I 70 anni di regime militare in Egitto: un solido rapporto di fiducia tra le forze armate e i cittadini
Nel luglio del 2022 l’Egitto ha consacrato i suoi 70 anni di regime militare, a esclusione della breve parentesi, avvenuta tra il 2012 e il 2013, che ha visto alla guida del Paese Mohamed Morsi, leader dei Fratelli musulmani.
La storia della “Repubblica degli ufficiali” - appellativo utilizzato dall’analista Yezid Sayigh - inizia nel 1952, anno in cui viene rovesciata la monarchia egiziana dal Movimento degli ufficiali liberi, guidato da Mohammed Neghib e da Gamal Abdel Nasser.
Prende il potere Mohammed Neghib, colonnello dell’esercito che, grazie alle sue idee abbastanza moderate, vanta l’appoggio dei Fratelli Musulmani, dei nazionalisti del Wafd e delle altre forze politiche. Tuttavia non riesce ad arginare l’ala più estremista del Movimento degli ufficiali liberi guidata da Nasser che, in nome della rivoluzione, spinge verso una struttura istituzionale più chiusa.
Sarà proprio quest’ultimo, nel 1954, a destituire Neghib e a prendere il potere, per poi essere eletto Presidente della Repubblica due anni dopo.
È in questo momento che viene consacrato il legame tra le forze armate e gli egiziani, destinato a perdurare nel tempo.
Nasser decide di seguire una linea rigida: soffoca il multipartitismo e inizia una dura persecuzione contro i Fratelli musulmani.
Durante la sua presidenza le forze armate assumono un ruolo centrale nel promuovere lo sviluppo della nazione cercando di offrire una risposta a quel sentimento di rivalsa condiviso dagli egiziani dopo secoli di colonialismo e regimi monarchici.
Il loro compito è quello di portare avanti una “missione d’avanguardia”, come la definì lo stesso Nasser nel suo libro “Filosofia della Rivoluzione” in cui chiarisce le cause, le speranze e gli obiettivi della rivoluzione iniziata nel 1952.
I militari diventano parte integrante della rivoluzione sociale che Nasser guiderà fino al 1970, anno della sua morte, e che porterà all’adozione di importanti riforme (nel settore agrario, dell’istruzione e industriale) e la nazionalizzazione del Canale di Suez, vero e proprio simbolo del nazionalismo nasseriano.
L’analisi del ruolo dei militari, nell’era di Nasser, appare fondamentale per comprendere l’evoluzione della storia egiziana.
Il suo successore, Anwar al-Sadat, in carica dal 1970 al 1981, si distacca dal patrimonio ideologico, politico ed economico di Nasser e avvia una nuova fase orientata al neoliberismo.
Sadat proclama una politica economica aperta con la speranza che un sistema economico liberalizzato riesca ad attirare capitali dai paesi occidentali (John Waterbury. The Egypt of Nasser and Sadat: The Political Economy of Two Regimes. Princeton Legacy Libraries, 2016).
Tuttavia restano alcuni punti di contatto con la linea seguita dal suo predecessore che risiedono nella centralità dell’esercito per il mantenimento dell’unità nazionale e del prestigio sul piano internazionale.
Sadat infatti, pur affermando il suo peso nell’esecutivo, coinvolge i militari nella vita politica ed economica del Paese.
La strategia seguita da Sadat si infrange però su tre mosse che saranno determinanti per il futuro della sua presidenza: la ricerca del dialogo con i Fratelli musulmani, ponendo fine all’illegalità del movimento; la firma degli accordi di Camp David con Israele nel 1978, e il Trattato di pace israelo-egiziano nel 1979. Quest’ultimo in particolare costerà a Sadat la perdita di consensi da parte degli islamisti e dell’esercito, che aveva costruito parte della sua identità sulla sconfitta di Israele.
Sadat viene ucciso in un tentativo di colpo di Stato guidato dal tenente Khalid al-Islambud, durante la parata militare del 6 ottobre del 1981.
L'assassinio di Sadat fa scivolare il Paese in momenti di tensione e rivolte che si sedano con l’arrivo di Hosni Mubarak, generale molto vicino a Sadat, che aveva conquistato l’immagine di eroe nella guerra dello Yom Kippur del 1973.
Mubarak, sul piano della politica economica ed estera, segue una linea che può essere considerata un ibrido tra Nasser e Sadat. Per quanto riguarda il ruolo dei militari, invece, si trova molto vicino a Sadat: sceglie il maresciallo ‘Abd al-Halîm Abû Ghazâla come ministro della Difesa (1981-89) e cerca di mantenere una struttura di potere dalla natura apparentemente politica in cui i militari accettano il ruolo formale di esercito al servizio dello Stato.
