L’integrazione, ancora, negata
Una riflessione seria sul tema dell’accoglienza e dell’integrazione degli immigrati nel nostro Paese, soprattutto nel nostro tessuto sociale, richiede preliminarmente un grosso sforzo di onestà intellettuale.
Richiede, cioè, una risposta sincera e onesta a una domanda apparentemente semplice: siamo disposti ad accogliere a pieno titolo nel nostro Paese, nella nostra società, nella nostra quotidianità, nella nostra vita, persone diverse da noi per lingua, tradizioni culturali, credo religioso? Siamo, cioè, disposti ad abrogare definitivamente l’uso di quel noi e loro che fino ad ora ci ha distinti e separati?
Questi sono i quesiti ai quali occorrerebbe dare una risposta chiara e inequivoca prima di addentrarci in considerazioni di natura giuridica, economica, sociale, nelle pieghe delle quali facilmente si possono annidare obiezioni e distinguo, segnali, talvolta dissimulati, talvolta espliciti, se non addirittura orgogliosamente rivendicati, del rifiuto dell’Altro in quanto tale.
L’integrazione non è un atto che si compie una volta per tutte, è un processo, un percorso lungo che vede intervenire molteplici fattori. Una partita che si gioca a due: chi arriva e chi accoglie. Entrambi i giocatori devono mettersi in gioco, devono scommettere sul risultato. Rispetto alle aspettative di chi arriva nel nostro Paese poco possiamo dire, qualcosa, invece, la possiamo dire su di noi, sul nostro atteggiamento nei confronti degli immigrati, sulla nostra reale disponibilità ad accoglierli e integrarli a pieno diritto (nella pienezza dei diritti) nella nostra società e, cosa più difficile, se siamo disposti a lasciarci accogliere, ad integrarci e a lasciarci, perché no, cambiare dall’incontro con altre culture. In questo processo, come dicevamo, intervengono diversi fattori. Possiamo parlare di una integrazione “dal basso” cioè nei fatti, nella vita quotidiana della nostra società e di ciascuno di noi, e di una integrazione “dall’alto” cioè affidata alle leggi e, più in generale, all’intero quadro normativo che regola la vita degli stranieri in Italia. Questi due piani, come vedremo, interagiscono e si influenzano a vicenda in un delicato equilibrio (o squilibrio), delimitando i confini della capacità di accoglienza e integrazione del nostro Paese. Molteplici sono gli elementi che concorrono a determinare l’accettazione da parte di una società, di un popolo, dello “straniero”. Tra questi sempre maggior rilievo sta assumendo la percezione dell’altro, del “diverso da me” che ciascuno di noi ha e questo anche se ciò che percepiamo è in evidente contrasto con i dati oggettivi. A questo riguardo una recente indagine condotta dall’Istituto di Studi Politici S. Pio V di Roma (B. Coccia a cura di, La percezione dell’immigrazione in Italia. La storia e la lingua. La paura e il senso di sicurezza. Le variabili sociali e psicologiche legate ai flussi migratori., Apes, Roma, 2020) ha delineato una serie di “profili” (l’accogliente, il difensore, il sicuro…) che ben descrivono l’atteggiamento che ciascuno di noi assume, anche non del tutto consapevolmente, nei confronti degli immigrati. Atteggiamento frutto della somma di un portato culturale, di un eventuale credo religioso o politico, delle opinioni che progressivamente ci andiamo costruendo riguardo agli immigrati e della capacità di metterci in discussione nell’incontro con il “diverso”. Diverse le sorprese, almeno per chi scrive, emerse da questo studio: l’appartenenza ad un credo religioso non sempre è garanzia di accoglienza e apertura rischiando, piuttosto, di creare un pregiudizio nei confronti degli immigrati, come pure l’avere figli spesso, piuttosto che predisporre ed aprire all’accoglienza, rischia di spingere all’autotutela e a un malinteso senso di protezione nei confronti della prole. Insomma l’incontro con l’altro, con lo straniero e l’idea di accoglierlo nella nostra società e nella nostra vita quotidiana ci mette personalmente in discussione rendendo l’integrazione “dal basso” più complicata di quello che possa sembrare.
L’integrazione “dal basso”: moglie e buoi dei paesi tuoi
I proverbi, i modi di dire ci trasmettono, in genere attraverso la tradizione orale, quella saggezza popolare che ha rappresentato per secoli il senso comune ovvero il buon senso della cultura popolare.
