La crisi del multilateralismo: tra contestazione e autoconservazione nell’era della pace illiberale
“There is no alternative to the rule of law and multilateralism. We need to defend it, every day!”*
L'era post-Guerra Fredda è giunta al suo termine e con essa anche l’ordine internazionale che l’aveva caratterizzata. In “The Great Delusion” (2018) John Mearsheimer ha affermato che l’egemonia liberale fosse destinata a finire. Secondo il padre del realismo offensivo, concentrandosi sulla diffusione dei diritti umani, sulla promozione di un’economia aperta, e sulla creazione di istituzioni internazionali, gli stati occidentali, ed in particolare gli Stati Uniti, avrebbero perso di vista questioni molto più importanti, legate all’equilibrio di potere, favorendo così l’emergere di potenze rivali e di un ordine multipolare. Se la posizione di Mearsheimer non stupisce, anche un ‘liberale forte’ come John Ikenberry (2018) ha ammesso che sebbene non sia ancora estinto, l’ordine internazionale liberale si trova oggi in profonda crisi, non solo a causa di fattori esterni legati al (ri)sorgere di potenze revisioniste, ma anche per problemi interni alle stesse democrazie liberali che stanno sperimentando un aumento delle disuguaglianze, stagnazione economica, e una crescente polarizzazione.
In quanto espressione di un ordine internazionale ormai in declino, la cooperazione multilaterale, o multilateralismo, è passata da essere il principale metodo per la risoluzione delle dispute internazionali a strumento residuale. L’incapacità delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea di arrivare a una soluzione condivisa per porre fine ai conflitti in Siria, in Yemen, e in Sudan è stata affiancata dall’emergere delle iniziative parallele di outliers come la Russia e l’Arabia Saudita, che hanno offuscato i confini tra peacemaking a warmaking, avendo sia partecipato direttamente ai conflitti sia svolto un ruolo centrale come mediatori. Il tipo di pace proposto da Mosca e Riad, insieme ad altre potenze autoritarie e semi-autoritarie come la Cina e la Turchia, viene definito in letteratura come ‘pace illiberale’ (Lewis et al., 2018) in contrapposizione al modello ‘liberale’, legato a democrazia e diritti umani, emerso all'inizio degli anni novanta nell'ambito delle Nazioni Unite e predominante fino all'inizio dello scorso decennio. Se quest’ultimo costituiva un approccio di risoluzione dei conflitti, ed era quindi orientato ad affrontare le cause profonde della violenza, quello delle potenze autoritarie è invece un approccio di gestione dei conflitti, che non ha obiettivi trasformativi ma mira piuttosto a porre fine alla violenza diretta attraverso negoziati tra le élite e la firma di un cessate il fuoco o di un accordo di pace limitato. In questo scenario le grandi organizzazioni internazionali come l'ONU, l'UE, e l’Unione Africana, che lavorano sul consenso di molte parti e su un'ampia partecipazione della società civile, fanno fatica ad adattarsi ai ritmi imposti dallo stile di mediazione coatta ed esclusivista promosso ormai non solo da Mosca, Pechino, o Riad ma anche da Washington (il che dovrebbe mettere in discussione la nostra idea di ‘Occidente’), come si è visto con gli accordi di Doha tra la prima amministrazione Trump e i Talebani, o con i negoziati in corso sul futuro dell'Ucraina e di Gaza.
Se questo scenario sembra condannare le organizzazioni internazionali, e con loro il sistema di protezione dei diritti umani, all’irrilevanza, gli studi accademici sembrano invece lasciare spazio a uno spiraglio di ottimismo. L’opera di Martha Finnemore and Michael Barnett (1999) ha da tempo gettato luce sul ruolo delle organizzazioni come agenti autonomi in grado di esercitare diverse forme di potere e quindi di influenzare l’andamento della politica internazionale. Il carattere tecnico e specialistico delle burocrazie internazionali continua a costituire uno strumento di controllo delle competenze e delle informazioni necessario a risolvere i problemi di politica estera. L’autorità delle organizzazioni internazionali, non deriva solamente dal mandato ricevuto dai governi nazionali ma anche, e soprattutto, dalla legittimità di cui godono presso un pubblico che è composto oltre che dagli stati nazione anche da attori non-statali, gruppi di interesse, e singoli individui. La maggior parte di questi attori continua a essere socializzata ai valori liberali e a considerare legittime queste istituzioni proprio in quanto porta bandiera di uno specifico sistema di norme, valori, e credenze che gira attorno alle idee di giustizia sociale e di diritti umani. Al lato dei numerosi studi sulla crisi del multilateralismo, ne stanno sorgendo altri che indagano la longevità e l'adattabilità delle organizzazioni internazionali nell'affrontare le sfide poste dal mutato panorama internazionale. Hylke Dijkstra e colleghi (2025), per esempio, hanno recentemente dimostrato che le organizzazioni internazionali con apparati burocratici grandi e solidi sopravvivono più a lungo e possono resistere meglio alle pressioni geopolitiche rispetto a quelle con burocrazie più piccole e una minore capacità amministrativa. I funzionari internazionali giocano un ruolo fondamentale nell’influenzare le fasi di definizione dell'agenda e di formulazione delle politiche, godendo in alcuni casi di ampi margini di autonomia. Erroneamente considerati proxy degli attori nazionali, i burocrati internazionali conformano invece una élite sopranazionale che condivide un forte senso di appartenenza alle istituzioni per cui lavorano e alla loro missione. Jarle Trondal e Frode Veggeland (2014) hanno evidenziato in uno studio sull'OMC, l’OCSE, e la Commissione Europea, che i funzionari sono mossi da una ‘logica sovranazionale’ e che, rispondendo a percezioni comportamentali collettive e a codici di condotta condivisi indipendenti da particolari interessi nazionali, fungono da ‘guardiani del sistema’.
