Piste per la messa in pratica

Stefano Manservisi
Professore a Sciences-Po/PSIA e all'Istituto Universitario Europeo/STG, Presidente del GCERF (Fondo Globale per la prevenzione dell'estremismo), già Direttore Generale alla Commissione Europea

Con il Piano Mattei, il governo italiano rilancia la presenza italiana in Africa e si inserisce così nel mainstream che considera, a giusto titolo, l'Africa come prioritario soggetto politico ed economico con cui costruire partnerships. È un'ottima iniziativa perché l'Italia ha molte carte da giocare in Africa ed è un partner visto con grande interesse nel continente. Inoltre si tratta di un ambizioso tentativo di mettere a sistema attività ed attori, pubblici e privati, che finora hanno agito in modo spesso frammentato, affidando il coordinamento alla Presidenza del Consiglio. L'investimento politico e personale della Presidente del Consiglio è notevole, come testimoniato dalla Conferenza Italia-Africa del gennaio scorso, e si tratta di un fatto estremamente positivo.

Dirò subito che nel valutare questa iniziativa, non trovo di particolare importanza soffermarmi sulle motivazioni che l'hanno prodotta. Per alcuni sono criticabili perché mosse più da interessi nazionali (fermare la migrazione, assicurarsi risorse minerarie ed energetiche) che dalla volontà di aiutare lo sviluppo di paesi e popolazioni. Per altri, sono positive perché denotano comunque la volontà di mobilitare risorse e capacità nazionali in modo organico e strategico per la crescita dei paesi africani attraverso un approccio da pari a pari.

In realtà non esiste partenariato senza interessi da ambo le parti. I primi a ricordarcelo sono gli stessi paesi africani, intenzionati - e non certo da ora - a discutere più ancora che in passato, in termini di investimenti, di creazione di posti di lavoro, di accesso al mercato. Partnership e non donorship, recita lo slogan - non certo nuovo, in verità - oggi dominante. Anche se naturalmente la questione è molto più complessa, mi sembra più utile esaminare da vicino gli strumenti che sostengono il Piano e le azioni concrete fatte e da fare.

Facendo seguito a due Decreti volti a costituire il sistema amministrativo di direzione del Piano, il Documento programmatico e strategico, pubblicato dal governo il 17 Luglio, finalmente delinea in modo compiuto obiettivi, mezzi, criteri di intervento e sinergie con altri programmi internazionali (compresi quelli dell'Unione Europea). È quindi il punto di riferimento per cominciare a valutare in concreto come il governo italiano intende muoversi. In proposito, identifico cinque blocchi da esaminare.

 In primo luogo, metodologia, criteri e settori. Il testo è comprensivo, c'è tutto quello che ci si aspetta da un documento di più di cento pagine. Abbonda il politically correct sull'importanza dell'Africa, delle sue risorse, del ruolo di ponte dell'Italia, su un rapporto tra eguali e non predatorio. Nulla di particolarmente originale, un lungo catalogo di buone intenzioni tutte da verificare in pratica. Sul metodo, tuttavia, si ricorderà la critica espressa al Vertice di gennaio da parte del Presidente della Commissione dell'Unione Africana, Moussa Faki, secondo il quale bene avere un Piano, ma ancora meglio se fosse stato prima discusso con gli africani stessi. A volte l'entusiasmo gioca dei brutti scherzi, ma si può facilmente recuperare. Sarebbe stato opportuno riprendere la questione e risolverla nel documento, tanto più che agli africani non mancano idee e proposte concrete, riassunte nell'Agenda 2063 dell'Unione Africana. Dalle reti transafricane di strade e ferrovie, alle reti digitali; dall'energia, all'industrializzazione, alla creazione della Zona Continentale di Libero Scambio. Giusto per citare qualche esempio.

Invece il documento mentre si limita a far riferimento a un generico dialogo tra le parti, abbonda in analisi settoriali che dovrebbero motivare la scelta, unilaterale italiana, dei futuri interventi. Le schede settoriali sono tutte di qualità, benché riportino dati generalmente già conosciuti. Ma colpisce il fatto che in nessuna ci sia un riferimento o un rinvio a delle fonti africane, che siano continentali, regionali o nazionali dei vari paesi. Mentre si descrive con notevoli dettagli l'offerta italiana, nessun programma o progetto africano è citato, almeno come esempio o riferimento della domanda concreta che viene dalle realtà africane. Si vedrà nel seguito, naturalmente. Ma finora si rimane nel vecchio approccio di parlare sull'Africa e non con l'Africa.

