Quando i dispositivi di controllo generano politiche razziali
Le ambiguità del discorso pubblico sull’“integrazione” sono ben introdotte nel testo di Sebastiano Ceschi attraverso una serie di temi e fatti che caratterizzano la retorica politica e pubblica su questo argomento .
La prima ambiguità, di tipo concettuale – che si connette al discorso sull’identità – riguarda il fatto che le società locali, e le culture, si trasformano costantemente ed ogni ostacolo o asimmetria che condiziona il flusso dei significati (saperi, tecniche, valori) non può che rallentare l’integrazione, al stesso tempo contrastando il percorso di aggiustamento degli ambiti critici che caratterizzano le economie e le società locali, i “mercati particolari” che caratterizzano i sistemi produttivi locali (Becattini, G., 1997, Totalità e cambiamento: il paradigma dei distretti industriali, Sviluppo locale, 4, 6, pp. 75-94.).
Quindi, se le società e le economie si trasformano attraverso l’integrazione di innovazioni (diversità) e la loro (ri-)collocazione all’interno di modelli di organizzazione, gestione, controllo, dei processi economici così come delle dinamiche sociali, allora è evidente che l’ideologia che ostacola l’integrazione si colloca al di fuori dei processi di cambiamento della società e, semmai, rappresenta e tutela la conservazione del potere, istituendo dispositivi di controllo, e utilizza la retorica dell’identità con l’intenzione di conservare le rendite di posizione che si collocano negli incroci tra burocrazia, politica e alcune componenti dell’economia (le meno innovative).
La seconda ambiguità è anch’essa concettuale ma assume una maggiore connotazione politica; essa riguarda il contrasto tra la dimensione locale e quella “nazionale”. È nei luoghi che emergono in modo sensibile gli effetti della globalizzazione dell’economia, ad es.: il dislocamento della produzione dei beni dai luoghi del loro consumo, la frammentazione della famiglia in unità individuali; nodi critici che possono essere sciolti o allentati grazie al contributo dei migranti, con la loro presenza, prossimità, cultura, lavoro. Al contrario l’ambito dello Stato, che ha costruito, in questi ultimi 20 anni almeno, un complesso dispositivo che condiziona fortemente l’integrazione, in primo luogo sul piano della cittadinanza, costituisce il punto eticamente più basso del discorso (e della pratica) dell’integrazione.
Partire dai luoghi è la strategia che caratterizza l’approccio dell’antropologia, ma che riguarda anche una parte della discussione e delle pratiche che sono promosse dalle politiche di sviluppo (Barca, Fabrizio, Philip McCann, and Andrés Rodríguez-Pose 2012, The Case for Regional Development Intervention: Place-Based Versus Place-Neutral Approaches, Journal of Regional Science 52(1):134-152.). È nei luoghi che si manifestano concretamente gli effetti della globalizzazione – e le contraddizioni dell’ideologia che, da un lato, reclama(va) il libero mercato e, allo stesso tempo, ne ignora o mistifica le responsabilità rispetto alle crisi economiche, politiche e militari, ambientali che sono alla base dei movimenti dei migranti.
Il contributo che introduco nel dibattito stimolato dal testo di Sebastiano Ceschi riguarda il contesto di ricerca che ha caratterizzato tutta la mia carriera di ricercatore: quello dei distretti industriali, il loro radicamento territoriale e la loro proiezione globale, la trasformazione di questi territori a seguito della globalizzazione dei mercati e dei flussi migratori, ed in particolare dei percorsi migratori dei cittadini cinesi in Italia.
I due passaggi retorici che trovo particolarmente efficaci sono quelli che fanno riferimento, da un lato, al dispositivo selettivo dell’integrazione e della cittadinanza – ovvero la costruzione di un complesso sistema di barriere politiche e giuridiche all’integrazione che sono prodotte a varie scale territoriali, indifferentemente dal colore politico di chi governa, sulla base di un immaginato interesse nazionale o persino identitario; dall’altro, il richiamo che Ceschi fa ad un effetto culturale – cognitivo – prodotto dalla presenza dei migranti nelle nostre società locali, ovvero, l’effetto specchio sulla società di destinazione, che stimola la produzione di spiegazioni narrative sulle situazioni della vita sociale e sui nostri comportamenti, spiegazioni che sono costantemente ostacolate della retorica politica.
