Porti chiusi, porte aperte
La cosiddetta crisi dei rifugiati, in Europa, si è tradotta in un inasprimento delle politiche di controllo e di reazioni pubbliche di taglio xenofobo, ma ha anche generato nuovi spazi per una faccia diversa dell’Europa contemporanea: quella, forse minoritaria ma sempre più visibile, della solidarietà e dall’accoglienza “dal basso”. A partire dal 2015, in diverse città europee si sono sviluppate nuove esperienze di sostegno a migranti e rifugiati, gestite direttamente dalla società civile o da semplici cittadini. Certamente la solidarietà ai rifugiati non rappresenta un fenomeno nuovo in Europa. E molte di queste iniziative sono sorte in seguito alla diffusione mediatica di immagini iconiche, come la foto del piccolo Alan Kurdi al ritrovamento del suo corpo senza vita su una spiaggia turca. In questo senso, diverse analisi hanno messo in luce la natura fragile di queste mobilitazioni, spesso ancorate a reazioni emotive di stampo compassionevole, piuttosto che a un effettivo riconoscimento dei diritti umani delle persone coinvolte.
Tuttavia, in un contesto di crescente ostilità e sospetto verso migranti “economici” e “forzati”, il diffondersi di atti di solidarietà concreta a loro favore – dalla distribuzione di cibo e beni di prima necessità, all’ospitalità domestica – ha rivelato tutta la tensione tra l’approccio ufficiale e gli atteggiamenti più complessi ed eterogenei delle persone “comuni”. Non a caso, molti di questi atti di solidarietà sono stati stigmatizzati – se non apertamente perseguiti - da governi come quello italiano, principalmente con l’obiettivo di arginare pratiche di supporto ai movimenti secondari di migranti all’interno dello spazio europeo. Tuttavia, è evidente come dietro questi conflitti, esemplificati dalla criminalizzazione delle attività di soccorso portate avanti da società civile e organizzazioni umanitarie nel Mar Mediterraneo, la posta in gioco sia più alta. Se da un lato gli atti di solidarietà pro-migranti riguardano soltanto una minoranza della popolazione europea, essi hanno un portato simbolico molto più significativo del loro specifico impatto materiale.
Nel caso italiano, l’aumento degli sbarchi e la diffusione di una certa ansia collettiva verso l’immigrazione hanno aperto la strada – ancora una volta – a coalizioni politiche apertamente ostili al fenomeno migratorio. In questo contesto va inserita l’ascesa al potere nel 2018 della Lega - Salvini premier e la sua politica aggressiva di controllo dell’immigrazione, incentrata sulla proclamazione del blocco degli sbarchi (“porti chiusi”) e dell’aumento dei rimpatri. Tuttavia, questo scenario oscillante tra malcelata ostilità e xenofobia galoppante ha innescato contro-reazioni capaci di rimettere in discussione la narrazione dominante. Tra queste figurano proprio le esperienze di ospitalità domestica, ovvero l’ospitalità di rifugiati presso abitazioni di comuni cittadini, spesso attivata attraverso la mediazione di ONG, associazioni religiose o enti locali.
L’ospitalità domestica di rifugiati rappresenta un fenomeno numericamente circoscritto. Tuttavia, in un contesto in cui lo spazio nazionale tende a essere percepito e rappresentato come una homeland da difendere contro presunti invasori, l’atto di aprire le porte di casa propria a un estraneo assume connotazioni fortemente simboliche e potenzialmente sovversive. Nel nostro recente studio delle percezioni e rappresentazioni di chi si impegna nell’ospitalità domestica di rifugiati (Boccagni e Giudici 2021 ), abbiamo potuto constatare, in accordo con altre ricerche, che tra le motivazioni principali di questo genere di scelta c’è proprio il tentativo di reagire a un clima escludente. Come ci racconta un’operatrice sociale impegnata in progetti di accoglienza in famiglia a Bologna:
Le persone che si candidano per questo progetto sono persone che pensano: “Tu mi dici: Perché non te li prendi a casa tua? E io me li prendo!” Paradossalmente nel 2016 e nel 2017 abbiamo ricevuto solo una ventina di candidature. Ma dopo le elezioni del 2018 c’è stato un boom di richieste. Negli ultimi mesi riceviamo anche 2 o 3 candidature a settimana. Questo progetto dà voce a una parte completamente diversa del paese. (Marta, 35 anni, Bologna).
Le esperienze di ospitalità nella propria abitazione traslano l’accoglienza dalla sfera pubblica allo spazio intimo del domestico. Esse ci parlano dunque di riconfigurazioni quotidiane delle rappresentazioni e dei confini di “casa” – chi ha titolo ad appartenere ad un determinato luogo e chiamarlo casa. In questo senso, l’ospitalità domestica per i rifugiati ha valenza multi-scalare. Parte dal livello micro delle interazioni quotidiane per arrivare a decostruire il livello macro dei confini nazionali del “noi”, contrapposto a un immaginario “loro”.
Le esperienze di ospitalità domestica non sono certamente prive di ambivalenze o implicite tensioni. La convivenza, benché temporanea, richiede adattamenti significativi sia per chi ospita sia per chi viene ospitato. Si rende inoltre necessaria, per gestire la convivenza quotidiana, una progressiva decostruzione degli immaginari reciproci. Da un lato, le famiglie che accolgono sono spesso motivate da una forte spinta ad aiutare chi è in una situazione di bisogno. D’altro canto, i rifugiati ospitati sono nella maggior parte dei casi ragazzi giovani, con una vita autonoma e indipendente e quindi spesso non corrispondenti ad un immaginario di vittima in cerca di aiuto. Tuttavia, e proprio per questo, le esperienze di ospitalità domestica non rappresentano semplici atti caritatevoli nei confronti di estranei. Sebbene si inseriscano in relazioni forzatamente asimmetriche, le esperienze di ospitalità si sviluppano attraverso un complesso articolarsi di aspettative e bisogni reciproci e prendono la forma di relazioni aperte e non predeterminate.
In definitiva, l’ospitalità domestica permette ai rifugiati di varcare la soglia di casa in senso sia letterale che metaforico. In questa prospettiva l’accoglienza in casa esprime una significativa contro-narrazione, rispetto ai fondamenti materiali ed emotivi della propaganda anti-immigrazione. Trasformando lo spazio intimo del domestico in una risorsa di solidarietà, l’ospitalità dei rifugiati sovverte dal basso le tendenze domopolitiche, ovvero le rappresentazioni ideologiche della nazione come uno spazio intimo e domestico di appartenenza omogenea, contrapposto ad un esterno caotico e minaccioso. Nonostante i limiti e le asimmetrie che la caratterizzano, l’ospitalità domestica può concorrere a (ri)politicizzare la questione dell’asilo, anche al di là della consapevolezza dei suoi protagonisti, proiettando anche una nuova e diversa luce sulla questione dell’integrazione.