Un Piano miope

Luca Adriani
Dottore di ricerca in storia e scienze filosofico-sociali all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, docente di Istituzioni di Storia Contemporanea all’Uninettuno

Pare evidente a tutti l’ambizione del governo Meloni contenuta all’interno del Piano Mattei, che oltre a porsi come l’ennesimo tentativo risolutore della “questione” africana ha scelto altresì di prendere in prestito un glossario così intriso di storia economica e politica.

Non è sicuramente questa la sede per tratteggiare i contorni della storia dell’emblematica e ben nota figura di Mattei e del concetto politico ed economico sotteso all’idea di Piano quale programmazione dello sviluppo.

Ma accostare il termine Piano al nome di Enrico Mattei pone alle ambizioni di questo progetto internazionale di cooperazione un inevitabile termine di paragone storico con un’idea di impresa e di pianificazione di cui il suddetto Piano sembrerebbe soltanto ricalcare i contorni per mezzo di un glossario che tenta di far leva su una presunta abilità italiana, che combina creatività ed efficienza tecnica, come perno per ripensare il rapporto tra Italia e Paesi africani.

Sull’utilizzo del nome di Mattei c’è, in verità, ben poco da dire. Il tentativo del governo Meloni è quello di richiamare alla memoria pubblica, attraverso una specifica retorica, una fase decisiva della nostra storia, in cui un ruolo determinante per la modernizzazione e l’espansione dell’economia italiana fu svolto proprio da Mattei e dall’Eni, anche grazie a uno sfruttamento di risorse nel continente africano lontano da una logica neocolonialista. L’ente fondato nel 1953 da Enrico Mattei fu infatti quello che nel settore della ricerca mineraria e della petrolchimica, oltre a ridimensionare le posizioni di monopolio energetico della Montecatini e quello delle grandi multinazionali nei rifornimenti di petrolio, ebbe un ruolo decisivo per lo sviluppo di un’industria nazionale capace sia in Italia che all’estero di incidere con propri impianti e investimenti. Proprio grazie ai profitti derivati dal metano e al carisma stesso di Mattei l’Eni riuscì ad aggirare le grandi compagnie petrolifere per raggiungere accordi diretti con gli Stati produttori di petrolio, soprattutto in Africa, e offrire così quella “potenza benzina italiana”, il Supercortemaggiore, che era appunto il petrolio straniero raffinato dall’Eni in Italia.

Ma come si inserisce questo Piano, che prende in prestito un pezzo dell’eredità storica del nostro Paese, nel quadro delle nuove sfide globali interconnesse del mondo contemporaneo dove lo stesso continente africano è sempre più condizionato non solo dagli esiti di quel processo di decolonizzazione, non pienamente compiuto e risolto, ma dagli effetti delle molteplici crisi internazionali? Quale dovrebbe essere, più nello specifico, il ruolo odierno delle imprese che operano in tale contesto e come si vorrebbe il rapporto di partenariato tra Italia, Africa ed Europa in questa fase così turbolenta tanto dal punto di vista politico che economico?

Il Piano Mattei non sembra sciogliere tali quesiti. Gli accenni contenuti nel testo, per ciò che riguarda le strategie da seguire per le imprese, fanno riferimento esclusivamente a uno generico partenariato caratterizzato da un ovvio e scontato indirizzo green. Tale Piano sembra porsi in questa nuova fase, che vede il continente africano al centro di una nuova corsa energetica tra le superpotenze, con una certa ambiguità in ambito di politica estera, senza cioè tenere conto sia del ridimensionamento del ruolo del nostro Paese in ambito internazionale sia del ruolo dell’Italia all’interno degli organismi europei in cui è stabilmente inserita da decenni. Come difatti è stato evidenziato in questo forum il Piano tenta di muoversi su un doppio binario, cercando cioè di mantenere nella politica estera un equilibrio, aggiungerei precario, tra multilateralismo e bilateralismo, senza sciogliere il nodo dei rapporti tra gli eventuali accordi bilaterali tra Italia e Paesi africani e il ruolo dell’Unione Europea.

Le attuali economie e le relazioni internazionali si muovono lungo direttrici completamente mutate rispetto quel mondo bipolare nel quale l’Eni di Mattei, anche per conto dei governi di allora, si trovò ad agire anche in rapporto alle specificità di singoli Paesi africani sulla via della decolonizzazione.