Il dispositivo di controllo
Il dispositivo ha come funzione quella di fornire una risposta a un’urgenza specifica; esso esprime un orientamento strategico concreto: la “manipolazione dei rapporti di forza […] sia per orientarli in una certa direzione, sia per bloccarli o per fissarli e utilizzarli” (Agamben, G., 2006, Che cos’è un dispositivo, Roma, Nottetempo.).
Partiamo, dunque, da un caso concreto, la campagna dei controlli per il contrasto della cosiddetta “criminalità economica”, che inizia formalmente a Prato nel 2007 con il primo Patto sulla sicurezza (“Patto per Prato Sicura”) sottoscritto dal Sindaco, dal Presidente della Provincia di Prato, il Presidente della Regione Toscana, il Prefetto di Prato e il vice Ministro dell’Interno. L’articolo 8 del Patto si riferisce esplicitamente alla “criminalità economica”; questa si identifica con quei comportamenti che ostacolano in modo illecito i meccanismi della libera concorrenza, ed in particolare: la contraffazione dei marchi e dei brevetti; l’irregolare circolazione del denaro; lo sfruttamento dei lavoratori senza permesso di soggiorno. Il Patto viene rinnovato nel 2013 e propone nuovamente il tema del controllo della “corretta competitività” nei mercati del lavoro e delle imprese come uno degli obiettivi centrali della propria azione: “in Provincia si è ormai consolidata la presenza di un sistema di aziende a conduzione straniera […] che si alimenta della forte integrazione tra famiglia, territorio ed attività economica e la cui auspicabile corretta competitività è tuttora viziata da diffuse pratiche illecite, quali l’impiego di manodopera clandestina, l’inosservanza degli oneri previdenziali e delle norme sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, l’evasione fiscale”.
L’incendio nella Confezione “Teresa Moda” a Prato introduce una forte accelerazione nelle politiche della sicurezza nei luoghi di lavoro. La mattina di domenica 1 Dicembre 2013, intorno alle sette, un incendio divampa all’interno di un capannone di Via Toscana, nel Macrolotto 1, un’area industriale a sud della città. Oltre alle merci e alle macchine, lo spazio interno al capannone era occupato da un soppalco sul quale erano state ricavate alcune piccole stanze di cartongesso che erano usate dai lavoratori per riposarsi o dormire nelle pause dal lavoro (Revelli, M., 2016, Non ti riconosco. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia, Torino, Einaudi.). Le vittime – sette – sono morte asfissiate dal fumo che ha riempito velocemente ogni tentativo di trovare la via d’uscita. Un fatto tragico che crea un forte impatto nell’opinione pubblica internazionale (Krause e Bressan 2014) e che avviene nello stesso anno del crollo, a Dacca in Bangladesh, del “Rana Plaza”, un edificio di otto piani che ospitava numerose imprese di confezione conto terzi che lavoravano per i grandi marchi occidentali, che causò oltre un migliaio di vittime.
A pochi giorni di distanza la Giunta Regionale toscana si mobilita per promuovere “maggiori livelli di sicurezza sui luoghi di lavoro e maggiore tutela della dignità e della salute dei lavoratori” (Decisione n. 5 del 16 Dicembre 2013). L’approccio territoriale è fin da subito più ampio di quello strettamente pratese; la Giunta individua nella Direzione Generale “Diritti di cittadinanza e coesione sociale” il soggetto che dovrà predisporre un “piano straordinario che potenzi in modo significativo le attività di controllo e vigilanza in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro”, coinvolgendo tutte le aziende sanitarie della cosiddetta “Area Vasta Centro” (Prato, Firenze, Empoli, Pistoia). In breve tempo la Regione individua una serie di azioni da intraprendere o rafforzare, trova le risorse (circa dieci milioni di euro, perlopiù destinati all’assunzione di 74 tecnici di prevenzione) e approva il “Piano triennale straordinario di interventi in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro” (allegato 1 alla DGR n. 56 del 28 Gennaio 2014). Già a fine Maggio 2016 i tecnici di prevenzione dell’ASL avevano realizzato (a partire dal Settembre 2014) ben 5.826 controlli, di cui oltre 3.000 a Prato, dove erano risultate non in regola circa il 77% delle imprese controllate; 1.599 nel territorio fiorentino, dove quelle non in regola erano una percentuale sensibilmente più bassa, il 39%, le restanti tra Empoli e Pistoia.
