua e Haiti - il crollo degli aiuti venezuelani giunti in abbondanza negli anni in cui il prezzo internazionale del petrolio era alto.
Il meccanismo della rapida crescita legata ai prezzi internazionali delle materie prime è molto pericoloso per le classi dirigenti: favorisce nel breve periodo lo spostamento di importanti settori della popolazione verso il ceto medio, ma li spinge altrettanto rapidamente verso il basso non appena i prezzi si sgonfiano, accrescendo quindi la percezione di un'ingiustizia sociale nei settori colpiti che si salda con la protesta di coloro che erano rimasti esclusi nella fase di crescita e ancor più in quella di crisi. In questo modo si alimenta un profondo malessere verso le élite politiche ed economiche, con la perdita di consenso da parte di presidenti e partiti politici che pure avevano vinto le elezioni non molto tempo prima.
Mentre cresce l’incertezza sociale ed economica, crolla la fiducia nei governi e molto spesso anche nelle forze politiche in generale, siano esse al potere o all’opposizione: con l’eccezione di Najib Bukele in El Salvador e Andrés Manuel López Obrador in Messico, tutti i presidenti latinoamericani raccolgono la fiducia di non più del 30% della popolazione del loro paese. Si diffonde una sorta di “affanno democratico” che a partire dalla critica a una democrazia ostaggio dei gruppi di potere diventa critica a un modello di democrazia in cui il rapporto con la popolazione si limita all’espressione del voto ogni quattro o cinque anni con il rischio di trasformarsi nel tempo in un disincanto verso la democrazia in quanto tale: in un continente uscito pochi decenni fa da una lunga notte di dittature militari si tratta di una prospettiva allarmante. Occorre inoltre tener conto dell’accresciuto potere delle forze armate e di polizia in tutta l’America Latina, dalla Bolivia al Brasile, dal Nicaragua al Venezuela. Le violenze scatenate da gruppi minoritari in alcuni paesi durante i primi giorni delle proteste possono dare ossigeno a un ritorno sulla scena politica delle forze armate e di eventuali opzioni golpiste “per riportare ordine”.
Praticamente tutte forze di governo hanno attribuito la nascita e lo sviluppo di movimenti di protesta che coinvolgono milioni di donne e di uomini a tentativi di colpo di Stato eterodiretti da Washington o a strategie insurrezionali promosse da Cuba, Venezuela e governi e partiti loro alleati, rifuggendo da un’analisi realistica della crisi delle società latinoamericane.
Le crisi latinoamericane nello scenario internazionale
Nell’analizzare le crisi latinoamericane occorre tener presente gli interessi strategici di attori decisivi come gli Stati Uniti, la Russia e la Cina, anche se la loro presenza non sembra essere la chiave interpretativa di un malessere così diffuso.
Dopo un lungo periodo di sostanziale disinteresse degli Stati Uniti verso l'America Latina, il presidente statunitense Trump ha costruito alcuni spazi di cooperazione con governi dell’area intorno ad aspetti nevralgici della politica degli Stati Uniti, il più noto dei quali è il "gruppo di Lima" (Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costarica, Guatemala, Honduras, Panama, Paraguay e Perù), uno strumento regionale di appoggio all'opposizione venezuelana per il rovesciamento del governo Maduro. Un’altra priorità è costituta dagli accordi con Messico, Guatemala, El Salvador e Honduras per frenare l'immigrazione verso gli Stati Uniti. L'avvio nel 2020 del programma regionale di cooperazione L'America Cresce dovrebbe rafforzare i legami fra i paesi latinoamericani e gli Stati Uniti, mentre è ormai acqua passata la politica di apertura verso Cuba avviata dall'amministrazione Obama, e il ritorno di quel paese alle precedenti condizioni di isolamento porta inevitabilmente con sé il rallentamento del processo di autoriforma del sistema. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti guardano con preoccupazione al crescente dinamismo economico-commerciale della Cina nella regione e al persistere di relazioni fra la Russia e governi considerati nemici come quelli di Cuba e del Venezuela.
Criminalizzazione o dialogo?
La grande polarizzazione delle società latinoamericane, la crisi profonda tanto dei modelli chiamati “neoliberisti” quanto dei tentativi di "rivoluzione civile" sfociati in sistemi autoritari e autoreferenziali, la contestazione popolare verso molti governi, pongono la questione del radicale rinnovamento della democrazia, dei modelli economici e delle politiche sociali. Si tratta, in altre parole, della necessità di cambiare un sistema soffocato oggi dal controllo delle élite, siano essi poche "grandi famiglie" che in tanti paesi si alternano da decenni sulla scena politico-economica o partiti "quasi-unici" che hanno occupate tutto le istituzioni anche grazie a forme di presidenzialismo senza un reale contro-bilanciamento dei poteri.
