Il rilancio del processo di adesione della Serbia all’Ue: una scelta imprescindibile per la difesa degli interessi italiani ed europei
“Hvala, brate Si! (Grazie, fratello Xi!)”: questa espressione campeggiava – sopra un ritratto del Presidente cinese sullo sfondo della bandiera rossa a cinque stelle – nella cartellonistica pubblicitaria ben in vista a Belgrado alla fine del marzo scorso, nei giorni successivi all’arrivo in Serbia di materiale sanitario e di un team medico proveniente dal Guandong.
In quella che è diventata una delle immagini iconiche dell’epidemia da Covid19 nei Balcani occidentali, trasmessa in diretta televisiva, il Presidente Vučić baciava il vessillo della Repubblica Popolare alla cerimonia di accoglienza allestita in aeroporto, rivolgendo espressioni di commossa gratitudine al popolo cinese e al suo leader (“un vero amico della Serbia”), definendo la solidarietà europea come “una favola”. Tutto ciò non ha poi impedito a Bruxelles di stanziare, nel momento più acuto dell’emergenza sanitaria, 94 milioni di euro di aiuti alla Serbia, facendosi – paradossalmente – carico del trasporto proprio dalla Cina di ulteriori equipaggiamenti.
Se un osservatore si limitasse ad analizzare questo singolo evento, dagli evidenti contenuti propagandistici, potrebbe ricavarne una visione distorta, o quantomeno parziale, del posizionamento internazionale di Belgrado. Questo perché, come spesso accade nei Balcani, la realtà è ben più complessa di quanto non appaia. Da anni la Serbia ha fatto del processo di adesione all’Ue una priorità della propria politica estera e la stessa Commissione Europea, in una Comunicazione del 2018 fortemente voluta dall’allora Presidente Juncker, ha riconosciuto il ruolo di front runner di questo Paese nel processo di allargamento in corso.
Al contempo sarebbe ingenuo negare la difficoltà per l’Unione europea, soprattutto in termini di immagine, a imporsi quale modello di riferimento - oltre che come obiettivo strategico - per il Paese balcanico, nonostante l’Ue sia, insieme con i suoi Stati Membri, di gran lunga il primo partner commerciale, il primo investitore e il primo donatore della Serbia.
Vent’anni dopo l’ultimo tragico capitolo delle guerre jugoslave – culminato con l’intervento militare della NATO contro Belgrado, la successiva caduta di Milošević e l’affermarsi dei primi esponenti democratici al vertice delle istituzioni – la Cina, la Russia e (in parte) la Turchia godono di una crescente popolarità nell’opinione pubblica serba. Ciò è in parte riconducibile, oltre a ragioni storiche che legano Belgrado a Mosca (per alcuni versi più recenti di quanto non si creda), anche ad una certa tendenza serba a perpetuare logiche di non allineamento concepite ai tempi della Jugoslavia. Una strategia, questa, che deve però essere considerata anche alla luce della questione kosovara e agli equilibri in ambito onusiano.
Tuttavia, nella popolazione è abbastanza diffusa la consapevolezza che lo sviluppo economico del Paese, e quindi il benessere dei cittadini, possa derivare solo da un ulteriore rafforzamento del legame con l’Ue. Lo dimostrano i numeri dell’emigrazione, avendo la quasi totalità dei lavoratori o studenti che hanno preso la via dell’estero scelto come destinazione finale un Paese Ue.
Rimangono invece più distanti, anche a livello politico, le associazioni con lo stato di diritto, con la separazione dei poteri, con la responsabilità di una pubblica amministrazione al servizio del cittadino, con le garanzie e il rispetto per la libertà di espressione, con il contrasto alla corruzione e con le sanzioni ai conflitti di interesse. In sintesi, con un sistema fatto di valori acquisiti e condivisi, già in buona parte esistenti nei Paesi fondatori, che la costruzione europea nel corso di oltre sessant’anni ha contribuito in maniera decisiva a rafforzare e ad ampliare.
Se l’Ue intende imporre una svolta all’attuale status quo e diventare l’unico modello di sviluppo politico, oltre che economico, per Belgrado, deve puntare ad accelerare nuovamente il processo di adesione. Considerate, tuttavia, le recenti incertezze di molti Stati membri rispetto all’allargamento, è di fatto assai difficile per l’Unione contrastare la narrativa di un’Europa propensa a usare “due pesi e due misure” per l’avanzamento del processo di adesione (il confronto più immediato è quello con il Montenegro), in ragione delle condizionalità imposte alla Serbia per l’apertura dei capitoli negoziali, rese ancora più stringenti dal fardello del raggiungimento di un accordo onnicomprensivo con Pristina per la normalizzazione delle relazioni (l’Ue non intende importare, dopo quello cipriota, un altro “conflitto congelato” al suo interno).
