Con l'Africa: le opportunità di una partnership

Marco Impagliazzo
Professore ordinario di Storia contemporanea all'Università di Roma Tre, Presidente della Comunità di Sant’Egidio

L’Africa è un continente che cambia molto più rapidamente dell’Europa. Si innova nell’economia con la genesi di una folta classe media (oltre 300 milioni) a cui si aggiunge un tipo nuovo di diaspora africana nel mondo, non composta solo da migranti in cerca di lavoro, ma da professionisti affermati e influenti. I nigeriani d’America, ad esempio, sono presenti nell’amministrazione di Joe Biden con almeno una decina di sottosegretari e capi agenzia. Nel continente si affacciano nuovi investitori come l’Arabia Saudita, i coreani del sud, gli indiani e i turchi. Ormai è chiaro a tutti che il land grabbing o l’estrattivismo selvaggio delle materie prime non bastano più: l’Africa va trattata come un vero partner, alla pari. Il continente può diventare una piattaforma globale in tanti settori, ad iniziare da quelli energetico o agroalimentare. C’è un futuro per l’Africa nella globalizzazione e il mercato se ne sta già occupando. Si tratta di una domanda per le economie più avanzate: se non ci sarà abbastanza lavoro molti africani continueranno a spostarsi. La sfida del Piano Mattei è tutta qui: far scattare un circuito positivo di investimenti e joint ventures con partner africani, in modo da creare una domanda di manodopera sul continente stesso.

Il Piano Mattei inizia da tale confronto il suo cammino, come dimostrano le recenti trasferte della struttura di missione assieme alla direzione generale della cooperazione del MAECI e all’agenzia della cooperazione (AICS), svolte in Africa occidentale, orientale e australe. L’idea è chiedere ai partner africani le loro priorità e i loro bisogni per non limitare l’azione dell’Italia soltanto alla programmazione europea e nazionale. Lo scambio di esperienza potrà far nascere collaborazioni vantaggiose per entrambi abbandonando il vecchio atteggiamento paternalistico, anche se camuffato da parole d’ordine apparentemente innovative. La modalità dell’aiuto pubblico allo sviluppo occidentale, infatti, si dibatte da tempo tra due estremi: pensare che tutto dipenda dal commercio e dall’economia (trade and not aid); oppure credere che tutto si risolva lasciando decidere ai governi africani (per poi criticarli sommessamente per la costruzione). Per le missioni del piano Mattei sono state importanti le visite ai progetti della società civile con l’obiettivo di moltiplicare le più efficaci. L’attività umanitaria e di sviluppo può essere messa a sistema e ottenere un impatto maggiore mediante la collaborazione istituzionale e non istituzionale. Alcune organizzazioni sono state coinvolte ed invitate a partecipare alle missioni stesse precisamente per offrire il loro apporto nella programmazione.

La sfida è quella di creare una nuova visione di cooperazione elaborata sul terreno con i partner africani, che di reciproco vantaggio sia in termini economici che sociali. Come scrive Giampiero Massolo, sul suo recente saggio Realpolitik: “Il Piano Mattei sviluppa delle cointeressenze: qui c’è l’intuizione che a lungo è mancata nelle manovre europee, quella di trattare l’Africa come un’opportunità e non solo come un problema… inserirsi nei processi di sviluppo dei paesi africani di comune d’accordo con loro, su un piano paritario”. “Del Piano Mattei -prosegue Massolo- è corretta la premessa: i flussi migratori non si fermano (…) si possono solo mitigare e gestire” (G.Massolo, Realpolitik. Il disordine globale e le minacce per l’Italia, Solferino 2024).

Si tratta di un tema delicato su cui la Comunità di Sant’Egidio lavora da tempo con il programma dei corridoi umanitari che hanno dimostrato la loro efficacia anche in termini di sicurezza e integrazione. Ad essi si sono ora aggiunti i corridoi lavorativi. Com’è noto molti governi europei si sono cimentati con il problema migratorio in maniera esclusivamente securitaria senza ottenere risultati probanti. L’idea di trattenere i migranti africani con mezzi coercitivi o di chiedere ai loro governanti di trattenerli per nostro conto, finora ha funzionato molto parzialmente. Soltanto i paesi dalla crescita economica adeguata sono riusciti nell’intento, come ad esempio la Costa d’Avorio. Per molti altri Stati instabili, fragili e impoveriti si tratta al contrario di un’impresa impraticabile. Il Piano Mattei vuole passare da questa vecchia politica ad una collaborazione che sia davvero paritaria.

L’idea principale è di mettere in campo una rete di progetti che inneschino l’industrializzazione del continente, abbandonando le politiche “predatorie” di sfruttamento delle sole materie prime e coinvolgendo le nostre piccole e medie imprese. L’Africa deve riuscire a produrre ed avere una sua catena manifatturiera, almeno in alcuni settori come l’agribusiness in cui possiede il vantaggio competitivo di milioni di ettari di terre arabili libere. Solo così potrà partecipare pienamente all’economia globale: oggi pesa ancora solo per circa il 2/3% del commercio mondiale mentre la sua popolazione è in crescita esponenziale, tanto che si prevedono quattro miliardi di africani alla fine di questo secolo. Con il piano Mattei si auspica anche operare per un attivo coinvolgimento che corresponsabilizzi le leadership africane e abbatta l’immoralità della corruzione che mina alla base ogni ipotesi di sviluppo.

