Mercati, imprese e diritti umani, tra retorica e realtà"
Il 3 novembre 2023, la Gazzetta Ufficiale della Repubblica di Panama ha pubblicato una legge appena promulgata dal Presidente che vieta il rilascio di nuove autorizzazioni per lo sfruttamento, l’estrazione, il trasporto e il trattamento dell’attività mineraria metallica su tutto il territorio nazionale. La norma introduce una moratoria a tempo indeterminato, impedendo al Ministero del Commercio e dell’Industria di concedere nuove licenze alle imprese multinazionali.
La decisione è arrivata dopo settimane di proteste iniziate il 20 ottobre, in seguito al rinnovo della concessione alla compagnia Minera Panamá – First Quantum Minerals per l’estrazione di rame in aree ad alta biodiversità, come le foreste tropicali. Il progetto, di proporzioni considerevoli, avrebbe comportato la diffusione di sostanze tossiche, gravi livelli di inquinamento e un aumento del rischio sanitario per le comunità indigene. Ancora nell’agosto 2024, l’attenzione pubblica rimaneva alta per la presenza nel sito di oltre 130.000 tonnellate di materiale pericoloso.
La repressione delle mobilitazioni ha provocato la morte di quattro persone. Global Witness ha documentato che nel 2023 sono stati uccisi 196 difensori dell’ambiente dopo aver esercitato il loro diritto a proteggere le proprie terre e l’ambiente da danni e minacce. Il numero reale è probabilmente più alto. Questo porta il totale degli omicidi registrati a oltre 2.000 a livello globale, da quando Global Witness ha iniziato a raccogliere dati nel 2012.
Tutto ciò è accaduto nonostante Panama abbia ratificato l’Accordo di Escazú, uno strumento giuridico regionale pensato per garantire trasparenza, partecipazione e giustizia nelle decisioni ambientali, oltre a tutelare i difensori dell’ambiente da minacce e abusi.
Le violazioni, però, non riguardano solo governi o imprese locali. Anche grandi aziende europee sono coinvolte. Un caso emblematico è quello della multinazionale francese Veolia, accusata da Global Witness di aver scaricato liquidi tossici non trattati in zone umide protette della Colombia. Video girati di nascosto mostrano dipendenti del sito mentre pompano percolato direttamente nell’ambiente, mentre analisi indipendenti rivelano la presenza di mercurio a livelli 25 volte superiori ai limiti di sicurezza. Medici e attivisti locali hanno denunciato un incremento delle malformazioni nei neonati e sono stati costretti a fuggire dopo aver ricevuto minacce di morte. Anche qui, la distanza tra principi enunciati e applicazione concreta appare evidente.
È proprio in questo scarto che si inserisce una riflessione più ampia sul rapporto tra economia globale e diritti umani. Fin dal 2009, con l’accordo tra UE e Corea del Sud, i trattati commerciali europei includono un capitolo sul commercio e lo sviluppo sostenibile (TSD). Secondo la Commissione Europea, questi capitoli dovrebbero tutelare i diritti dei lavoratori, proteggere l’ambiente e promuovere l’azione climatica. Tuttavia, nella pratica, si rivelano spesso inefficaci, privi di strumenti vincolanti e lasciati alla discrezionalità degli Stati.
L’accordo UE-Vietnam (EVFTA) è stato duramente criticato da numerose organizzazioni per i diritti umani. La repressione contro attivisti vietnamiti impegnati nel monitoraggio del TSD ha portato a una denuncia formale presso la Commissione Europea, senza però che venissero attivati meccanismi sanzionatori. Secondo la European Climate Justice Coalition, l’UE non ha dimostrato una reale volontà di far rispettare le proprie regole.
Un discorso analogo vale per l’accordo UE–Nuova Zelanda, firmato nel 2023 e presentato come modello di sostenibilità. Sebbene faccia riferimento a convenzioni internazionali e principi ONU, non prevede strumenti di enforcement vincolanti né meccanismi sanzionatori. La partecipazione della società civile è limitata a organismi consultivi privi di potere reale, e mancano riferimenti sostanziali ai diritti delle popolazioni indigene, soprattutto Maori, dei migranti e dei lavoratori più vulnerabili.
È dunque evidente come gli accordi commerciali promossi dall’UE, pur ispirandosi a principi di sostenibilità, siano privi degli strumenti necessari per garantirne l’effettiva attuazione. Molti rinviano alla legislazione nazionale degli Stati membri, indebolendo gli standard comuni e aprendo la strada a interpretazioni divergenti.