Quanto ai settori prioritari, le sei direttrici di intervento sono certamente importanti e naturalmente il settore energetico occupa un ruolo preponderante, come già osservato da molti. Manca la migrazione, ed è un fatto negativo perché sarebbe stata un'ottima occasione per uscire dall'approccio attuale, oscillante tra gestione forte delle frontiere (eventualmente con l'aiuto dei partner africani) e l'"aiutiamoli a casa loro". Sarebbe stato il momento giusto per affrontare in modo trasparente la questione della migrazione regolare, gestita per rispondere ai bisogni del mercato del lavoro. Formazione organizzata con l'industria italiana e legata al decreto flussi, alla credibilità dei permessi stagionali, alle realtà dei profili ricercati, alle realtà dell'integrazione. È visibilmente una scelta politica, che però non serve gli interessi concreti dell'Italia e dei paesi di origine e che paradossalmente non valorizza, perché non mette a sistema, quanto l'Italia in parte sta già facendo.

Lascia infine un po’ perplessi l'assenza di riferimenti ad iniziative per contribuire a migliorare la governance dei paesi partner. È noto infatti che debolezza istituzionale unita a corruzione e scarse capacità, indeboliscono l'efficacia di investimenti e progetti vari.

Promettente invece il riferimento al settore culturale. Seppur sempre nei limiti dell'approccio indicato sopra, il fatto di dare visibilità prioritaria ad interventi in quest'area rappresenta un contributo importante perché coglie appieno la valenza umana ed economica (industrie creative e culturali) del settore. È indubbio che l'Italia ha molto da offrire e può giocare un ruolo importante per inserire strategicamente la cultura nelle attività di partenariato internazionale.

 In secondo luogo, le risorse e gli strumenti. La dotazione iniziale di 5,5md, a fronte delle ambizioni dichiarate, non è molto però rappresenta un impegno significativo. Non è chiaro tuttavia se si tratta di un one-off, almeno per il momento, e in che modo le leggi di bilancio porteranno avanti in modo prevedibile e sostenibile il finanziamento del Piano Mattei negli anni a venire. Inoltre, i riferimenti ad altre fonti nazionali non specificano se si tratti di importi addizionali o facenti parte di questa cifra iniziale. Comunque, il punto principale non è tanto questo, quanto il rischio di frammentazione interna dell'azione, a seconda delle fonti di finanziamento, col rischio seguente di trasformare il Piano Mattei in un ombrello o un'etichetta, sotto il quale alla fine rientra di tutto.

Per quel che riguarda gli strumenti, è un peccato che l'Italia non colga l'occasione per completare il suo toolbox creando un'agenzia per mobilitare rapidamente expertise tecnica dal privato e dalle varie amministrazioni dello stato, incluse le autorità locali. I modelli di successo offerti da soggetti come Expertise France o la Fundación Internacional y para Iberoamerica de Administración y Politicas Publicas (FIIAPP) spagnola sarebbero da considerare attentamente. Permettono reclutamento e inquadramento di assistenza tecnica, mantenendo un roster di profili e di capacità pronte ad essere utilizzate, semplificando procedure e carichi burocratici per le amministrazioni di origine. Inoltre, contribuiscono a canalizzare in modo coerente queste capacità inserendole a pieno titolo nel sistema francese o spagnolo.

