Un piano senz'anima

Filippo di Robilant
Membro del Comitato Scientifico del CeSPI

Il Piano Mattei è stato annunciato dal Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, come “un cambio radicale di paradigma nei rapporti tra l’Italia e il grande continente africano”. Vero è che le politiche del passato si sono dimostrate di corto respiro o addirittura fallimentari. Il rapporto che l’Italia (e l’Europa intera) deve avere con i paesi del continente africano va profondamente rivisto. Per questo bisogna guardare al Piano Mattei senza pregiudizi.

Il Piano, tuttavia, non convince. Dal punto di vista della visione, oltre che della strategia. Non ho spazio qui per passare in rassegna i 17 settori di collaborazione previsti dal Piano. Mi limiterò a citarne alcuni, iniziando dalla cooperazione allo sviluppo.  La legge 125/2014 ha conferito al Ministero degli esteri e della cooperazione  internazionale (MAECI) – lo dice il nome stesso – la regia del sistema di cooperazione, affiancandolo, nell’espletamento della sua funzione, dal Parlamento quanto a poteri d’indirizzo e di controllo, dal MEF in quanto principale erogatore di Aiuti Pubblici allo Sviluppo, dalla Cassa Depositi e Prestiti come Banca di Sviluppo, dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) come braccio tecnico-operativo, più una pletora di associazioni della società civile, enti locali e organizzazioni for-profit. La nuova Struttura di Missione, istituita dal Piano, va quindi ad aggiungersi all’interno di un quadro di attori già particolarmente articolato. Cui prodest? Certamente non al MAECI che vede il suo ruolo ridimensionato, visti i poteri conferiti dalla legge e nonostante il contentino di concedere al Ministro di turno la poltrona di vice-presidente della Cabina di Regia. A parte tutto, serve un’ulteriore cabina di regia, oltre ai già esistenti Consiglio Interministeriale per la Cooperazione allo Sviluppo (CICS) e al Consiglio Nazionale per la Cooperazione allo Sviluppo (CNCS), una girandola di sigle da far venire il mal di mare? Come si colloca gerarchicamente la Cabina di Regia, e soprattutto la sua Struttura di Missione, rispetto ai sopracitati organismi? Sopra, sotto, a fianco? Alla prova dei fatti sopra, alterando il quadro giuridico esistente e conferendo pieni poteri a Palazzo Chigi.

Stesso discorso vale per la promozione delle esportazioni e degli investimenti, materia di responsabilità del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, sostenuto da un nutrito gruppo di attori, dall’ICE alla Sace, dalla Simest alla Cassa Depositi e Prestiti.

Gli altri ambiti d’intervento spaziano poi dall’istruzione e cultura, per i quali non vengono forniti dettagli ma suonano sempre bene, all’approvvigionamento e sfruttamento “sostenibile” – ci mancherebbe pure! - delle risorse naturali, alla prevenzione e contrasto dell’immigrazione irregolare e gestione dei flussi migratori legali.

Su quest’ultimo ambito d’intervento vorrei soffermarmi. Preme, alle porte di un’Europa dove siamo sempre meno e sempre più vecchi, un continente giovane e in piena crescita demografica. Un continente con molte risorse, a partire da quelle naturali, ma con scarse possibilità di sviluppo e attraversato da continue crisi politiche, economiche e sociali che inducono intere popolazioni a mettersi in cammino verso destini migliori. Chi andrà a spiegare a quei milioni di giovani africani senz’alcun futuro nel loro paese che se non hanno le carte in regola è meglio per loro di starsene a casa oppure, resistendo alla forza d’attrazione che l’Europa pur sempre mantiene, d’incanalarsi nei già consistenti flussi Sud-Sud? Sarà questo il contrasto all’immigrazione irregolare? Ne abbiamo avuto un assaggio con il decantato accordo UE-Tunisia, fortemente voluto dalla nostra Premier, che ha dimostrato finora che fare alleanze con l’uomo forte di questo o quel paese non ferma le ondate migratorie dall’Africa; semmai, a forza di respingimenti (questi sì illegali), i migranti finiscono nelle mani dei trafficanti alimentando l’immigrazione irregolare e calpestando nel contempo qualche decina di convenzioni internazionali di cui l’Italia è Stato parte. E, di fronte a intere popolazioni in movimento, si pensa davvero che lo spauracchio di delocalizzare in Albania sia un deterrente credibile? Rimango sulla mia posizione: la gestione del fenomeno migratorio non può essere appaltata a paesi fragili o autoritari ma diventare uno dei capisaldi di un’Europa integrata e non rassegnata alla decrescita e all’invecchiamento.