Dopo quasi dieci anni dal primo “Patto per Prato sicura” i controlli si sono progressivamente estesi a tutta l’area metropolitana. Se nella fase iniziale, quella del Patto pratese, si poneva l’accento sulla criminalità economica e sulla concorrenza sleale, il Piano regionale, oltre a estendere l’ambito territoriale di intervento, dichiara di intervenire sui profili di rischio per la salute e sicurezza: dormitori abusivi, impianti elettrici e bombole di gas; tuttavia la totalità dei controlli effettuati ha riguardato esclusivamente le imprese cinesi. Un pericoloso artificio che limita l’azione di controllo delle condizioni di sicurezza sul lavoro alle sole imprese cinesi, pur mantenendo, nel nome del dispositivo, un orientamento “universale”, ma, nei fatti, esprime un orientamento fortemente etnicizzato dei controlli; per essere più espliciti possiamo affermare che il “dispositivo toscano” mette in atto una politica razziale.
In pochi anni le istituzioni dello Stato – locali e centrali – hanno costruito un complesso dispositivo di controllo, fatto di ordinanze, protocolli, patti e delibere, ma soprattutto di azioni e pratiche ispettive e di polizia. Un percorso accompagnato da un significativo ricorso a una retorica, alimentata dall’opinione pubblica locale e di riflesso nei media globali, che insiste sull’illegalità in economia e nelle relazioni di lavoro in uno dei più importanti distretti industriali italiani.
Il dispositivo “toscano” assume progressivamente una particolare funzione, quella di intervenire nei meccanismi di concorrenza nei mercati particolari della subfornitura (che alimenta il mercato globale dell’abbigliamento e della moda), nelle modalità di lavoro e nella dimensione della sicurezza dei lavoratori. Un arduo tentativo di governare, a partire da un luogo, una dimensione, come quella della concorrenza nei mercati, sempre più lontana dal dominio degli attori locali. Le stesse forze economiche e sociali sono consapevoli della scarsa efficacia degli strumenti classici di regolazione delle relazioni industriali e, impotenti, si affidano al dispositivo di controllo e ai suoi attori per affrontare gli stessi problemi che 50 anni prima avevano gestito con la concertazione, le politiche sociali e della casa, la costruzione di economie esterne localizzate (depuratori, interporti, scuole e asili, ecc.) e servizi reali alle imprese (Brusco, S. 1989, Piccole imprese e distretti industriali, Rosenberg & Sellier, Torino.).
L’effetto specchio
E veniamo all’effetto specchio. L’effetto di straniamento o dislocazione (Sennett, R. 2014, Lo straniero. Due saggi sull’esilio, Feltrinelli, Milano. ) che può cogliere la nostra cultura quando uno stimolo inatteso ci porta a riflettere sul nostro passato a partire da eventi contemporanei. L’antropologia della crisi ha evidenziato come la subalternità sia un concetto plurale, specie all’interno di uno spazio globalizzato – come quello in cui si organizza la produzione dell’industria dell’abbigliamento. Uno spazio in cui convivono gruppi di lavoratori subalterni e precarizzati, così come gruppi di piccoli imprenditori, sia italiani che cinesi, compressi nelle dinamiche dei mercati internazionali. Una forma di subalternità che assume rilevanza anche nella prospettiva temporale. L’espressione “eravamo noi i cinesi d’Europa”, che compare nei discorsi degli artigiani ed operai tessili a Carpi (Barberis, E., 2011, Imprenditori cinesi in Italia. Fra kinship networks e legami territoriali, Mondi Migranti, 2, pp. 101-124.), così come tra lo stesso tipo di attori del distretto del mobile in Brianza (Ghezzi, S., 2016, La crisi viene da lontano. La fine di un sapere artigianale nell’industria del mobile d’arte in Brianza, in D’Aloisio, F. