Sfide geopolitiche strutturali, che richiedono un approccio realistico e l’impegno militare degli europei
C’è un intreccio di conflitti nell’Area MENA, che si fatica a decifrare con chiarezza attraverso le categorie geopolitiche europee, intrise di secolarismo e storicismo.
La tradizionale tensione tra sciiti e sunniti si confonde oggi con una nuova versione del millenario conflitto intra-sunnita tra élite dominanti (filo-elleniche nel periodo abbaside, oggi filo-occidentali, modernizzatrici e autocratiche) e masse popolari (tendenzialmente conservatrici sotto il profilo religioso). La Fratellanza musulmana, che si colloca nel filone islamico-popolare, supportata dalla Turchia e in parte dal Qatar, lavora alla formazione di network economico-finanziari, sociali ed energetici in grado di influenzare le dinamiche politiche del mondo occidentale, considerato in irreversibile declino. Questo fronte, che potremmo definire anche dell’“alternativa islamica”, coltiva una visione “ecumenica” della Umma e ha molti punti di collegamento con gli sciiti, soprattutto sulla questione israelo-palestinese. Il fronte saudita, nel quale si collocano gli altri Paesi del Golfo, con il fondamentale sostegno del gigante egiziano, è, viceversa, orientato verso una stabilizzazione interna della Umma, in vista di un consolidamento economico e finanziario, da perseguirsi attraverso audaci politiche di modernizzazione e una progressiva emancipazione dalla centralità della produzione petrolifera. Sono alleanze a geometria variabile, che tuttavia fanno capo a due strategie geopolitiche rivali. È anche in questa chiave che possono essere letti i principali accordi di tipo politico-territoriali degli ultimi anni nell’area: la controversa cessione da parte del governo di Sisi delle isole di Tiran e Sanafir all’Arabia saudita (giugno 2017); l’accordo di demarcazione della Zona economica esclusiva tra Turchia e il Governo di accordo nazionale di Tripoli (novembre 2019), che pone una pesante ipoteca sulla pianificazione di nuovi gasdotti nell’area; gli Accordi di Abramo (agosto 2020), che, sotto gli auspici dell’amministrazione USA e la regia dell’Arabia Saudita, hanno sancito la normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Israele, da una parte, e Emirati Arabi e Bahrein, dall’altra, suscitando severe reazioni da parte della Turchia, delle organizzazioni palestinesi e della Fratellanza musulmana; l’Intesa triennale Israele-Egitto ed Unione europea (giugno 2022), per consentire la fornitura regolare di gas naturale agli Stati membri dell'Unione.
Tali dinamiche geopolitiche sovrastano quelle statuali-nazionali, essendo queste ultime fortemente indebolite a seguito dell’incompiutezza dei processi di transizione avviatisi a partire dalla Primavera araba (2010-2012). La Fratellanza musulmana, che si candidava a esercitare un ruolo di ruling class per l’ammodernamento economico e per la riforma politica di questi Paesi, ha fallito ovunque, dando prove di improvvisazione, di clientelismo e di suggestioni neo-fondamentalistiche, il che ha consentito alle élite dominanti di marginalizzarla o espellerla dal gioco politico, in maniera violenta, come in Egitto nel 2014, o in maniera legale (come in Algeria e in Marocco), o attraverso manovre politiche ai limiti del colpo di Stato (come in Tunisia), ma sempre con il sostegno della popolazione.
La pandemia s’è poi incaricata di portare alla luce la drammatica situazione dei servizi sociali e sanitari (la Tunisia è tra i Paesi che contano più morti per covid, al mondo, in proporzione alla popolazione), mentre le oscillazioni del prezzo del petrolio hanno stressato il clima sociale, specie in Paesi dove le riserve energetiche sono una fonte di sostegno del welfare state. Infine, la guerra russo-ucraina ha avuto l’effetto di un tornado sulle fragili strutture politiche dell’area, considerato che i cereali, quasi totalmente importati dall’Ucraina, sono la prima fonte proteica della popolazione dell’area.