A qualche mese di distanza dall’approvazione in Parlamento, e nonostante l’iper-attivismo del Governo nelle sue diverse articolazioni, tali riserve permangono. Non basta dire che quello che da sempre svolgono, nel bene e nel male, i protagonisti del nostro sistema di cooperazione e di investimenti all’estero da ora in poi si chiama Piano Mattei. Troppo facile. I fondi disponibili annunciati con il Piano ammontano a soli 5 miliardi e mezzo di euro che, in parte, vanno presi dai fondi della Cooperazione allo Sviluppo – già di per sé non proprio una cornucopia in proporzione al bilancio dello Stato – e in parte dal Fondo per il Clima gestito dalla Cassa Depositi e Prestiti. In altre parole, non ci sono risorse nuove ma già esistenti o accantonate. Quindi la prima critica permane: dov’è la “sostanza” del Piano?

Il Ministro Lollobrigida sostiene che “bisogna guardare al Piano Mattei come a uno strumento che mette i privati in grado di investire in questo continente…il governo accompagna gli investimenti” (Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2024). Insisto: c’è stato un momento storico in cui questo accompagnamento da parte del Governo di turno è venuto meno? La verità è che nonostante le numerose missioni dei ministri del Governo in terra africana con mirabolanti annunci ascrivibili al Piano – dall’accordo del 30 giugno scorso da un miliardo con l’Egitto per lo sviluppo d’infrastrutture e mobilità sostenibile (con buona pace di Giulio Regeni e del processo in corso a Roma) all’accordo annunciato a luglio dal Ministro Lollobrigida tra Bonifiche Ferraresi Spa e il Fondo Nazionale d’investimento algerino per rendere produttive aree incolte dove a mettere i soldi (412 milioni) non siamo noi ma gli algerini  – si continua a non capire quale sia la strategia complessiva e cosa leghi i pacchetti di aiuti tra di loro e soprattutto se siano pacchetti precostituiti, prescindendo dalle reali esigenze dei beneficiari.

Inoltre è anacronistico pensare che un singolo Stato europeo – neppure un paese come l’Italia, geograficamente così vicino all’Africa e che da sempre costituisce un ponte tra le due sponde del Mediterraneo – possa agire da solo in un continente così vasto misurandosi con una agguerrita competizione internazionale. Senza una “europeizzazione” del Piano l’Italia si limiterà a fare quello che ha sempre fatto bilateralmente con i paesi africani cosiddetti “prioritari”. Invece, se inserito in una più ampia cornice europea, a cominciare dal Global Gateway, e con finanziamenti aggiuntivi, il Piano può ambire a diventare un game changer nelle relazioni con l’Africa. Questo richiederà un forte coordinamento non soltanto con le istituzioni di Bruxelles, in primis la Commissione, che garantisce e gestisce gli investimenti, ma anche con le altre capitali, a partire da Parigi (sic!). Pongo una domanda banale: per la formazione e l’incrocio tra domanda e offerta, sarebbe più efficace un’Agenzia del lavoro italo-africana oppure un’Agenzia del lavoro euro-africana? La risposta mi pare ovvia. Peccato che, allo stato, non esista né l’una né l’altra…

E, per rimanere in tema di multilateralismo, così bistrattato oggigiorno, va ricordato che il debito complessivo africano è insostenibile, come recentemente denunciato dal Segretario Generale dell’ONU, Guterres. In attesa che si trovino soluzioni a medio-lungo termine, nuovi sistemi multilaterali per garantire liquidità a paesi a basso reddito è prioritario. In questo campo, il “Common Framework for Debt Treatments” del G20 si è dimostrato uno strumento pratico e andrebbe rafforzato. Un buon esempio è lo Zambia che l’anno scorso, grazie a questo strumento, ha raggiunto un accordo con l’obiettivo di ripristinare la sostenibilità del debito nel rispetto delle linee guida del FMI.

Il problema di fondo è che il Piano Mattei non prende ispirazione da una collaborazione che si basi sullo stato di diritto, la democrazia e i diritti umani. Questo sì sarebbe stato un cambio radicale di paradigma. L’UE, con tutti i suoi limiti, rimane l’unico attore straniero a proporre una prospettiva di good governance che in Africa significa stato di diritto anzitutto ma anche autonomia regionale, equo accesso alle risorse naturali, istruzione, coesione nazionale, integrazione delle minoranze. Intende l’Italia a guida Meloni discostarsi da tale approccio? Intende davvero dispiegare un piano in 17 settori di collaborazione senza sollevare la questione della good governance, come già fanno impunemente paesi come Cina, Russia, Turchia, Emirati Arabi?

Rimango convinto che i paesi africani abbiano più da guadagnare da modelli politici ed economici basati su pluralismo e libertà anziché da schemi autoritari che favoriscono solo élites corrotte. Di tutto questo il Piano Mattei non parla. È un Piano asettico e senza anima. Come possa riconquistare la fiducia degli africani non si capisce. Per questo occorre essere più cauti e meno arroganti quando si parla di “modello” per l’Europa. Per Enrico Mattei più che un omaggio è una ferita alla memoria.