In terzo luogo, il sistema di governance del Piano. Entrando con questo documento nella fase operativa e avendo già ricevuto degli input dalle prime riunioni con i vari stakeholders, ci si sarebbe potuto attendere una messa a punto del dispositivo, al fine di costituire un sistema efficace, snello e trasparente. Invece si conferma una criticità fondamentale: un regime assembleare con una pluralità di attori, in stile vecchio comitato interministeriale, allargato in modo poco chiaro a realtà non governative o para-governative. Di conseguenza, settore privato e società civile restano ai margini e il loro ruolo nel processo decisionale resta oscuro. Se poi alle tante parole sul carattere innovante del Piano rispetto ai vecchi schemi di cooperazione, si fosse voluto dare un seguito concreto, si sarebbe potuto immaginare di invitare rappresentanti dell'Unione Africana e/o delle organizzazioni regionali a entrare nel sistema di governance. Questo avrebbe inviato un messaggio importante e avrebbe davvero posto l'Italia all'avanguardia. Scontato che questo non avverrà, sarebbe necessario almeno semplificare la presa di decisione che veda attorno ad un tavolo solo quattro soggetti, ognuno terminale rappresentativo di una costituency precisa: ministeriale (Maeci), finanza (Cassa Depositi e Prestiti, Sace), settore privato, società civile. Palazzo Chigi presiede e arbitra. In quarto luogo, i progetti pilota presentati al momento del lancio. Se si esclude Elmed con la Tunisia (che però già esisteva prima del Piano) e in parte il progetto biocarburanti col Kenya, tutti gli altri sono progetti di cooperazione tradizionale, certamente utili, ma che non hanno nulla di innovante (almeno relativamente alla narrativa del Piano). Sono classici progetti pubblici, anche implementati da ong, che poco hanno a che vedere con la promozione di investimenti privati, magari sostenuti da schemi di de-risking garantiti da fondi pubblici CDP, per esempio. Siamo all'inizio e certamente, come spesso accade, si è voluto dare degli esempi per mostrare che la macchina si muove. È auspicabile che nel prosieguo si cambi passo, in particolare in stretta collaborazione col settore privato.

Infine, in quinto luogo, i partenariati internazionali. Che l'Italia voglia fare da sola e pensi di farcela, è lecito e si giudicherà dai risultati. Tuttavia, con le risorse che sembrano messe a disposizione, con la complessità del quadro globale e con le domande che vengono dai nostri partner africani, una maggiore e concreta sinergia con la Commissione Europea e con gli Stati Membri più attivi sarebbe stata auspicabile. Anzi, sarebbe indispensabile e nell'interesse dell'Italia.

In primo luogo per utilizzare a fondo gli strumenti del Global Gateway, concepito come un molteplicatore di risorse nazionali. Attraverso blending e, soprattutto, garanzia a copertura di rischi che le imprese private da sole non possono sopportare.

La Cassa Depositi e Prestiti, come banca italiana di sviluppo, è l'interlocutore principale della Commissione (e della BEI) e qui non si tratta di cercare generiche sinergie, ma di utilizzare questo strumento unico per promuovere progetti concreti di investimento privato. In secondo luogo per sfruttare pienamente l'approccio Team Europe, che altro non è che raccogliere un gruppo di stati membri e la Commissione attorno ad un progetto preciso al fine di completare le risorse necessarie. Anche questo è un moltiplicatore.

L'Italia, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, ha già fatto l'esperienza del Finance in Common (uno schema che mira a creare aggregazioni di banche di sviluppo attorno a progetti concreti) e potrebbe metterla a profitto per implementare il Piano Mattei con partner di peso come il gruppo dell'Agence Française de Développement o la KfW tedesca o la FMO olandese. E questo vale pure per le interazioni con soggetti tipo la Banca Africana di Sviluppo, al capitale della quale contribuiscono numerosi stati membri che quindi partecipano al processo decisionale. Lavorando insieme si costituisce massa critica e si aumenta il potere negoziale. Da soli, spesso si finisce col metter fondi in un Trust Fund, lasciando poi di fatto ad altri la leadership. Gli esempi con la sorella maggiore, la Banca Mondiale, si sprecano.

Infine, per quanto possa sembrare un aspetto secondario, per assicurare un minimo di coerenza nell'azione, limitando la frammentazione e aumentando l'impatto positivo dell'azione europea. Non dimentichiamo che abbiamo di fronte "concorrenti" come la Cina. In conclusione, siamo all'inizio dell'avventura del Piano Mattei ed è da considerare work in progress. È un'avventura che deve davvero mobilitare tutte le risorse nazionali e ricevere un sostegno bipartisan da tutte le forze politiche. Certo deve essere un Piano aperto, con una governance trasparente ed efficace. Molto dipenderà dalla sua credibilità sul terreno, più che dalle formule e dalle dichiarazioni. Cruciale sarà saper ascoltare i partner africani e altrettanto cruciale ancorare fermamente il Piano al quadro europeo. Le sfide sono enormi e il ruolo dell'Italia sarà di grande importanza.