Ci si può ragionevolmente aspettare quindi che le NU e l’UE, in quanto dotate di una componente burocratico-sopranazionale solida e relativamente coesa, saranno in grado di rispondere agli shock provenienti dall’esterno e alla contestazione dei paesi revisionisti nei confronti degli organismi per i diritti umani. Per Gisela Hirschmann (2021) ci sono almeno tre strategie che le burocrazie internazionali possono adottare per rispondere alle sfide poste al multilateralismo: l’adattamento, l’aumento della resilienza, e l’inerzia. Nel primo caso, si tratta di introdurre cambiamenti istituzionali che accolgono, spesso nella forma più che nella sostanza, le richieste dei detrattori. Le spinte per un approccio sempre più pragmatico e meno liberale alla costruzione della pace sono state incorporate dalle organizzazioni internazionali per mezzo di concetti retorici quali ‘approccio integrato’ o ‘idealismo pragmatico’ che nei fatti hanno alterato di poco o di nulla le pratiche di pace esistenti, al contempo contribuendo ad attenuare i giudizi sfavorevoli. Nel secondo caso, si tratta di isolare le organizzazioni dall’influenza degli stati contestatori. Per esempio, nel 2017 il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA) ha affrontato i tagli al budget e le limitazioni al finanziamento di programmi di salute riproduttiva imposti dalla prima amministrazione Trump attraverso un riaggiustamento cosmetico dei programmi esistenti enfatizzandone la componente ‘umanitaria’, esonerata dai tagli. Nel gennaio 2025, invece, la Corte Penale Internazionale è ricorsa alla creazione di una coalizione di attori like-minded in difesa del diritto internazionale (il Gruppo dell’Aia), in risposta agli attacchi di Stati Uniti e Israele (tra gli altri), per l’emissione di un mandato di arresto nei confronti della leadership di Hamas e del governo israeliano per crimini di guerra e contro l’umanità. Un’altra forma di aumentare la resilienza delle organizzazioni è diminuire la legittimità dei detrattori attraverso lo shaming. Philippe Lazzarini, commissario generale dell’UNRWA, ha contrastato la messa al bando dell’agenzia da parte delle autorità israeliane e il taglio dei fondi minacciato da molti paesi, tra cui l’Italia, con l’avvio di un’intensa campagna mediatica con cui ha condannato l’irresponsabilità e l’impatto sui diritti umani di migliaia di civili palestinesi, contribuendo a un'impennata delle donazioni da parte del settore no-profit (APNews, 2025). L’inerzia, infine, non va confusa con immobilismo o acquiescenza, ma configura piuttosto un uso strategico e immaginativo dei meccanismi burocratici, quali la manipolazione delle informazioni, l’auto-legittimazione, o la produzione di feedback positivi, con il fine di mantenere un corso politico, elevando così l’inazione a strumento generativo e contro-rivoluzionario. La riaffermazione della teoria della pace democratica nella New Agenda for Peace delle NU o il continuo riferimento alla costruzione della democrazia e alla promozione dei diritti umani come soluzione ai conflitti nel Sahel da parte dell'Alto Rappresentante dell'Unione per gli Affari EsteriNew Agenda for Peace[1] sono entrambi esempi validi del risultato di dinamiche inerziali.
In conclusione, è legittimo aspettarsi dalla ‘crisi’ del multilateralismo un'accelerazione delle spinte all'autoconservazione da parte delle organizzazioni internazionali, con una maggiore enfasi sulla loro identità liberale per rimarcare il divario ontologico che le separa dalle prassi autoritarie. Questo, a giudizio dell’autore, lungi dal costituire una forma di cecità, costituisce l’unico antidoto contro l’avanzata di un ordine internazionale autoritario basato sulla forza e sull’esclusivo interesse nazionale. Nell’ambito della risoluzione dei conflitti, la pace liberale, che ha le sue radici nel multilateralismo e nella promozione dei diritti umani, rimane ad oggi l’unico tentativo, per quanto imperfetto, di fornire una risposta complessiva alla violenza nelle sue diverse declinazioni, mentre i suoi ideali di uguaglianza ed emancipazione continuano a costituire un potente polo di attrazione per molte società che escono dalla guerra.
*Post su Linkedin di Daniel Maier, responsabile della pianificazione strategica della missione MONUSC
[1] Josep Borrell (8 Settembre 2023). Discorso “Democracy must prevail in the Sahel”.