I diritti umani, filo d’Arianna?

Guido Lenzi
Ambasciatore, è stato Direttore dell’Istituto europeo di Studi di Sicurezza a Parigi, docente presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna.

Patrimonio occidentale, di matrice cristiana, accumulato attraverso l’Umanesimo rinascimentale, il Bill of Rights britannico nel Seicento, l’Illuminismo settecentesco, la Rivoluzione francese, le autodeterminazioni dell’Ottocento, la disintegrazione degli Imperi a Versailles, la Carta delle Nazioni Unite, fino allo stesso processo di decolonizzazione, il principio del rispetto dei diritti umani si è gradualmente affermato.
Sempre invocati, anche se non sempre degnamente onorati, riconosciuti da Cristobal de Las Casas nel Nuovo Mondo, descritti poi da Montesquieu, esaltati da Rousseau, furono codificati nella Dichiarazione sui diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (estesa alle donne da Olympe de Gouges, nel 1791), aprendo la strada alla Dichiarazione detta ‘universale’ del 1948. 
Nel 1941, il Presidente Roosevelt aveva incluso fra gli scopi bellici le ‘quattro libertà’, dalla paura, dal bisogno, di espressione e di credo.  Nel 1945, la Carta dell’ONU si riferì esplicitamente ai ‘diritti umani e libertà fondamentali’ per ben sei volte (nel preambolo, agli Art 1.3, 13.1.b, 55.c, 62.2 e 76.c). Un impegno affidato all’operato delle sue Agenzie specializzate, riversato infine nella Dichiarazione del ‘48 (significativamente non sottoscritta dalla Russia, dall’Arabia Saudita, né dal Sud Africa), che si appella alla “ragione e coscienza”. Nel 1966, la Convenzione sui diritti civili e politici, e quella sui diritti economici, sociali e culturali, ne specificarono la consistenza.
Tale la genesi, prettamente occidentale, dei diritti umani. Dei quali il processo d’integrazione europeo è diventato la più evidente traduzione istituzionale. Nel 1950, il Consiglio d’Europa stilò subito una propria Convenzione, sorretta da una Corte europea dei diritti umani (CtEDU), delle quali commemoriamo appunto il settantacinquesimo anniversario. Nel 2000, infine, l’Unione europea si è dotata di una Carta dei Diritti Fondamentali, dopo averne incluso i principi fra le ‘condizionalità di Copenhagen’ che rivolse nel 1993 ai candidati all’adesione. Un esempio che tarda tuttavia a radicarsi altrove 

È su tali basi che l’esaurirsi della contrapposizione fra Est e Ovest suscitò la convinzione che la Storia, l’antagonismo post-bellico cioè, fosse “finita”. Che si potesse in altre parole tornare alla casella di partenza del 1945. Che il wir sind das Volk dei manifestanti a Berlino, il people power proclamato a Praga da Havel, così come le ‘primavere’ sbocciate nel mondo arabo (nel 2004 venne persino approvata una ‘Carta Araba’), avessero finalmente aperto la porta al generale riconoscimento delle aspirazioni popolari. Così non è ancora stato. Gli avvenimenti conseguenti alla caduta del Muro dovrebbero però aver confermato quanto la tutela dei diritti umani, da principio ideale, possa costituire un utile filo d’Arianna per uscire dall’attuale labirinto internazionale. Fornire, in altre parole, il comune denominatore, per quanto variamente declinato, per ricomporre l’integrità del sistema internazionale liberale, basato sulla convergenza e la collaborazione.
Una reazione difensiva, sovranista, essenzialmente agorafobica rispetto alle conseguenze della globalizzazione, ha invece contestato l’universalità dei diritti umani e relativi doveri, identificandovi un’imposizione di stampo occidentale. A Mosca (e, con minor veemenza, a Pechino) si denuncia persino apertamente quel ‘conflitto di civiltà’ che Huntington aveva intravisto, contrapponendo le responsabilità collettive prevalenti nelle antiche società orientali ai diritti individuali affermatisi in Occidente. Una distinzione non immune da connotazioni razziste. Si dovrebbe piuttosto distinguere, come fece Bobbio, fra le libertà fondamentali, dalla paura e dal bisogno, indiscutibilmente universali, e quelle di espressione e di credo, relativizzabili secondo le specifiche tradizioni storiche e sociali.
Le generali condizioni di sicurezza internazionali, che gli eventi hanno turbato, vanno comunque considerate nell’insieme delle loro componenti anche sociali ed economiche. L’Agenzia per i programmi di sviluppo dell’ONU (UNDP) si riferisce infatti alla ‘Sicurezza umana’, pubblicandone biannualmente gli indici, in termini di educazione, coinvolgimento sociale, condizione femminile, occasioni lavorative, sviluppo economico, collaborazione internazionale, ecc.
Fattori che generano il fenomeno immigratorio di massa che sconvolge gli esiti elettorali nel mondo libero, da affrontare pertanto all’origine piuttosto che nei luoghi di approdo. E che, nelle autocrazie (anche latinoamericane) intensifica la repressione; in Medioriente lacera le secolari coabitazioni confessionali; nei paesi emergenti cronicizza gli squilibri interni. Dando adito a persecuzioni, guerre civili e forme di pulizia etnica, dalle rive del Mediterraneo alla Birmania al  Xinjiang cinese, oltre a pretesti per interventi esterni a protezione di collettività allogene, come negli Stati confinanti con la Russia, che se ne avvale per rivendicare ogni territorio russofono. Situazioni tutte che vulnerano l’intero ordinamento internazionale.
Donde gli interventi ‘umanitari’, secondo lo spirito se non la lettera della Carta dell’ONU, nei casi appunto di “gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani”. Seppur rivelatisi scarsamente determinanti, hanno condotto all’affermazione di una ‘responsabilità di proteggere’ gravante sugli Stati, nei confronti dei propri cittadini quanto della sicurezza e stabilità regionali. Criteri che hanno trovato la loro prima espressione nella Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n.1973/2011, sulla situazione in Libia.
Il rispetto dei diritti umani può trovare una motivazione persino in ambito commerciale, prescrivendo ad esempio eque retribuzioni e il non ricorso al lavoro minorile, che l’ammissione della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, nel 2000, avrebbe dovuto assicurare.
Infine, conformemente a quanto disposto un secolo fa a Versailles, ogni pretesa autodeterminazione non può prescindere dalla tutela delle minoranze residue. Giacché, in definitiva, come ricordava Tocqueville, la democrazia consiste nella compartecipazione, non nella dittatura della maggioranza. Un parametro che misura l’effettività, e pertanto la stabilità, di uno Stato. Che incide anche sul recupero del multilateralismo, eroso dal rigurgito di anacronistici sovranismi. Trattandosi sostanzialmente di ‘democratizzare’ il comportamento degli Stati attraverso un’internazionalizzazione di criteri di diritto interno.
Renan riconosceva una nazione nel suo ‘voler vivere assieme’. Un precetto che, ai giorni nostri, Michael Ignatieff traspone a livello globale, propugnando un ‘imperialismo soft’, mediante aggregazioni federative sub-regionali. La direzione nella quale, in un mondo globalizzato, dovremmo riuscire ad incamminarci.