Tra gli effetti positivi di questa crisi c’è la temporanea attenuazione del conflitto intra-sunnita, come dimostra il riavvicinamento tra Turchia ed Arabia Saudita, dettato dall’esigenza di fare fronte comune alle conseguenze pericolosamente destabilizzanti della crisi. Nel contempo va registrato un rafforzamento dell’“opinione pubblica” nell’area, che ha tra i suoi protagonisti soprattutto i giovani nati negli anni Novanta, che all’epoca della Primavera araba frequentavano le scuole dell’obbligo. In Algeria, in Marocco, Tunisia e, fuori dalla fascia nordafricana, in Libano, si formano movimenti di opinione e gruppi politici tendenzialmente estranei all’Islam popolare, disillusi rispetto all’Occidente, diffidenti nei confronti dell’estremismo, ma anche in conflitto con le autocrazie nazionali, accusate di clientelismo mascherato da comunitarismo, di inefficienza e corruzione. Il lato oscuro di questo processo è dato dall’ulteriore radicalizzazione dell’estremismo islamista, che si pone sempre di più, ormai, in una chiave “globale”, antioccidentale, facendo leva anche sulle sempre più numerose affiliazioni in terra d’Occidente.
Il precipitato di tutte queste tensioni lo troviamo ora in Libia, che sta bruciando davanti ai nostri occhi. Tutti i tentativi di soluzione, a cominciare dai ripetuti irrealistici progetti di tipo elettorale, scontano un problema originario: il caso libico è monco di esordi, per cui è difficile ricostruire il punto di origine, in senso spaziale e temporale, da cui prendere le mosse. Si tratta notoriamente di un Paese estremamente complesso. La mediazione tra le varie anime della società libica – la Nazione, la tribù, la regione, le confraternite e l’Islam: tutte asimmetriche, incongruenti e reciprocamente compromesse – si componeva, nel corso del periodo di Gheddafi, in un intarsio nazionale colorito, anche con tinte fosche. L’abbattimento del regime – fortemente voluto soprattutto dai francesi – non fu preceduto da un’elaborazione strategica della transizione. A differenza di Paesi come la Tunisia o l’Egitto, la Libia non disponeva di apparati politici e amministrativi di schietta natura statuale, che potessero in qualche modo assicurare il ricambio della classe dirigente. Gli unici interlocutori in qualche modo stabili, in Libia, sono i capi-tribù e la National Oil Corporation. Fu la consapevolezza di ciò a spingere nel 2017 il governo italiano a interloquire con le tribù e a stipulare con il governo di Tripoli un Memorandum – ingiustamente demonizzato dalle organizzazioni umanitarie – finalizzato a contrastare l’immigrazione illegale e a rafforzare la sicurezza delle frontiere italo-libiche.
Se per l’Europa il crollo libico è una catastrofe, per ragioni che qui riteniamo superfluo richiamare, nessuno dei grandi attori geopolitici del Mediterraneo allargato può permettersi un caos prolungato. Per questo, c’è il rischio che la situazione si stabilizzi direttamente per mano turca (ma non è da escludere un ruolo della Russia), mentre nel medio termine potremmo trovarci a dover trattare con la Cina per il controllo alla fonte dei flussi migratori diretti verso l’Europa. Per evitare ciò, in considerazione del carattere “strutturale” delle tensioni culturali e geopolitiche di cui sopra, la strada maestra resta quella di un’operazione militare di stabilizzazione. La NATO è comprensibilmente orientata sul quadrante nord-est, per un verso, e sull’Indo-Pacifico, per l’altro. Mentre l’Unione europea non dispone (ancora?) di un adeguato apparato militare né di una politica estera e di difesa comuni. Resterebbe sul tavolo l’ipotesi di una “Coalition of Willings fra Stake holders”, promossa dall’Italia, con la partecipazione di Francia e Germania, anche in considerazione dei recenti rapporti bilaterali stipulati fra i tre membri dell’UE. L’interlocutore principale sarebbe a questo punto la Turchia, membro della NATO come gli altri tre e Paese con cui l’Italia intrattiene da sempre eccellenti rapporti.