Una cultura prevalentemente rurale, la nostra, dato che l’Italia è sempre stata un Paese a prevalente vocazione agricola fino a quando, intorno alla metà del secolo scorso, si è data una posa da Paese altamente industrializzato. E proprio alla più antica tradizione rurale dobbiamo il detto “moglie e buoi dei paesi tuoi” nel quale l’una e gli altri rappresentano una fondamentale scelta di “futuro”.
Davanti a scelte di questa portata, che avrebbero determinato il futuro di un nucleo familiare, non si poteva rischiare o fare errori, occorreva andare sul sicuro e dunque cosa poteva esserci di meglio che ricorrere ai “prodotti” (con tutto il rispetto per le donne) della propria terra? Oggi, in era di ecosostenibilità, si direbbe una scelta “a chilometri zero”. Come sposare una donna della quale non conosco i genitori, la famiglia, la storia e che addirittura parla una lingua (dialetto) diversa dalla mia? Come acquistare qualcosa che proviene da una terra che non conosco? Ed ecco ricomparire quel concetto di noi tanto rassicurante, racchiuso nella confortante cerchia di persone e in un territorio che si conosce e si sente proprio. Naturalmente, allora, del proprio paese non indicava della propria Nazione, ma della propria comunità, quella che si ritrovava all’ombra dello stesso campanile, quella che parlava lo stesso dialetto; la sola idea di poter sposare una persona di un Paese straniero non era proprio all’ordine del giorno. E dunque quel noi era molto stringente, si riferiva al proprio paesino, alla propria cittadina, facendo, di fatto, del povero bue della valle accanto, uno straniero.
La forte accelerazione impressa alla società italiana dal rapido processo di industrializzazione nella seconda metà del secolo scorso e la consistente migrazione interna che questo ha determinato hanno, in parte, sprovincializzato la popolazione e, non senza fatica, la consapevolezza che le persone della valle accanto, tutto sommato, non fossero così tanto diverse da noi ha iniziato a farsi strada (Riguardo alle difficoltà incontrate dai migranti interni negli anni del boom economico cfr. B. Coccia, Stranieri in patria. Le migrazioni interne dal dopoguerra agli anni Settanta. In A. Giovagnoli a cura di, L’Italia e gli italiani dal 1948 al 1978. Rubbettino editore, Catanzaro 2019). Tuttavia la comprensibile diffidenza verso ciò che non si conosce, verso ciò che è ignoto può talvolta trasformarsi in ostilità o vero e proprio rifiuto. È quanto abbiamo visto accadere in questi ultimi anni nel nostro Paese nei confronti dei migranti. L’Italia, in quanto Paese povero, è stato da sempre caratterizzato, in particolare in alcune fasi, anche recenti, della propria storia, da importanti fenomeni di migrazione sia esterna che interna. Dalla fine degli anni ’70 fino all’inizio degli anni ’90, più discretamente, mentre in seguito in maniera più dirompente, l’Italia è diventata Paese d’immigrazione, rivelandosi del tutto impreparata all’accoglienza e all’integrazione dell’“altro”. Ecco allora, più prepotentemente in questo ultimo decennio, riemergere le rivendicazioni identitarie, di difesa di una presunta identità nazionale minacciata dai nuovi arrivati tanto diversi da noi. Sul concetto di identità nazionale ci sarebbe molto da dire ed in particolare sull’identità nazionale italiana, ma certo non in queste poche pagine. Possiamo però affermare con certezza che poche identità nazionali, data anche la giovane età della nostra nazione, sono il frutto dell’incontro di culture, tradizioni, lingue e religioni diverse come quella italiana e possiamo con altrettanta certezza affermare che la ricchezza e la bellezza della tradizione culturale del nostro Paese si devono proprio all’essere stata, e ad essere tuttora, l’Italia, geograficamente e culturalmente protesa nel Mediterraneo, terra di passaggio, d’incontro, di arricchimento e scambio reciproco tra culture, religioni e civiltà diverse.
Noi vs gli altri. Questo il binomio che sembra ormai dominare il dibattito sull’immigrazione, gli interessi della nostra comunità minacciati, socialmente, culturalmente, economicamente dalle orde di stranieri che ci stanno invadendo. Non è così, ma questa è la percezione che la maggioranza degli italiani ha e questo è il messaggio che politici e mass media diffondono a piene mani nel dibattito politico e nella sottocultura dei salotti televisivi. Non è questa la sede e non è lo scopo di queste poche pagine dimostrare quanto questi timori siano infondati. Esiste, fortunatamente, al riguardo, una copiosa e qualificata letteratura.
