UE e Balcani occidentali: punti di forza e criticità di un complesso dialogo di integrazione europea
Da molti anni è sul tavolo la strategia europea di allargamento dei propri confini ai Paesi dell’area balcanica occidentale. Una serie di Stati martoriati dai conflitti degli anni ’90, oggi ancora lacerati da dispute bilaterali di natura etnica e religiosa, sullo sfondo di conclamate difficoltà politiche ed economiche mai realmente superate, sulle quali Paesi come la Russia, la Turchia e – soprattutto – la Cina, fanno da leva per la propria politica estera.
Un quadro molto complicato, nel quale la sfida dell’Ue di abbracciare gli eredi della ex-Jugoslavia si rende un cammino tortuoso per molteplici ragioni. In base agli articoli 2 e 49 del Trattato dell’Unione Europea, i Paesi aspiranti membri devono perseguire alcuni obiettivi di stabilità politica, sottoscrivere ed implementare gli obiettivi europei in ambito politico, economico e monetario, e promuovere la tutela dei diritti umani – e delle minoranze - e dei valori di dignità umana, libertà e democrazia. Il nodo umanitario della questione resta, a latere di quello economico, un aspetto cruciale della regione balcanica: i conflitti territoriali sono esplosi proprio a causa di lotte interetniche, latenti nel periodo titino ma mai realmente esaurite. Parlare di Mostar, che ha vissuto le prime elezioni di un sindaco dopo 12 anni, o del Sangiaccato di Novy Pazar, dove periodicamente si riaffacciano tensioni religiose e fenomeni di radicalizzazione terroristica, significa rievocare dei simboli localizzati di problemi mai realmente risolti.
L’Europa, dunque, deve tener necessariamente conto del panorama politico/etnico/sociale frastagliato che contraddistingue l’area. L’eradicazione dei conflitti regionali è, ad oggi, condicio sine qua non affinché si possa portare ad un livello successivo il processo di allargamento dell’Unione. Una struttura politica sovranazionale come l’Ue, che da 70 anni promuove pace e prosperità tra le nazioni europee, in tal modo rischierebbe di includere al suo interno pericolosi focolai bellici, che invece necessitano di tutto l’impegno possibile al fine di ottemperare al perseguimento di quei valori fondamentali, pilastri dell’Unione.
Un altro aspetto di estrema rilevanza risiede nella capacità economica di questi Stati. È indubbio che, purtroppo, le sanguinose guerre degli anni ’90 abbiano contribuito in maniera decisiva al depauperamento di un sistema economico industriale considerevole: alla fine del 1991, infatti, la Jugoslavia era la ventiquattresima economia del mondo in termini di PIL. Certo, il pesante carrozzone socialista post-titino non aveva contribuito al consolidamento di un sistema virtuoso, con un debito estero esploso già a partire dagli anni ’80. La guerra, tuttavia, ha fatto il resto. Ancora oggi si raccolgono le macerie dello smembramento della Jugoslavia, ma i dati economici ci dicono come l’effetto, sui singoli Paesi, sia stato sostanzialmente differente. Slovenia e Croazia, già membri dell’Ue rispettivamente dal 2004 e dal 2013, avevano intrapreso un percorso di consolidamento economico e politico che ha loro concesso di crescere a ritmi incalzanti, essendo stati, inoltre, i primi Paesi a dichiararsi indipendenti dalla confederazione jugoslava e riconosciuti ufficialmente dall’Unione Europea già nel 1992.
Ad oggi, dunque, vi è un divario economico estremamente ampio tra Slovenia e Croazia ed il resto dell’area dei Balcani occidentali: secondo i dati pubblicati dalla Banca Mondiale, il PIL pro capite della Serbia (7213 USD) è, ad oggi, meno della metà di quello croato (16454 USD) e poco più di un quarto di quello sloveno (27152 USD - World Bank, 2019). È evidente, dunque, che la Serbia, così come tutti gli altri Stati dell’area, necessiterebbe di notevoli investimenti per rilanciare un’economia ricca di materie prime, ma quasi completamente priva di un apparato industriale e di servizi in grado di generare nuova ricchezza. In questo senso, naturalmente, di grande importanza sarebbe la possibilità per questi Paesi di aderire al progetto europeo. Alcuni di questi hanno già intrapreso i negoziati di adesione, come la stessa Serbia ed il Montenegro, altri invece attendono che venga fissata la data di avvio dei negoziati (Albania e Macedonia del Nord), altri ancora, come la Bosnia-Erzegovina, hanno presentato domanda formale di adesione all’Ue. Molti ostacoli sono rappresentati dall’adeguamento degli Stati all’acquis comunitario, che in alcuni casi risulta richiedere degli sforzi negoziali di notevole entità.
Il nodo politico della questione, tuttavia, si articola su una direttrice dicotomica di grande urgenza per tutti gli attori in campo. Sul fronte interno, la questione della normalizzazione rispetto al diritto comunitario apre praterie di interpretazione, di frammentazione e di negoziati lenti e macchinosi. Ad oggi, tutte le concertazioni rispetto all’acquis comunitario navigano a vista in alto mare, con alcuni dei punti di discussione ben lontani dalla soluzione, o addirittura assolutamente impensabili. A queste discrepanze di carattere giuridico, si aggiunge una polarizzazione di carattere politico, interna all’Ue stessa, con i Paesi cosiddetti “frugali”, contrari ad un ennesimo allargamento dell’Unione, per via della tendenza alla “finanza allegra” dei Paesi del Sud, tra i quali evidentemente rientrano quelli dell’area balcanica.
