Un’idea giusta, diventata un piano deludente?

Lia Quartapelle Procopio
Parlamentare, Vice Presidente Commissione Esteri, Camera dei Deputati

L’ambizione del Governo Meloni di avere un piano per l’Africa è un progetto d’importanza strategica a cui come opposizione non ci possiamo sottrarre né criticare a priori. Perché per la prima volta un Governo non si limita a un piano politico o diplomatico verso il continente, ma parte da una visione d’insieme per elaborare una strategia divisa per paesi, in un continente estremamente variegato. Un approccio che, sulla carta, sembra innovativo e promettente.

Il Piano è ancora più importante perché riguarda l’Africa: un continente con cui siamo profondamente interconnessi e interdipendenti. Secondo l’ONU, la popolazione africana potrebbe raggiungere i 2,5 miliardi entro il 2050, arrivando ad essere poco meno di un quarto della popolazione mondiale. Le sue economie nazionali sono in crescita, e persino durante il COVID, 53 dei 54 paesi africani hanno continuato a crescere. Oltre a ragioni economiche, anche sul versante umanitario ha senso razionalizzare e potenziare il nostro impegno nel continente. Se nel 1990 il 14% degli esseri umani in povertà assoluta viveva nell’Africa sub sahariana, questa percentuale è aumentata al 57% nel 2019. A questo si aggiungono gli effetti del cambiamento climatico, che colpiscono l’Africa più di altri - pur essendo responsabile di meno del 4% delle emissioni di gas serra. Questi fenomeni hanno poi un impatto diretto sui flussi migratori verso l’Europa, con il loro effetto dirompente nel nostro discorso politico e sui risultati delle nostre elezioni.

Una strategia che abbia successo in questo scenario deve basarsi su fondamenta solide e lungimiranti: investimenti corposi, strumenti efficaci e una strategia chiara e coordinata. Nulla di tutto questo ad oggi è incluso nella versione attuale Piano Mattei.

Per prima cosa, il Piano come è stato presentato in parlamento non prevede nuovi stanziamenti di fondi. Dei 5,5 miliardi di euro messi a disposizione, 3 vengono dal Fondi Italiano per il Clima istituito dal Governo Draghi con la Legge di Bilancio per il 2022, gestito da Cassa Depositi e Prestiti (CdP), e 2,5 sono stati presi dai fondi per la cooperazione allo sviluppo. Il decreto legge approvato dal parlamento a novembre 2023 definiva solo i settori di collaborazione, senza specificare nessun progetto, e istituiva una cabina di regia affiancata da una struttura finanziata con solo 2 milioni di euro. Il documento programmatico inviato poi dal Governo alle Camere a luglio 2024 è ancora più problematico, perché scollegato dai progetti già in corso e contenente anche informazioni sbagliate sulle attività esistenti. Alcuni progetti sono molto vecchi (come il progetto Elmed tra Italia e Tunisia, iniziato nel 2013), altri solamente abbozzati, altri sono progetti di aziende private che sarebbero stati comunque realizzati. Il Piano infine ignora la fascia più critica per la stabilità del nostro paese, ovvero quella saheliana, colpita da 8 colpi di stato in un anno.