L’integrazione “dall’alto”: la politica cattiva, la cattiva politica e l’effetto specchio
“Per contrastare l'immigrazione clandestina non bisogna essere buonisti ma cattivi, determinati, per affermare il rigore della legge”. Così nel febbraio del 2009 si esprimeva l’allora ministro dell’interno Roberto Maroni, manifestando una dichiarazione d’intenti che avrebbe preso forma giuridica con la legge 94 del luglio 2009. Così Ferrajoli la commenta: “Con questa legge – sicuramente la più indegna della storia della Repubblica – per la prima volta dopo le leggi razziali del 1938 è stato penalizzato, con l’introduzione del reato di immigrazione, non un fatto ma uno status, quello appunto di immigrato clandestino, in violazione di tutti i principi basilari dello Stato di diritto in materia penale” (Luigi Ferrajoli, Il fenomeno migratorio quale banco di prova di tutti i valori della civiltà occidentale. In Emanuele Galossi a cura di Immigrazione e sindacato. Nuove sfide, universalità dei diritti e libertà di circolazione. EDIESSE, Roma, 2017).
In buona sostanza viene sancito il concetto di “persona illegale” e a questo punto viene spontaneo domandarsi quale sarà la prossima categoria di persone dichiarata illegale per legge. Senza entrare nel merito delle discussioni sulla costituzionalità di questa legge e sulla gravità del principio affermato nel suo testo circa la criminalizzazione delle persone, non già per quello che fanno, per le loro azioni, ma per ciò che sono, per la condizione che vivono, per la loro identità, possiamo dire che è una legge cattiva, come aveva promesso il Ministro Maroni, e anche che è una cattiva legge, figlia di una cattiva politica. Una politica che, più che ispirarsi agli alti valori costituzionali che reggono la nostra Repubblica, guarda piuttosto agli istinti più bassi della popolazione (degli elettori) e, per una insaziabile sete di consenso e in nome di un mal inteso concetto di rappresentanza, li codificano e li rendono legge dello Stato.
Ecco allora che si crea quella che potremmo definire una “politica specchio” nella quale, “per l’interazione che sempre sussiste tra diritto e senso comune” (Luigi Ferrajoli, Op. cit.), il legislatore, a tutti i livelli, legittima attraverso le leggi (o anche i decreti amministrativi o le semplici circolari ministeriali) i più bassi istinti della popolazione, la quale, a sua volta, vedendoli codificati e divenuti legge, si sente rassicurata rispetto a quei sentimenti fino a quel momento ritenuti inconfessabili e alza la posta, certa che, ancora una volta, la politica saprà rispecchiare la volontà popolare. Condannare l’immigrato a una inferiorità giuridica, alla colpa di esistere, ha significato condannarlo tout court a una inferiorità naturale, a una diversità colpevole che non lo rende degno dei nostri stessi diritti. Questo processo che, a volte carsicamente, a volte alla luce del sole si è fatto strada nella cultura e nella coscienza della popolazione italiana, ha portato a parlare esplicitamente dell’immigrazione, non più come fenomeno ma come problema; a valutare il tema dell’accoglienza in termini di esclusiva utilità degli immigrati come forza lavoro e ad ascoltare con una certa assuefatta indifferenza le notizie riguardanti le tragedie nel Mediterraneo dei barconi della speranza. Tutto questo è solo cattiva politica?
Lupus et agnus…
La cattiva politica contribuisce a spersonalizzare l’immigrato, a renderlo un numero da inserire in bollettini periodici relativi agli sbarchi, o peggio, alle tragedie del mare; lo rende una non – persona priva dei diritti fondamentali, ma utile all’economia nazionale, perché disposta a svolgere quei lavori faticosi, pericolosi o degradanti, che gli italiani non sono più disposti a fare. Basti pensare a quanto successo nella cosiddetta era post – COVID, retoricamente immaginata e raccontata da istituzioni e leader politici come un nuovo inizio, come l’alba di un mondo migliore, riguardo ai permessi di soggiorno da concedere ai lavoratori stranieri indispensabili ai processi produttivi dell’agricoltura. L’ampio e animato dibattito politico, caratterizzato da minacce di dimissioni di ministri, da levate di scudi dei gruppi parlamentari, da annunciate crisi di governo, in sostanza ha riguardato la concessione di diritti in base all’utilità delle persone, come se i diritti non fossero qualcosa di innato e indisponibile da parte del legislatore, bensì qualcosa che si acquisisce per merito o in base alla propria “utilità”.