Questo riflette una deriva strutturale: da un lato, l’UE si propone come leader globale nella promozione di un commercio equo e sostenibile; dall’altro, continua a privilegiare la liberalizzazione degli scambi a scapito della tutela dei diritti umani e ambientali. L’accordo con la Nuova Zelanda è emblematico: celebrato come esempio virtuoso, resta privo degli strumenti per affrontare davvero le sfide del nostro tempo.
I dati storici confermano la problematicità del rapporto tra commercio e diritti umani. Dall’epoca coloniale al NAFTA, fino all’industria tessile in Bangladesh, la crescita economica si è spesso accompagnata a sfruttamento e disuguaglianze. Le maquiladoras messicane e il crollo del Rana Plaza a Dhaka nel 2013, rappresentano esempi estremi ma indicativi: l’assenza di tutele efficaci ha generato precarietà e gravi abusi, soprattutto a danno di donne, popolazioni indigene, lavoratori rurali e difensori dei diritti umani.
E i Principi Guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani (UNGPs), sebbene costituiscano un importante punto di riferimento, non bastano senza obblighi vincolanti e strumenti sanzionatori.
In questo contesto si colloca anche l’approvazione, da parte dell’UE, della Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD), inizialmente pensata come pilastro della transizione verso un’economia più sostenibile. Tuttavia, il pacchetto normativo “Omnibus”, approvato nel 2025 con l’obiettivo dichiarato di “semplificare e migliorare la competitività”, ha compromesso elementi centrali della direttiva, limitandone ambizione e portata. Tra i punti più critici c'è l’innalzamento delle soglie dimensionali, che esclude la maggioranza delle imprese europee, soprattutto le PMI, e ne riduce drasticamente l’impatto, in particolare nei contesti del Sud globale, dove si registrano le violazioni più gravi.
Ma non è solo una questione quantitativa. L’Omnibus ha anche introdotto formulazioni vaghe e non vincolanti sulle responsabilità aziendali. Limitare la due diligence ai soli “partner diretti” indebolisce l’approccio degli UNGPs, rendendo più difficile prevenire impatti negativi lungo l’intera catena del valore e ostacolando l’accesso alla giustizia per le vittime.
Il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani ha espresso forte preoccupazione per l’indebolimento della responsabilità civile. Senza meccanismi efficaci di rendicontazione e sanzione, il rischio è che la due diligence si trasformi in un esercizio formale, privo di reale valore trasformativo.
La mancanza di trasparenza nel processo di modifica della direttiva, unita all’adozione di un iter negoziale accelerato e privo di un reale coinvolgimento della società civile, ha minato ulteriormente la legittimità democratica dell’intero impianto. Procedere verso una deregulation senza confronto aperto, come ricordano anche gli esperti ONU, erode la fiducia nelle istituzioni europee e contraddice i principi di buona governance che l’UE sostiene da decenni.
Davanti a un tale scenario, l’assenza di uno strumento internazionale giuridicamente vincolante che disciplini le attività delle imprese transnazionali resta una delle più gravi lacune dell’architettura globale dei diritti umani. Dopo dieci anni di negoziati, il trattato ONU su imprese e diritti umani è ancora lontano da una versione definitiva. Secondo la Federazione Internazionale per i Diritti Umani (FIDH), l’ultima bozza è indebolita da ambiguità, richiami eccessivi alle legislazioni nazionali e dalla mancanza di meccanismi vincolanti per il monitoraggio e l’accesso alla giustizia.
Preoccupa in particolare la tendenza a cancellare ogni riferimento chiaro alla responsabilità delle società madri per le violazioni commesse lungo le catene globali di fornitura. Un passo indietro che rischia di smantellare uno degli elementi più innovativi del trattato: il diritto delle vittime a ottenere giustizia anche quando le violazioni avvengono lontano dai centri decisionali delle imprese.
Omettere questa responsabilità significa lasciare che il cuore economico e strategico di molte operazioni resti immune dalle proprie conseguenze. È un arretramento pericoloso, che concede spazio a una narrazione imprenditoriale in cui la tracciabilità vale solo come argomento di marketing, ma non come vincolo giuridico.
Le dinamiche internazionali non aiutano. La crescente polarizzazione geopolitica e le nuove guerre commerciali stanno accelerando la disarticolazione del sistema globale di regole e standard costruito negli ultimi decenni, sebbene con lacune e criticità. Le posizioni radicalmente anti-regolatorie della nuova amministrazione americana e la mancanza di un contraltare credibile sul piano internazionale rischiano di innescare una corsa al ribasso senza fine. Uno scenario dove, le organizzazioni della società civile, sono chiamate a un protagonismo rinnovato e, si auspica, più radicale.