Tuttavia la maggiore fonte di preoccupazione è che il braccio operativo del Piano, gli strumenti per la cooperazione, presentino delle profonde fragilità nelle risorse e nella capacità attuativa. Il direttore dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) Riccardo Rusconi, in audizione alla Commissione esteri della Camera dei Deputati ha certificato che esiste già un profondo gap tra gli impegni presi dal Governo, i fondi effettivamente stanziati e quelli infine spesi. La difficoltà di spesa di cui soffre l’AICS è dovuta non solo ai contesti instabili con cui opera, che certamente aggiungono incertezza e complessità, ma a debolezze strutturali che condannano il Piano all’inefficacia. Le nuove procedure dell’Agenzia, ispirate più dalle logiche della Corte dei conti che dalle necessità di efficacia e tempestività, hanno aggiunto burocrazia e lentezza. Nonostante la legge 125/2014, a causa delle procedure amministrative varate negli ultimi 5 anni l’AICS è diventata più lenta. Inoltre, l’ente italiano alla cooperazione ha circa 660 impiegati, contro i 12.000 dell’agenzia alla cooperazione tedesca e i 5.000 di quella francese. Questi numeri rispecchiano anche le risorse totali stanziate. Nel 2019, l’Italia ha destinato €2,7 miliardi allo sviluppo, contro i €5,8 miliardi tedeschi e i €6 miliardi francesi. CdP, che fa parte della Cabina di Regia del Piano, ha dedicato molte risorse in progetti in Africa negli ultimi anni, ma ancora molte meno di altri paesi. Il suo corrispettivo tedesco ha 6.705 dipendenti, solo nel 2020 ha impegnato 3 miliardi di euro in progetti per l’Africa, il 35% del budget totale. CdP, dal 2019 al 2024, ha destinato 1,4 miliardi all’Africa. L’Italia, inoltre, non ha un’istituzione che si occupi solo di finanza dello sviluppo (ruolo che è oggi tra le molte responsabilità di CdP), come invece hanno creato Francia, Germania, Regno Unito e Paesi Bassi.

Nonostante queste difficoltà, l’AICS è stato in questi anni lo strumento più efficace della nostra politica estera. Difatti, le sue fragilità fanno eco a un sistema ancora più sottofinanziato. Se il nostro numero di ambasciate, consolati e istituti di cultura è simile a quello di Francia e Germania, le persone che ci lavorano sono la metà. Il MAECI conta 3.554 tra diplomatici e funzionari (con una riduzione del 20% negli ultimi 10 anni), mentre il Ministero degli Esteri tedesco ne ha 6.435 e il Quai d’Orsay 8.674. Anche la Spagna ha 2.000 persone in più dell’Italia nella sua rete consolare. I bilanci seguono una simile proporzione: la Farnesina gode di un bilancio di circa 1,6 miliardi di euro, Quai d’Orsay di 2,7 miliardi, e il Wilhelmstraße, il Ministero degli Esteri tedesco di 5,9 miliardi.

Inoltre, la 125/2014 ha sancito il valore del sistema nell’APS italiano, sostenendo la dignità e delineando il ruolo degli attori coinvolti al Capitolo VI: università, regioni, enti locali, privato profit e privato non-profit. Ha definito un quadro che valorizza il partneriato tra questi e affida all’AICS il loro coordinamento. Il Piano Mattei dà il ruolo da protagonista a Università, privato profit e partecipate, ma marginalizza le organizzazioni non profit, le diaspore africane in Italia e regioni ed enti locali. Si perde così l’apporto determinante della cooperazione territoriale e comunitaria.

In questo contesto, un Piano ambizioso si trasforma in un’occasione mancata. Se il Governo vuole fare sul serio, deve mettere mano a tutte queste debolezze con investimenti strutturali che accompagnino il Piano. La capacità di proiezione del paese deve essere potenziata, dando le giuste risorse a ogni ente coinvolto dal concepimento alla realizzazione dei progetti. Il Governo davanti a questa preoccupazione ha espresso l’intenzione di rivedere la legge 125/2014. L’orientamento espresso in sede di commissione dal direttore AICS sarebbe quello di sostituire ai bandi procedure di affido diretto. A fronte dei limiti di risorse umane, delle scarse capacità di pianificazione e strategia emerse nei dieci anni dalla approvazione della legge, risulta illusorio pensare che l’affido diretto possa essere la risposta alla difficoltà strutturali della cooperazione. Inoltre, senza una selezione strategica d’insieme degli interventi, si rischia di finanziare progetti non prioritari per l’Africa, e di perdere l’opportunità di costruire un reale impatto sul lungo termine. Infine, il Piano è stato sviluppato pensando che l’Italia agisca da sola: il collegamento a strategie multilaterali ed europee è estremamente scarso, e l’Europa esiste solo come riferimento al Global Gateway.

Il Piano Mattei parte da premesse corrette e un’ambizione condivisibile da parte di tutto lo schieramento politico. Così come è proposto non risponde alle aspirazioni di una reale strategia dell’Italia per l’Africa. Siamo disponibili a discutere approfonditamente e nel merito.