Diritti umani: poco da celebrare, tanto per cui lottare
Nel 2025 Amnesty International celebra 50 anni dalla sua fondazione in Italia. Nel 1975 un gruppo di persone che, anagraficamente, non poteva non avere un ricordo diretto o mediato dalla generazione immediatamente precedente, della Seconda guerra mondiale e della Liberazione, decise di condividere e mettere in pratica i valori della Dichiarazione universale dei diritti umani e della Costituzione del nostro paese, entrambe del 1948.
Le parole d’ordine del 1948 erano “mai più”. Quelle di oggi potrebbero essere, amaramente, “una volta di più”.
Stiamo vivendo un decennio di crisi dei diritti umani: iniziato col devastante attacco globale al diritto alla salute causato dalla pandemia da Covid-19, che ha usato come corsia preferenziale lo smantellamento dei servizi di salute pubblica, le disuguaglianze economiche e gli assembramenti involontari, come le carceri e i centri per il rimpatrio dei migranti; proseguito con la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina, il cui svolgimento ha superato ormai i tre anni e la cui fine attualmente pare vincolata a una pace ingiusta; e poi andato avanti coi crimini commessi da Hamas nel sud d’Israele il 7 ottobre 2023 e i 16 mesi di risposta militare israeliana, di cui Amnesty International e altri hanno denunciato l’intento genocida.
La condotta delle operazioni militari nei due conflitti più noti, come in quelli dimenticati del Sudan e di Myanmar, sta minando alle fondamenta quel sistema internazionale di protezione dei diritti umani che aveva visto la luce proprio il 10 dicembre 1948 e che si era sviluppato attraverso le Convenzioni di Ginevra – la cui regola numero uno è “i civili non si toccano” e abbiamo visto quanto e come siano toccati – e una lunga serie di trattati a tutela di singoli diritti.
Oltre alle guerre, osserviamo un arretramento generale della tenuta dei diritti umani: secondo l’ultimo Rapporto di Amnesty International, sono almeno 85 gli stati in cui le proteste pacifiche sono del tutto impedite, represse con la forza o criminalizzate da leggi liberticide: quest’ultima caratteristica riguarderà sempre di più l’Italia.
L’accelerazione a questo stato di cose l’ha data indubbiamente l’avvio del secondo mandato del presidente degli Usa Donald Trump. I suoi decreti, le sue dichiarazioni, le sue posture stanno riguardando il destino di milioni di persone negli Usa e di un numero ancora maggiore di persone che vivono altrove nel mondo. Trump ha pericolosamente spostato il confine tra ciò che è possibile e ciò che è impossibile, facendo diventare accettabili azioni e comportamenti che fino a pochi anni fa sarebbero stati impensabili.
C’è, dunque, una crisi dei diritti umani che vede in campo più attori, convinti che il diritto sia “il diritto del più forte”.
La parola “crisi” indica un periodo storico diverso dal precedente. Chi si occupa da tempo di diritti umani trova molte analogie tra l’attuale decennio e l’ultimo dello scorso secolo: iniziato e terminato nei Balcani, attraversato da due genocidi (uno proprio lì, in Bosnia nel 1995, l’altro un anno prima in Ruanda), dalle guerre di Cecenia, da quella all’Iraq a seguito dell’occupazione del Kuwait, dal conflitto interno dell’Afghanistan e da altro ancora.
Ma proprio negli anni Novanta del XX secolo, oltre alla generosa solidarietà dal basso, ci fu una risposta istituzionale: la nascita della giustizia internazionale, dapprima coi due tribunali ad hoc per il Ruanda e l’ex Jugoslavia, poi nel 1998 con l’approvazione a Roma dello Statuto della Corte penale internazionale.
La giustizia sovranazionale come strumento di lotta all’impunità, dunque. Come alla fine del secolo scorso i due tribunali speciali emisero condanne per i gravissimi crimini, genocidio incluso, commessi nell’ex Jugoslavia e in Ruanda, così in questo decennio la Corte penale internazionale è intervenuta per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità commessi in Ucraina, in Israele e a Gaza.