Queste norme, ma direi anche gli stessi dibattiti che le accompagnano, intossicano la coscienza oltre che la vita della nostra società: da un punto di vista di cultura civile, riflettono e alimentano il razzismo diffuso nella nostra società, mentre in ambito economico consentono a qualche imprenditore senza scrupoli, certo dell’impunità e dell’indifferenza sociale, di sfruttare gli immigrati, identificati ormai socialmente e legalmente come non – persone, svalutando, di fatto, tutto il lavoro salariale a discapito anche dei lavoratori italiani, sia a livello di reddito che dal punto di vista dei diritti, i quali, in particolare per alcune categorie, appaiono sempre più come lontani ricordi.
Ma il quadro non sarebbe completo se non si facesse riferimento ad un ulteriore, fondamentale aspetto della narrazione che la politica e la stampa fanno dell’immigrato: lo stereotipo dell’immigrato delinquente. Questo stereotipo consiste nell’attribuire agli immigrati in maniera esclusiva tutta una serie di micro reati (furti, scippi, spaccio, prostituzione) che, per quanto in costante diminuzione nel nostro Paese, risultano particolarmente odiosi alla popolazione e riempiono quotidianamente le pagine delle testate giornalistiche cartacee e televisive (A questo riguardo cfr. Paola Mollo, Il discorso sull’immigrazione oggi. Analisi socio- e psicolinguistica. In B. Coccia a cura di, La percezione dell’immigrazione in Italia. cit.). Dunque l’immigrato oltre a vivere una condizione di illegalità ontologica, per il fatto stesso di essere immigrato, ne vive una seconda a causa della sua innata propensione a delinquere mettendo così a rischio la sicurezza collettiva e il vivere quotidiano del popolo italiano, noto in tutto il mondo per il rigoroso, pedissequo rispetto delle leggi.
Questa narrazione, resa possibile e particolarmente efficace dalla colpevole complicità di una informazione sempre più prezzolata e accondiscendente al potere e propensa a seguire l’aria che tira piuttosto che a svolgere un rigoroso servizio di informazione, a ben vedere non è casuale; sembra inserirsi perfettamente in un fenomeno socio – politico particolarmente evidente in questi ultimi tempi: il ribaltamento del conflitto sociale. Da sempre le lotte sociali di rivendicazione di diritti e di protesta si sono svolte partendo dai ceti sociali più svantaggiati contro la classe dirigente, politica ed economica, ritenuta responsabile delle condizioni di malessere economico e sociale delle fasce più povere della popolazione.
Oggi non è così. Grazie a slogan efficaci e a una narrazione distorta della realtà è prevalsa la tesi che se manca il lavoro è colpa degli immigrati che ce lo rubano, se mancano le case popolari è colpa degli immigrati che le occupano o che le hanno legittimamente attribuite dagli enti preposti a scapito degli italiani, se il trasporto pubblico non funziona è colpa degli immigrati che non pagano il biglietto…. e potrebbe seguire un lungo elenco di esempi. Insomma, la rabbia di chi sta male è sapientemente indirizzata contro chi sta peggio. Per cui, se manca il lavoro non è colpa di una classe dirigente che negli ultimi decenni ha tutelato solo i propri interessi, politici ed economici (in termini di consenso elettorale e di profitto) a discapito dei lavoratori, piuttosto che mettere in atto politiche di sviluppo economico e produttivo in grado di generare un mercato del lavoro vitale e in grado di valorizzare la forza lavoro presente nel nostro Paese, ma è colpa degli immigrati. Se le famiglie più disagiate non riescono a permettersi un alloggio non è colpa degli amministratori locali che da almeno vent’anni non riescono a varare un piano serio di edilizia popolare e che gestiscono in maniera per nulla trasparente quella esistente, è colpa degli immigrati. Se il trasporto pubblico non funziona non è colpa dei medesimi amministratori che per incapacità non riescono a gestire la rete dei trasporti urbani, è colpa degli immigrati.