La posizione possibilista rispetto al nuovo allargamento porta con sé anche argomentazioni di carattere prettamente strategico, andando ad attingere alle ragioni della geopolitica per corroborare le proprie tesi.
È indubbio che l’area balcanica costituisca un importante crocevia tra l’Asia e l’Europa, ragione che la rende da sempre un territorio particolarmente turbolento e di grande interesse per tutte le potenze. Ad oggi, per esempio, assistiamo ad un interessamento molto importante della Cina per la Serbia, che in un certo qual modo si configura come una porta verso il resto d’Europa. Come ricordato da diversi analisti, la Serbia attualmente rappresenta un unicum a livello politico ed economico per gli interessi delle potenze extra-UE. Lo status di Paese candidato, infatti, garantisce una flessibilità regolativa che altri Paesi dell’UE non hanno, con in aggiunta il vantaggio di godere di accordi economici assimilabili a quelli di libero scambio con l’Unione. Negli ultimi anni, infatti, la potenza cinese sta rimpiazzando la Russia quale interlocutore principale della Serbia, con la conseguente generazione di un largo consenso tra la popolazione. La Cina oggi è presente in Serbia con miliardi di dollari in investimenti diretti esteri, che spaziano dall’energia alle infrastrutture. Molti degli investimenti cinesi si stanno concentrando sulla realizzazione e l’ammodernamento di collegamenti stradali e ferroviari, estremamente utili in un discorso di logistica intermodale. La Serbia costituisce un importante corridoio di collegamento tra il Mediterraneo e il Nord Europa, nell’ottica di divenire uno degli snodi di maggior rilievo nella Belt and Road Initiative. È bene ricordare come la Cina detenga il controllo della maggior parte del Pireo, uno dei porti più importanti dell’Europa meridionale, dunque una forte presenza cinese nel cuore dei Balcani costituisce una golosa opportunità per rafforzare la propria posizione nel mercato europeo.
Sul fronte energetico si fa ancora particolarmente ingombrante la presenza russa in Serbia, così come in tanti altri Paesi della fascia orientale dell’Europa. Gli Stati dell’area balcanica risultano di grande interesse per un esportatore di energia come la Russia per diverse ragioni: la prima di carattere essenzialmente strategico; negli anni, infatti, la pianificazione di diversi gasdotti prevedeva il transito dalla regione, creando degli ulteriori allarmi rispetto ad una forte dipendenza di taluni Stati dalle forniture di gas russo. Uno degli obiettivi primari del Terzo Pacchetto Energia dell’UE (2009) è stato infatti agevolare la liberalizzazione del mercato del gas, migliorando l’integrazione del mercato e la diversificazione delle forniture. Ciò ha prodotto come effetto collaterale la cancellazione di alcuni progetti come il Nabucco o il South Stream, ma che hanno trovato rapida conversione in progetti suppletivi quali il Turkish Stream e il ramo settentrionale del TANAP, osservando l’accrescimento del ruolo della Turchia nella partita energetica europea.
Come abbiamo osservato, dunque, molteplici sono le ragioni che intervengono nell’accelerazione di un processo di integrazione dell’area balcanica nell’Unione Europea, così come numerose, in realtà, restano le motivazioni di un processo macchinoso e lungo, che richiede uno sforzo politico e diplomatico di notevole entità. La natura conflittuale della zona rende questi Paesi dei clienti difficili, soprattutto in un periodo in cui la fiducia verso il sistema politico dell’UE viene messa in crisi da fenomeni nazionalisti e xenofobi, rendendo centrali questioni come la chiusura dei confini esterni alle tratte migratorie e fenomeni assimilabili. Al contempo, una situazione di crisi economica come quella generata dal Covid-19 ha messo a dura prova il rapporto delle singole cancellerie nazionali con Bruxelles, così come il rapporto stesso tra i vari Stati membri, il che porterebbe ulteriormente a scoraggiare l’allargamento della membership a Paesi oggettivamente in difficoltà.
D’altro canto, gli scenari che riconducono alla predisposizione di una azione esterna volta a contenere l’influenza di alcuni attori nel sistema politico ed economico europeo rendono anche urgente prendere una posizione in tempi relativamente brevi. La prosperità economica e sociale dell’UE passa necessariamente anche per la difesa di interessi comuni, sui quali in questo momento non possiamo permetterci di astenerci o temporeggiare.
Vi è, infine, una comunanza valoriale che ci spinge verso una ulteriore condivisione dell’esperienza europea con popoli con i quali storicamente condividiamo molto, in termini culturali, economici e politici. Il bilanciamento di queste posizioni, dunque, sarà risultante inequivocabile verso la conclusione di un percorso già largamente avviato, ma che stenta a trovare la giusta risolutezza per essere portato a termine.