In questa breve narrazione, di quasi sessant’anni di storia egiziana, emergono due aspetti che accomunano il percorso dei tre presidenti:
- l’esercito ha sempre avuto un ruolo politico-sociale predominante ma dall’influenza politica informale. Gli uomini al potere, e nelle istituzioni, infatti, erano quasi sempre ex ufficiali che avevano abbandonato la divisa per ricoprire incarichi importanti nel governo e negli organi burocratici. Una tendenza, tra l’altro, che stava iniziando a diminuire nell’ultimo decennio di Mubarak.
- i tre regimi hanno mostrato, nell’apparente immobilità dell’apparato istituzionale, una forte capacità di trasformazione attuando linee politiche differenti in base alle esigenze contemporanee. Una caratteristica che ha fatto dell’Egitto un punto di riferimento tra Oriente e Occidente assicurandogli un ruolo di importanza nel mantenimento degli equilibri internazionali.
Dalla fine di Mubarak a oggi, l’Egitto ha dimostrato, ancora una volta, la sua identità istituzionale camaleontica.
Abdel Fattah al-Sisi però segna una rottura con i suoi predecessori.
Quest’ultimo, infatti, pone l’esercito al centro della vita politica e sociale egiziana attraverso una strategia che ricorda le aspirazioni rivoluzionarie di Nasser ma dando vita a un apparato istituzionale ancora più militarizzato.
Dal 2013 il ruolo dei militari sul piano pubblico, politico ed economico è stato determinante.
Dopo la deposizione di Morsi il Consiglio supremo delle forze armate (SCAF) ha guidato la stesura della Costituzione del 2014 e ha preso parte in modo diretto al processo decisionale.
Se da un lato può apparire contraddittorio che un regime militare, così strutturato, abbia trovato la sua legittimazione proprio dopo la “Primavera araba”, dall’altro è coerente con quello che l’esercito rappresenta nell’immaginario collettivo arabo: l’unico apparato in grado di salvare la popolazione da sistemi politici-istituzionali corrotti e inefficienti.
La storia dei Paesi dell’area MENA (Middle East and North Africa), del resto, è profondamente legata a quella dei loro militari.
Algeria, Tunisia, Egitto, Sudan, ma anche Iraq e Yemen, sono solo alcuni degli Stati che hanno costruito il loro apparato istituzionale sotto l’influenza dell’esercito.
Un processo politico-istituzionale che è sopravvissuto nel tempo e che si riscontra nel modo in cui l’opinione pubblica percepisce le forze armate.
Dai dati raccolti dall’Arab Barometer, tra il 2018 e il 2019, il 49,3% degli intervistati, su un campione di 11.562 individui, ha dichiarato di avere un “alto livello” di fiducia verso le proprie forze armate, mentre il 26% “molta”. Il restante 24,7% si è diviso tra: “non molta fiducia” (12,5%); “nessuna” (10,7%) e “non so” (1,5%).
Tra i Paesi con i risultati più alti sono emersi: la Giordania, con l’83,3% dei cittadini che ha espresso un alto livello di fiducia verso i militari; la Tunisia, con il 69%; il Libano, con il 63,7%; l’Egitto con il 57%.
Il forte sentimento di stima verso le forze armate emerge anche da un altro dato: la percezione dei cittadini sul tema della corruzione nelle istituzioni.
Nella stessa indagine, infatti, il 99,5% degli intervistati (dati aggregati), che ha manifestato il suo sostegno ai militari, ha anche espresso la sua preoccupazione per l’elevata corruzione delle istituzioni.
Questo atteggiamento contraddittorio emerge, con maggiore chiarezza, osservando i dati su scala nazionale dei Paesi già analizzati, offerti dallo stesso studio.
In Egitto il 48% degli intervistati, che ha dichiarato di avere la massima fiducia verso l’esercito, ritiene, allo stesso tempo, che ci sia un alto livello di corruzione nel Paese.
Si tratta di un atteggiamento comune anche negli altri Paesi analizzati, come la Tunisia, dove il 74% ha denunciato il problema della corruzione, o il Libano con il 59%.
Da questi dati emerge che i cittadini dell’area MENA, se da un lato sono consapevoli del problema della corruzione, a livello istituzionale, dall’altro tendono a escludere le forze armate dal problema e a considerare quest’ultimo un tarlo della politica.
Questa fiducia, quasi indiscussa, è uno dei pilastri su cui poggia il ruolo dell’esercito nelle istituzioni di molti Paesi arabi e che ha permesso alle forze armate egiziane di sopravvivere a quasi un secolo di storia. L’esercito appare come l’unica risposta possibile in un continuum di eventi in cui tutto cambia, senza cambiare nulla.