In questo contesto socio culturale nel quale sempre più si alimenta una sorta di guerra tra poveri che vede soccombere quelli posti in una condizione di maggior debolezza, anche giuridica, è veramente difficile immaginare un lineare processo di integrazione degli immigrati, e a (quasi) nulla servono gli accurati studi sulla imprenditoria immigrata che dimostrano la volontà e la capacità degli immigrati di inserirsi nel tessuto economico e sociale del nostro Paese senza togliere niente a nessuno ma contribuendo piuttosto allo sviluppo dell’imprenditoria italiana (Preziosi in questo senso gli annuali dossier del Centro Studi e Ricerche Idos Rapporto immigrazione e imprenditoria), a nulla servono gli studi dell’INPS che più volte hanno rivelato come proprio gli immigrati sostengano, in questa congiuntura economica, il sistema previdenziale italiano, a nulla servono le tante, belle storie di integrazione riuscita, di famiglie straniere che da anni vivono in Italia perfettamente integrate. La cultura dominante ci dice che gli immigrati sono un peso, un aggravio per la nostra economia e per la nostra società, che non ce ne possiamo fare carico e che dobbiamo assolutamente impedire che arrivino nel nostro Paese.
Questo atteggiamento di colpevolizzazione del più debole in realtà non è per nulla originale, già nel I secolo Fedro narrava la celebre favola Il lupo e dell’agnello nella quale un lupo, volendo magiare un agnellino, prima lo accusa di inquinargli l’acqua del fiume nel quale sta bevendo, ma in realtà l’agnello era a valle lungo il corso d’acqua, allora lo accusa di aver parlato male di lui sei mesi prima, ma il povero ovino obietta che sei mesi prima non era ancora nato, spazientito il lupo dice che certamente sarà stato il padre a parlar male di lui e lo divora. La conclusione di Fedro è lapidaria: Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono gli innocenti con falsi pretesti.
Conclusioni
Ebbene, il tema dell’integrazione non attiene solo ai principi umanitari o al “buonismo” che viene imputato a tutti coloro provino a fare un ragionamento sensato su questo argomento. È una questione che riguarda il futuro dell’Italia e dell’intero continente europeo, che riguarda proprio quella identità che qualcuno, rifiutando gli immigrati, vorrebbe difendere e che in realtà nega.
Quell’identità europea fondata sul riconoscimento e la difesa dei diritti fondamentali, sulla creazione, nei secoli, di quello stato sociale attento alle esigenze e alla tutela dei più deboli, sulla teorizzazione dello jus migrandi formalizzata dal teologo Francisco de Vitoria presso l’Università di Salamanca già nel 1539, sulla comune cultura nata, appunto, dall’incontro di culture diverse, dall’incontro tra la filosofia greca e la scienza giuridica e amministrativa romana, dall’integrazione tra giudaismo e cristianesimo e, più recentemente, dal dialogo tra le tre religioni monoteiste e, in fine, sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Questa è l’identità che ha reso esemplare l’Europa nel mondo e questa l’identità che oggi è rinnegata da politiche e atteggiamenti di rifiuto ed emarginazione dell’altro. Il futuro, come il passato, dell’Europa è affidato alla capacità delle nostre società di integrare persone provenienti da culture e credo religiosi diversi, questa è la sfida che ci attende e non è certo abrogando alcuni articoli di qualche legge sull’immigrazione particolarmente odiosa che potremo affrontarla. Dobbiamo piuttosto svolgere una profonda azione di conversione culturale nelle nostre società, e in noi stessi. Non è solo questione di cattive leggi perché queste, come abbiamo visto, spesso non sono altro che il riflesso di una cattiva società. Le migrazioni non sono un accidente temporaneo, sono uno degli elementi costitutivi del genere umano che sempre ha migrato e sempre migrerà.
Sorprende che proprio il popolo italiano, storicamente e attualmente popolo di emigranti (ad oggi siamo l’ottavo Paese al mondo per emigrazione), sia divenuto così poco pronto all’accoglienza e all’integrazione. Certamente il cammino per arrivare ad una piena integrazione degli immigrati sarà lungo e tortuoso, subirà delle battute d’arresto e troverà ostacoli d’ogni tipo ma resta l’unica strada, per quanto stretta e disagiata, per rimanere veramente fedeli alla nostra identità di esseri umani e di cittadini europei.
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Il contributo è una versione leggermente rivista del testo: Coccia B., Di Sciullo L. "L'integrazione dimenticata. Riflessioni per un modello italiano di convivenza partecipata tra immigrati e autoctoni", Istituto San Pio V e Idos, Roma 2020.