La scuola differenziale e a senso unico
Parto dagli spunti di riflessione lanciati da Sebastiano Ceschi per affrontare la mancata integrazione dei migranti nella scuola italiana, specie in questa fase critica di uscita dalla pandemia del Covid-19, che ha ulteriormente aumentato il divario fra studenti italiani e chi proviene da contesti migratori. Oltre ad essere in drammatico ritardo nei programmi didattici, che contemplano ancora un’idea ‘contenutistica’ e non trasversale di interculturalità, la scuola italiana sta rafforzando rigidamente dei percorsi unilineari, quasi pre-determinati da una selezione ‘per merito’, che di fatto non contemplano né diversità al proprio interno, né capacità inclusiva per chi, come i figli di migranti, ha spesso minore capitale economico e culturale nella propria rete familiare e sociale.
Le mie osservazioni partono da una ricerca-azione condotta negli ultimi due anni nelle scuole secondarie per contrastare la dispersione e il ritardo scolastico degli studenti stranieri o, per usare la definizione ministeriale, con “background migratorio”. Come già ribadito da più parti in questo Forum, l’immigrazione è un processo ormai strutturale e permanente in Italia da oltre vent’anni; non possiamo perciò considerare la presenza di alunni/e migranti una novità per la scuola, per gli insegnanti né per i servizi educativi. Se nella prima fase di arrivo di alunni stranieri negli anni ’90 la scuola italiana aveva adottato prevalentemente un approccio “differenzialista” che vedeva nelle diversità linguistiche e culturali gli ostacoli da affrontare per inserire i corpi estranei nella communitas scolastica, con il passare degli anni le direttive politiche e i processi di governance scolastica sono scivolati verso altre modalità che, in teoria, dovrebbero aprire “la via italiana verso la scuola interculturale” (MPI 2007) ma, in pratica, la rendono ulteriormente meno accogliente e inclusiva.
Sul totale della popolazione straniera in Italia (5.255.503) oltre il 20% risulta composto da minori che, ovviamente, hanno un forte impatto sul sistema scolastico e formativo. Il Ministero dell’Istruzione registra da oltre venti anni il costante aumento degli alunni con cittadinanza straniera, che sono passati dai 73mila nell’anno scolastico 1997-98 (0,8%) a circa 860.000 nell’a.s. 2018-19, pari al 10% dell’intera popolazione scolastica (MIUR 2020, Gli alunni con cittadinanza non italiana, A.S. 2018-19. Gestione Patrimonio Informativo e Statistica). Nell’ultimo Dossier Immigrazione (IDOS 2020: 236) i minori “con background migratorio” risultano essere 1 milione e 316 mila; il 75% di questi è costituto dalle seconde generazioni, ovvero minori nati in Italia da genitori stranieri che non possono ottenere la cittadinanza fino al 18° anno di età a causa della norma legislativa che segue ancora lo ius sanguinis come principio legislativo dominante. Questo ‘corpo estraneo’ che la scuola italiana fa fatica ad integrare costituisce il 10% della popolazione scolastica complessiva. Privi di cittadinanza italiana in quanto nati da genitori non italiani, quasi la metà proviene da un paese europeo e il 35% dichiara di pensare in lingua italiana; del resto i dati ISTAT indicano che tra gli arrivati in Italia dopo il decimo anno di età si sente straniero uno su due.
La mancata approvazione di una legge per la cittadinanza che contempli lo ius soli come strumento di inclusione giuridica per chi nasce e cresce in contesto italiano, a prescindere dall’eredità familiare, ha delle ricadute pesanti nelle prassi e nella burocrazia scolastica: spesso anche chi si sentiva italiano percepisce nella frequentazione scolastica di essere ‘diverso’ e non integrato con gli altri compagni.