È per questo motivo che la scelta, dunque, di prendere in prestito il nome di Mattei, e l’idea della tradizione della grande impresa italiana che c’è dietro, sembrerebbe per lo più dettata da esigenze di natura ideologica e di politica interna che da un reale intendimento di intervenire seriamente su quel meccanismo che condanna l’Africa a una condizione di lento sviluppo e disorganica modernizzazione. Il Piano Mattei, più che realmente avere la pretesa di modificare gli assetti strategici ed economici tra Italia, Europa e Africa, cela nell’alveo della retorica politica un mero incremento di spesa per le imprese italiane operanti in alcuni Paesi africani, tentando con questo progetto così ambizioso, nel nome, di far apparire il nostro Paese egemonicamente rilevante sia dal punto di vista delle relazioni internazionali che sul piano dell’internazionalizzazione dei mercati. Il tutto proiettando quell’immaginario collettivo di “creatività” dell’impresa italiana, che si è creato storicamente anche dietro il nome di Mattei, verso l’estero con nuovi e velleitari piani di ammodernamento e investimenti “sostenibili” per l’Africa.

Si è, inoltre, sottolineato, nell’apertura del forum, come il Piano Mattei ambisca ad andare oltre una mera politica di cooperazione allo sviluppo, tramite appunto un piano, della durata di quattro anni, che attraversa 17 settori di intervento: dalla cooperazione alla promozione delle esportazioni e degli investimenti; dall’istruzione alla ricerca e innovazione; dalla salute all’agricoltura e sicurezza alimentare. Ciò attraverso l’utilizzo di finanziamenti agevolati del “Fondo 394”, 200 milioni a esaurimento, di una autorizzazione alla Cassa Depositi e Prestiti Spa, nel limite di 500 milioni nel 2024, e attraverso il Growth and Resilience Platform for Africa.

Sui limiti di queste risorse, che si presentano sotto forma di prestiti con tassi di interesse, e sulla riduzione negli ultimi anni, come dimostrato da recenti analisi, degli investimenti privati esteri in Africa a causa delle crisi internazionali si è già accennato in questo forum.

E a parere di chi scrive il principale problema del suddetto Piano sarebbe, inoltre, da ricercare anche su un altro profilo connesso ai precedenti. Tralasciando nel testo quel frasario vuoto e carico di ripetizioni su termini quali sostenibilità e innovazione tecnologica, il punto critico lo si trova nello specifico nei paragrafi in cui sono riportate le modalità di accesso a tali fondi, per quelle imprese intenzionate a operare, o a incrementare la propria presenza, nel continente africano. Un accesso, come viene scritto, per quelle imprese che: sono stabilmente presenti sul mercato; quelle che hanno realizzato esportazioni o importazioni dai mercati africani; e infine le imprese che sono parte di una filiera produttiva stabilmente presenti sul mercato africano (Si veda anche art. 10 in D. l. 29/06/2024, n. 89.)

Un passaggio che pone in tutta evidenza la vacuità sottesa all’idea di pianificazione dello sviluppo del Piano Mattei, totalmente distante, nella sua visione d’insieme, da una reale capacità di incidere dall’alto nei meccanismi di accumulazione, investimenti e consumi a prescindere dalle eventuali capacità realizzative che saranno in grado di ottenere le grandi o le piccole imprese, pubbliche o private che siano, operanti in loco.

Affidandosi infatti interamente agli automatismi delle imprese che già da anni, se non da decenni, operano nel continente africano non si comprende appieno come il Piano possa fuoriuscire da una dimensione puramente assistenziale e di erogazione di ulteriore spesa pubblica per inserirsi all’interno di una nuova linea di intervento che lo vedrebbe quale strumento primario capace di incidere realmente su di una diversa dinamica produttiva in grado di aumentare l’occupazione, ridurre la povertà e lo sfruttamento e impedire il massiccio fenomeno della migrazione. Nello specifico la domanda che sorge spontanea è in che modo il Piano Mattei, affidandosi come scritto nel testo a generiche “filiere produttive” di ambiti diversi o a imprecisati “modelli imprenditoriali locali”, sarebbe in grado di capovolgere un sistema economico che fino a questo momento non sembra aver risolto, se non in modo disorganico, l’arretratezza che caratterizza ancora molti dei Paesi africani coinvolti nel progetto.