Molti governi hanno inizialmente reagito alle contestazioni con la criminalizzazione dei movimenti. Si assiste tuttavia a processi di apertura alle contestazioni sociali da parte di talune forze di governo, che potrebbero divenire un riferimento concreto per l’intero continente: a questo riguardo citiamo proprio il Cile, dove partiti di governo e di opposizione e forze sociali hanno avviato un dialogo per concertare il cambiamento dell’attuale Costituzione (una nuova Costituzione era una delle rivendicazioni della rivolta di ottobre-novembre). Anche in Colombia si assiste a tentativi di concertazione per affrontare i problemi alla radice del conflitto sociale, in un quadro post-bellico non ancora stabilizzato (ricordiamo la morte di tanti attivisti dei diritti umani e leader rurali, insieme al riarmo di settori della guerriglia e dei paramilitari e il permanere sulla scena delle organizzazioni criminali). Un sistema di dialogo si è avviato anche in Ecuador fra il governo di Moreno e i movimenti sociali.
Italia e Unione Europea: che fare?
In un quadro così complesso, l'Italia e l'Unione europea sono chiamate a impegnarsi per la democrazia e l’equità sociale attraverso strumenti che promuovano il dialogo politico e sociale. Questo impegno è stato sottolineato dalla Vice Ministra per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale Marina Sereni in un recente incontro pubblico organizzato dal CeSPI, aggiungendo che l’Unione Europea potrebbe giocare un ruolo centrale anche nella definizione dell’agenda latinoamericana sul cambiamento climatico e lo sviluppo sostenibile. Una rinnovata collaborazione euro-latinoamericana per il consolidamento della democrazia potrebbe concretizzarsi in politiche di cooperazione per la protezione dell’ambiente, la promozione dei diritti dei lavoratori e la responsabilità sociale e ambientale delle imprese, la riduzione delle emissioni di anidride carbonica e contro la deforestazione, come previsto dal progetto di accordo economico-commerciale fra Unione europea e Mercosur.
Grande è il ventaglio di temi che compongono l’agenda euro-latinoamericana. Al tempo stesso i contesti nazionali presentano forti differenze tra loro. Per questo chiediamo a un gruppo di esperti di aiutarci a capire meglio quel che sta accadendo nei paesi dell’America Latina e di proporre indicazioni per una più incisiva azione degli attori italiani ed europei a favore di un consolidamento della democrazia e dell’inclusione sociale in un continente che per ragioni storiche e culturali sentiamo così vicino.
Abbiamo sintetizzato in alcune domande i punti che ci paiono centrali in questa ricerca:
- È possibile parlare di crisi strutturale dei sistemi politici latinoamericani? Se sì, quali sono i fattori scatenanti e quali i percorsi per una ricostruzione democratica?
- Quanto pesa nelle proteste la fragilità, che in alcuni casi diventa inconsistenza, delle istituzioni democratiche?
- Quanto hanno pesato condizionamenti internazionali nelle crisi e nei movimenti di protesta?
- Qual è la capacità di condizionamento degli scenari politici latinoamericani da parte delle organizzazioni criminali nazionali, regionali e internazionali? Quali sono le misure da adottare per liberare le istituzioni da questa morsa?
- Qual è il grado di adesione alla democrazia e ai diritti umani da parte delle forze armate e della polizia? C’è ancora un pericolo militarista nelle società latinoamericane?
- Molti osservatori parlano della necessità di un nuovo modello economico. Quale dovrebbero essere le sue caratteristiche? Il cambiamento climatico e lo sviluppo sostenibile dovrebbero essere alla base del nuovo modello economico latinoamericano? Esistono esperienze latinoamericano da cui trarre ispirazione?
- È possibile definire uno specifico ruolo dell’Italia e dell’Unione Europea nella ricostruzione democratica di società più coese e inclusive?
Post scriptum (28 giugno 2020)
il 26 febbraio 2020 viene comunicato dal Ministero della Sanità brasiliano il primo caso di persona malata di Covid-19 in America Latina. Da quel giorno l'America Latina e i Caraibi hanno visto espandersi la pandemia per tutta l'area, come del resto stava accadendo anche nella parte settentrionale del continente. La pandemia ha modificato profondamente l'agenda politica di tutti i paesi latinoamericani. Si sono modificate le forme in cui si manifestano le relazioni politiche, economiche e sociali: in molti casi diventano più visibili e drammatiche le contraddizioni e le criticità strutturali. Molti degli interventi giunti da marzo in poi hanno inserito la pandemia come una nuova dimensione del quadro descritto nel documento introduttivo, interpretando le dinamiche di paesi e regioni alla luce della nuova realtà.