Chi arriva invece ‘dopo’ la nascita non trova strumenti efficaci per potersi inserire e mettersi ‘alla pari con gli altri: i dati del ritardo e della dispersione scolastica indicano che la scuola italiana non solo non riesce ad integrare, ma addirittura disperde la popolazione minore straniera, spesso senza neanche tenerne traccia. I primi dati post Covid mostrano un quadro generale in netto, preoccupante, peggioramento (Save the Children 2021; Venturi e Zunino, 2021).
A causa del costante declino demografico e dell’invecchiamento medio della popolazione, in Italia si assiste ad un calo progressivo della popolazione scolastica, ma la flessione negativa riguarda esclusivamente gli studenti con cittadinanza italiana (-1,2%), mentre quelli stranieri continuano a crescere (+1,9%) con un ritmo costante negli ultimi anni. La paura di un’invasione e della perdita identitaria ha prodotto nel 2010 una forte campagna politica contro le classi ‘troppo’ multietniche e la promulgazione della circolare ministeriale del 2010 (C.M. 8 gennaio 2010, n. 2) che stabilisce come limite massimo in ciascuna classe o scuola il 30% di studenti non italiani; tali principi sono stati riaffermati anche nelle successive circolari ministeriali e nelle “Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri” (MIUR 2014).
Introducendo il meccanismo delle quote e rimarcando l’origine attraverso la categorizzazione degli alunni/e “con background migratorio”, l’istituzione educativa primaria sta contribuendo in maniera selettiva non solo alla mancata integrazione, ma addirittura alla minore interazione dei figli dei migranti con il resto della popolazione. È infatti nei contesti quotidiani, nelle prassi di frequentazione e di condivisione giornaliera che si gioca la reale partita dell’integrazione, soprattutto per le future generazioni che stanno crescendo in Italia. Scuole, quartieri, città e paesi potrebbero essere i cantieri di costruzione e di programmazione di un’educazione al vivere comune, facendo delle scuole dei veri e propri presidi culturali e territoriali. Al contrario diverse amministrazioni locali hanno avviato politiche discriminatorie, supportate da manager scolastici che nel timore di perdere ‘clienti-alunni’ hanno messo in atto meccanismi di “quote” come strumento che viene proposto come mezzo per favorire l’integrazione al fine di evitare le scuole-ghetto.
Nonostante le retoriche dell’integrazione culturale, il meccanismo delle quote assieme alla promozione di un’idea di merito completamente avulso dal contesto sociale, sta producendo anche in Italia il fenomeno delle “banlieue educative”, con creazione di percorsi scolastici di serie A o B a seconda dei contesti abitativi familiari. Forme estreme di sperequazione nel tessuto urbano, producono nuove forme di esclusione sociale correlate ad un incremento della dispersione scolastica, che si è ancora più accentuata in fase di lockdown a causa di una mancanza di infrastrutture e supporti familiari per la didattica a distanza che in Italia si è prolungata più che in qualsiasi altro paese europeo.
Le seconde generazioni di migranti sono sicuramente la componente più in crescita, ma anche quella che presenta caratteristiche più dinamiche e composite (si veda gli interventi di Tumminelli e Lagomarsino in questo Forum). In una fase storica di costanti flussi di mobilità, il ritardo legislativo per adeguare l’accesso alla cittadinanza determina una rigida classificazione che respinge a priori come stranieri anche alunni/e nati e cresciuti in Italia a fianco dei loro compagni di banco italiani, in territorio linguistico e culturale italiano, ma catalogati nella categoria “studenti con background migratorio” (BM). Questa definizione traduce in lingua italiana uno degli indicatori usati dall’OECD (Young people with a migrant background) per misurare l’integrazione nel mercato lavorativo e la partecipazione sociale alla vita comunitaria dei giovani provenienti da contesto o famiglia migrante con rischio di discriminazione e/o di povertà educativa. Applicato al mondo scolastico e burocratico italiano, in realtà il termine BM diventa un’etichetta discriminatoria che spesso finisce per enfatizzare diversità, altrimenti latenti nella quotidianità della vita in classe, che spesso risulta essere più inclusiva nelle pratiche che non attraverso le politiche e i protocolli interculturali (Altin, Virgilio 2016). La ricerca che stiamo conducendo in area transfrontaliera del Friuli Venezia Giulia sta facendo emergere interessanti conflitti fra minoranze storiche e nuove comunità provenienti per lo più dall’Est Europa, nonché la marginalizzazione anche formativa e scolastica dei minori non accompagnati.