La cooperazione internazionale può aiutare, ma per dare lavoro ogni anno a milioni di giovani occorre qualcosa di più e di endogeno che inneschi la crescita. È necessario superare l’ambiguità attuale nella quale i governi occidentali fanno un po’ di umanitario respingendo allo stesso tempo i migranti, mentre i dirigenti africani chiudono gli occhi sui terribili esodi compiuti dai loro giovani, pur di sbarazzarsi di un po’ di tensione sociale. Tale atteggiamento è sentito dai giovani africani come un doppio tradimento: quello da parte dei propri governanti e quello degli europei che non accolgono. Tale duplice abbandono è diventato un sentimento diffuso tra le giovani generazioni africane che di conseguenza decidono di fare da sé, elaborando una originale narrazione sul proprio destino. Un’intera generazione africana è in movimento, unita dalla consapevolezza di doversela cavare da sola, a causa del distacco a cui è stata sottoposta: non si aspetta più nulla dagli adulti né dai propri leader né non si fa illusione su come sarà accolta in Europa.

Quando nel 1999 morirono a Bruxelles, nel vano del carrello di un aereo, mentre cercavano di raggiungere l’Europa, gli adolescenti guineani Yaguine e Fodé portavano con sé una lettera molto rispettosa, indirizzata “ai responsabili d’Europa” in cui descrivevano le loro sofferenze e chiedevano aiuto. Il premier belga dell’epoca lesse la lettera al Consiglio europeo. Il ragazzo maliano affogato nell’aprile del 2015 aveva cucita nella giacca la pagella scolastica per mostrare i suoi buoni voti. Ora l’atteggiamento è cambiato: più aggressivi, i giovani africani pensano di avere il diritto di muoversi alla ricerca di condizioni di vita migliori. Morire a casa propria per malattie curabili altrove non è più accettabile; restare a casa senza possibilità di contare e senza educazione, non è più un’opzione. Allora si sfida la sorte per cercare altrove un futuro. In molti paesi del Sud del mondo quello che manca è il futuro stesso.

Il dramma dei giovani africani ha enormi dimensioni: quasi i due terzi della popolazione africana è sotto i 25 anni. Un popolo numeroso spinge cercando di catturare qualcosa della ricchezza della globalizzazione e nel farlo elabora una sua cultura, una sua identità peculiare. Tra le giovani generazioni africane è avvenuta una trasformazione antropologica: ci si mescola senza badare più tanto all’etnia; non si ascoltano più le generazioni precedenti; non si crede più nei sogni dei padri come il panafricanismo. Non si dà retta agli avvertimenti e alle minacce dei governi occidentali. Si tratta di giovani intraprendenti che non temono di spostarsi e di “forzare” per trovare una via di uscita al loro isolamento, consci di cosa li attende. Il Piano Mattei si pone come sfida proprio quella di trovare risposte nuove a tale pressione e ai cambiamenti in atto. Si basa su una visione dell’Africa protagonista del proprio sviluppo e capace di offrire lavoro e occupazione ai propri giovani.

Il dramma giovanile in Africa rappresenta uno dei temi anche del nostro futuro. L’idea del Piano Mattei si confronta con tale gigantesca sfida. La risposta risiede nel metodo: anche se le risorse sono limitate l’importante sarà mantenere un approccio rispettoso dell’Africa e delle sue complessità, ascoltare ciò che si agita tra i giovani e provare a costruire risposte assieme a loro, coinvolgendo anche i governi del continente.

Le recenti crisi politiche –come quelle legate ai colpi di stati militari- esprimono qualcosa di nuovo: non solo l’accaparramento del potere (tentazione sempre in agguato) ma anche la ricerca (confusa) di una nuova autonomia. Sul continente infuria il dibattito sul modello di sviluppo e sul sistema democratico: le democrazie occidentali hanno deluso ma non per questo gli africani si affidano a occhi chiusi alla Cina o alla Russia. Sono sorte scuole di politica cinese in alcuni paesi, tuttavia la dinamicità della società civile non viene meno, con le sue richieste di diritti e libertà. Gli africani sanno quali sono i loro diritti e non temono di esprimersi.

Dal punto di vista strategico il continente fa gola a molti: si negoziano nuovi accordi militari e la costruzione di basi navali ora anche sulla costa occidentale dell’Africa. La fuoriuscita dall’Ecowas (alleanza africana occidentale) di Mali, Niger e Burkina, che hanno creato l’Alleanza degli stati del Sahel (AES), diventa un esempio che potrà essere seguito da altri. In molti casi gli africani vogliono risolvere le crisi interne da sé, a costo di sbagliare. È una delle ragioni dell’allontanamento dei francesi dalla regione occidentale del continente ma anche del fatto che ci si rivolge ad una pluralità di nuovi partner. Nulla si può dare per scontato. C’è da tener conto dell’influenza di nuovi attori molto dinamici come la Turchia che ha più di quaranta ambasciate in Africa. La Turkish Airlines è divenuto il primo vettore aereo continentale. La stessa Russia, la cui penetrazione preoccupa l’Occidente, è presente con le sue armi e i suoi contractor, ma ha una presenza fortemente limitata economicamente. Dunque, l’Europa deve iniziare a guardare al continente non più in ordine sparso e con vecchi schemi, in genere incentrati sulla minaccia, perché l’Africa riserverà sorprese anche positive partecipando fattivamente all’equilibrio globale. È un’occasione da cogliere.