Senza una prospettiva di integrazione credibile e chiara (anche in termini temporali) in favore di Belgrado, sarà difficile continuare a esigere le profonde riforme richieste da Bruxelles in settori chiave per il funzionamento dello Stato (una su tutte, quella concernente l’indipendenza della magistratura), anche perché la polarizzazione del quadro politico interno (con la reciproca delegittimazione fra maggioranza e opposizione) rende di fatto poco praticabile ogni forma di dialettica parlamentare su questioni essenziali per il Paese.
In questo quadro, già di per sé complesso, si innesta poi la ricerca di una soluzione sostenibile e duratura per il Kosovo, che appare la questione forse più urgente e per la quale vi è una forte aspettativa circa il ruolo di mediazione dell’Ur da parte di tutti gli attori coinvolti. La ripresa del Dialogo facilitato dal SEAE quest’estate (dopo un anno e mezzo di stallo imposto da Pristina) deve ora far fronte anche al rinnovato impegno di Washington sul dossier.
A Bruxelles permangono invece ambiguità su un possibile collegamento diretto tra l’accordo Belgrado-Pristina e un’accelerazione incondizionata del processo di integrazione, non suffragato da progressi tangibili sui dossier cruciali per la credibilità dell’intero negoziato (inerenti alle libertà fondamentali e allo stato di diritto), e sui quali vi è maggiore resistenza.
Oggi più che mai non vi è alternativa a proseguire uno sforzo di “engagement” con Belgrado. La Serbia continua infatti a essere il pilastro della stabilità regionale e – soprattutto – merita di essere sostenuta per il livello di competenze che è in grado di esprimere (del tutto all’altezza del pur difficile compito di gestire il percorso verso l’adesione all’Ue) e per il potenziale ancora inespresso delle sue numerose e svariate risorse. Tutto ciò anche per evitare di ampliare lo spazio crescente di influenza che attori “esterni” appaiono guadagnare, a fronte di strategie indubbiamente meno costose di quelle intraprese da Ue e Stati membri, ma foriere di ritorni immediati, visibili ed emotivamente significativi per un Paese che ancora risulta carente in infrastrutture di collegamento essenziali e che continua a dipingersi come “vittima dei giochi delle grandi Potenze”.
Che ruolo può avere l’Italia in questo contesto? Il nostro Paese può innanzitutto far valere il suo tradizionale appoggio all’integrazione europea della Serbia in ragione non solo della sincera e duratura amicizia con Belgrado (mai venuta meno neppure nelle fasi più drammatiche della storia recente), ma anche per la nostra convinzione circa l’importanza strategica che l’adesione all’Ue della Serbia riveste per gli interessi nazionali ed europei. L’Italia è inoltre in grado di mediare tra la posizione di apertura della Commissione rispetto all’allargamento e le riluttanze mostrate da alcuni Stati Membri (Francia e Olanda in particolare), come già fatto in occasione dell’avvio dei negoziati con Macedonia del Nord e Albania.
L’Italia può quindi giocare un ruolo di primaria importanza per accompagnare la Serbia verso il traguardo europeo, grazie alla rilevanza della nostra presenza economica e alla solidità delle relazioni politiche bilaterali basate su un partenariato strategico, che presenta anche una dimensione securitaria con la presenza di militari italiani in seno alla missione KFOR, a protezione in Kosovo di alcuni dei siti storico-artistici e religiosi più significativi per l’identità nazionale serba. A questo si aggiunge un livello di cooperazione culturale e scientifica che rende il nostro Paese un punto di riferimento, al quale si guarda come esempio in innumerevoli ambiti.
In un momento in cui gli interrogativi su tempi e modalità del processo di integrazione nell’Ue rischiano di mettere in discussione gli importanti risultati conseguiti in questi anni, l’Italia ribadisca la sua scelta lungimirante e punti a dare nuova linfa all’azione europea nei Balcani, mostrando di voler guidare uno sforzo comune volto a investire maggiormente in Serbia e nella regione. Questo perché la salvaguardia dei nostri interessi nazionali in campo economico, nella gestione dei flussi migratori, nella lotta agli estremismi politici e religiosi non può prescindere dall’adesione dei Paesi dei Balcani occidentali all’Ue.
L’Italia è e resta un interlocutore apprezzato, capace di dialogare con tutte le parti e, anche per questa ragione, la domanda d’Italia continua ad essere alta nella regione. Spetta a noi essere in grado di soddisfarla ed essere all’altezza dei nostri partner, tutelando al meglio i nostri interessi e rilanciando una credibile prospettiva europea per i Balcani.