Senza sciogliere questo nodo il rischio per il Piano sarebbe quello di subordinarsi in larga parte alle leggi di profitto che già dominano e regolano le attività delle imprese, piccole o grandi che siano, presenti nel territorio, che possono così accedere a ulteriori fondi presentandosi sotto la nuova “veste” di filiera produttiva “innovativa”, “flessibile” e “sostenibile”. Nel Piano vengono citate, ad esempio, alcune grandi imprese come Eni in Congo, Terna in Tunisia e Bonifiche ferraresi in Algeria ed Egitto.

Più che l’epopea di Mattei il governo Meloni avrebbe forse fatto meglio a trarre ispirazione, nella storia del nostro Paese, dal dibattito degli anni Sessanta sulla “programmazione” dello sviluppo, quel dibattito che vide confluire contributi da correnti politiche di culture diverse, cattoliche, laiche e socialiste, e riflessioni di intellettuali del calibro di Antonio Giolitti, Giorgio Fuà, Paolo Sylos Labini, Pasquale Saraceno e Ugo La Malfa. Una convergenza di idee che emerse non solo dalla necessità di un maggiore equilibrio dell’andamento economico in risposta a una modernizzazione che pareva procedere senza correggere vecchi e nuovi squilibri. L’idea alla base di quel tipo di visione programmatrice era di fatto inserita all’interno di un quadro coordinato che configurava il “piano” come organismo direttivo in grado di garantire una compenetrazione tra Stato, impresa pubblica e privata, nel quale spiccava il ruolo primario e di “compensazione” svolto delle grandi aziende pubbliche col compito di concorrere allo sviluppo delle aree ancora arretrate e col fine di correggere le distorsioni provocate dallo stesso meccanismo di mercato. Un “piano” cioè come strumento capace di programmare le condizioni di sviluppo senza subire le priorità predeterminate invece dagli automatismi del mercato stesso, non solo per ciò che riguardava la formazione dei prezzi e il processo di distribuzione, ma anche, e soprattutto, su ciò che concerneva il rapporto tra investimenti produttivi e consumi.

A prescindere dagli esiti di quel tipo di programmazione, il Piano Mattei, oltre a non poggiare su basi di contenuto così solide, non specifica alcuna complementarietà o differenza che dovrebbe intercorrere tra intervento pubblico e privato e accenna a sole promozioni di molteplici investimenti in ambiti produttivi generici e non coordinati tra loro (come il caso di piani di investimento e di intervento nel settore idrico-energetico e in quello delle telecomunicazioni), dove un ruolo di risalto sembra essere stato affidato, come nel caso dell’agricoltura, in larga parte alle PMI. Le stesse che se in un Paese altamente avanzato riescono a concorrere senza dubbio all’aumento di profitto e benessere difficilmente riuscirebbero ad agire in egual misura in una condizione sociale e ambientale dove a mancare o a essere precarie sono spesso le grandi infrastrutture attorno alle quali si formano e gravitano le stesse PMI.

Tutto, nel Piano, sembra essere per lo più affidato a erogazioni che lo Stato concede alle imprese nella speranza che ciò possa ridare un qualche slancio all’economia dei Paesi coinvolti, ma anche di quella italiana.

Manca totalmente una visione che, almeno nelle intenzioni, riesca a superare dunque quel tipico modello sommario di intervento sovranazionale che nel corso degli anni, con interventi saltuari e non sempre coordinati tra loro, ha solo in minima parte frenato il gravoso fenomeno dello sfruttamento delle risorse e della conseguente migrazione e tentato di determinare una diversa dinamica economica maggiormente incline ai consumi primari ed essenziali per la collettività.

In conclusione il Piano Mattei, e la presunta idea pianificatrice che ne è alla base, sembra in larga parte, per utilizzare le parole di Antonio Giolitti sui rischi di una programmazione vaga, poggiare su di un asse stracolmo di “inflazioni di velleità puramente verbali”, celando non altro che ennesime misure di aumento della spesa pubblica totalmente incapaci di porre un qualche rimedio effettivo alle molteplici problematiche che condizionano lo sviluppo dell’Africa da decenni, dalla disoccupazione all’inurbamento caotico per passare all’endemico sfruttamento incontrollato delle risorse.