In una scuola italiana ancora fortemente ancorata su competenze linguistiche e nazionalistiche con scarse aperture interdisciplinari e transculturali, il meccanismo di categorizzazione burocratica crea tassonomie linguistiche e processi di labelling che sottolineano la diversità, la deviazione dalla norma standard con l’apparente obiettivo di uniformarla, ma col risultato finale di produrre ulteriore marginalizzazione nelle prassi scolastiche.
Una ormai folta letteratura interdisciplinare sottolinea che sono proprio i figli della migrazione i più esposti al rischio di insuccesso ed espulsione scolastica, non tanto per la diversità linguistica e culturale in sé, ma per la precarietà socio-economica e il modo in cui tale differenza viene trattata in una scuola dove il mito del merito come principio di giustizia diventa in realtà la legittimazione morale della disuguaglianza sociale.
Nonostante gli studi sulla migrazione di lungo periodo in diversi contesti dimostrino che la diversificazione all’interno delle nostre società sia sempre più complessa e ramificata, producendo identità e appartenenze multiple (Vertovec 2007; 2011), la rappresentazione ancora dominante a scuola è quella di “radici” e “background” culturale, intese come diversità da “integrare” in una comunità omogenea.
In realtà quello che andrebbe costruito a scuola non è la comunità, ma “il vivere comunitario (communality), che non è il risultato della scoperta di ciò che gli individui hanno in comune”, né un ritorno alle origini, ma è una “creazione continua” (Ingold 2019: 41). La comunità – intesa come avere qualcosa in comune – non è una base, ma un’aspirazione, un compito che letteralmente tiene legate le persone reciprocamente. In questo senso scuola ed educazione svolgono una funzione fondamentale come communitas che etimologicamente (com – ‘insieme’ e munus – ‘dono’) si costituisce tenendo assieme i membri della comunità legati da un dovere di dono reciproco, dove ciascuno ha qualcosa da dare proprio perché non vi è nulla in comune dato a priori.
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Bibliografia
Altin, R., Virgilio, F. 2016.Sconfinamenti. Intercultura in area transfrontaliera tra protocolli e pratiche, EUT, Trieste.
IDOS (a cura di) 2019. Dossier statistico immigrazione 2019. Centro Studi e Ricerche IDOS. Roma.
IDOS (a cura di) 2020. Dossier statistico immigrazione 2020. Centro Studi e Ricerche IDOS. Roma.
Ingold, T. 2019. Antropologia come educazione. La Linea. Bologna [2018].
MIUR 2020, Gli alunni con cittadinanza non italiana, A.S. 2018-19. Gestione Patrimonio Informativo e Statistica. (https://www.miur.gov.it/documents/20182/2447435/Notiziario+Alunni+con+Ci...)
Save the Children, 2021. Un anno di pandemia: le conseguenze sull’istruzione in Italia e nel mondo,
(https://www.savethechildren.it/blog-notizie/un-anno-pandemia-le-consegue...)
Venturi, I e Zunino, C., 2021. I dispersi della Dad quei 200 mila ragazzi in fuga dalla scuola. “La Repubblica”, 17 maggio 2021: 8-9.
Vertovec, S. 2007. Super-diversity and its implications. Ethnic and Racial Studies, (30), 6: 1024-1054.
Vertovec, S. 2011. Migration and New Diversity in Global Cities: Comparatively Conceiving, Observing and Visualizing Diversification in Urban Spaces, MMG Working Paper 11-08. [https://www.mmg.mpg.de/59538/WP_11-08_Vertovec_GlobaldiverCities.pdf].