Ed ecco uno degli aspetti più preoccupanti della crisi attuale: l’attacco alla giustizia internazionale attraverso l’applicazione di doppi standard per cui si plaude alla Corte penale internazionale quando accusa i nemici e la si delegittima quando lo fa con gli amici.
È inutile girarci intorno: la “pietra dello scandalo” è il mandato di cattura emesso il 21 novembre 2024, riguardo alla situazione in Palestina, nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, oltre che nei confronti dell’allora ministro della Difesa Yoav Gallant. Entrambi sono ricercati per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi tra l’8 ottobre 2023 e il 20 maggio 2024, il giorno in cui sono state formulate le accuse nei loro confronti. La Corte aveva emesso mandati di cattura anche per tre dirigenti politici e militari di Hamas, l’autorità de facto della Striscia di Gaza, quali responsabili diretti dei crimini del 7 ottobre 2023 in territorio israeliano, costati oltre 1200 vittime, e della presa in ostaggio di almeno 245 persone: Ismail Haniyeh, Yahya Sinwar e Ibrahim al-Masri, meglio conosciuto come Mohammad Deif. Di queste tre richieste, quelle per Haniyeh e Sinwar sono venute meno perché i due uomini sono stati uccisi in operazioni militari israeliane (la prima in Iran, la seconda nella Striscia di Gaza). La terza è stata accolta e il mandato di cattura è stato emesso in assenza di notizie certe sulla morte del ricercato, che è stata tuttavia confermata da Hamas il 30 gennaio 2025.
In Italia, il “caso” su cui si è esercitato l’attacco alla giustizia internazionale è stato quello del libico Osama Almasri. Arrestato a Torino, nell’albergo in cui pernotta, nelle prime ore del 19 gennaio 2025, trascorso il periodo di 48 ore entro il quale avrebbe dovuto essere convalidato il suo trattenimento è stato raggiunto da un mandato di espulsione emesso dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e riportato con un volo di stato a Tripoli, dove è stato accolto da festeggiamenti e da cori di scherno nei confronti dell’Italia.
Ma già nelle settimane che avevano preceduto la vicenda Almasri, entrambi i vicepresidenti del Consiglio avevano preso posizione sull’ipotesi che il primo ministro israeliano facesse visita nel nostro paese. Matteo Salvini aveva ricalcato le parole del primo ministro ungherese Victor Orbán: Netanyahu sarebbe il benvenuto. Antonio Tajani aveva ventilato uno scenario cinematografico (“Non possiamo mica fare una sparatoria a Fiumicino!”) per dire, in buona sostanza, che l’arresto non sarebbe stato in programma. Neanche troppo sottotraccia, era iniziata una narrazione istituzionale secondo la quale gli atti della Corte, che “non è la Bocca della verità”, vanno “analizzati”, “letti bene” in quanto “complessi” o, nelle parole del ministro Nordio circa il mandato di cattura nei confronti di Almasri, “pasticciati”. Si era sottolineato, mostrando scarsa conoscenza del ruolo della Corte, come fosse del tutto legittimo mettere in discussione un organo giudiziario che metterebbe “sullo stesso piano”, come più volte sottolineato dal ministro Salvini “i terroristi di Hamas col primo ministro di uno stato, democraticamente eletto”.
Il ruolo più discutibile e inquietante non lo hanno interpretato, tuttavia, esponenti del governo italiano. Alla vigilia dell’ottantesimo anniversario dell’apertura dei cancelli di Auschwitz, il primo ministro della Polonia Donald Tusk ha affermato che, qualora il primo ministro israeliano Netanyahu avesse voluto prendere parte alle celebrazioni per la ricorrenza, non sarebbe stato arrestato, associando in qualche modo la garanzia di impunità da lui offerta al primo ministro israeliano e la memoria della Shoah, il genocidio per antonomasia.
Ma non è finita qui. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il 6 febbraio 2020, nel corso del suo primo mandato, aveva imposto sanzioni nei confronti dello staff della Corte penale internazionale e il dipartimento del Tesoro Usa aveva congelato i beni bancari del procuratore Khan, inserendolo tra le “Specially Designated Nationals and Blocked Persons”, una lista nera di persone cui “è vietato fare affari con gli statunitensi e sono soggette a restrizioni di ingresso negli Stati Uniti”.
Cinque anni dopo, durante il suo secondo mandato, Trump ha firmato un nuovo decreto esecutivo, proprio mentre Netanyahu è in visita negli Stati Uniti. Accompagna la firma con l’accusa alla Corte di avere avviato “azioni illegittime e prive di fondamento contro gli Stati Uniti e il nostro stretto alleato Israele”. Nel decreto, si è fatto riferimento a "conseguenze tangibili e significative", che i commentatori hanno interpretato come il blocco di proprietà e beni e il divieto di ingresso negli Stati Uniti, per funzionari e dipendenti della Corte e per i loro parenti.
Rivolgendosi alla stampa, Trump ha dichiarato che la Corte dovrebbe limitarsi a operare in contesti nei quali uno stato autoritario non assicura la giustizia, evitando di occuparsi di vicende che possono essere affrontate dai tribunali nazionali, come nel caso degli Usa e di Israele. Il presidente statunitense ha dimenticato di dire che il compito di decidere quali stati siano able and willing (ossia, in grado di e disposti ad accertare e punire i crimini internazionali) non spetta – né potrà mai spettare – agli stessi stati interessati. È un compito della Corte. Una settimana dopo l’executive order di Trump, 79 stati – 23 dei quali membri dell’Unione europea – hanno firmato una dichiarazione di condanna delle sanzioni Usa nei confronti della Corte. L’Italia non era nell’elenco.
Nel luglio 1998, quando un’immensa folla si sedette in terra tra piazza Venezia e il Colosseo per sollecitare l’adozione dello Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale, il motto “non c’è pace senza giustizia” univa due parole fondamentali per dire che finché ci sarà impunità le guerre rischieranno di andare avanti o, quanto meno, si fermeranno in cambio proprio della mancanza di punizioni nei confronti dei responsabili dei crimini commessi.
Oggi quelle due parole sono ancora insieme, ma la frase tende sempre più a essere più breve, priva di quel “non” iniziale.
Ci spiegano, arguti e smaliziati commentatori, che la pace non si può fare se Putin e Netanyahu sono ricercati per gravi crimini di diritto internazionale.
La risposta più ovvia è che se un sistema di giustizia internazionale fosse stato condiviso e riconosciuto nella sua imparzialità, se cioè gli organismi giudiziari globali fossero stati resi davvero efficaci ed efficienti, le attuali guerre non ci sarebbero state.
Continuiamo ad avere gli stessi attori intorno ai tavoli: quelli dove si cerca di porre fine alle guerre iniziate e quelli dove non si fa nulla per prevenire il loro inizio. Attori ancora più legittimati dalla nuova malefica formula: pace in cambio d’impunità (e, magari, pure di territori).
Ma, parafrasando il titolo italiano degli scritti dal carcere di Alaa Abd el-Fattah, il Gramsci egiziano, non siamo stati ancora sconfitti.
All’inizio del luglio 2024 gli studenti scesi in piazza in Bangladesh per protestare contro una legge che avrebbe riservato una quota sproporzionata di impieghi nell’amministrazione pubblica ai figli dei veterani della guerra d’indipendenza del 1971 avevano messo in conto di pagare con tanto sangue il loro coraggio. Ma non avrebbero mai immaginato di ritrovarsi, neanche un mese dopo, intorno al nuovo primo ministro ad interim: il Nobel per l’Economia Muhammad Yunus.
Nonostante gli orrori di questo inizio di secolo, è quell’immagine arrivata dal Bangladesh che dobbiamo conservare e proteggere. Ci dice che l’utopia, quel sogno collettivo di un mondo in cui i diritti siano uguali e rispettati per tutte e tutti, resiste ancora. A patto d’impegnarci a far cambiare tavoli, sedie, convenuti e contenuti. Che l’impossibile sia possibile possiamo sperarlo anche noi.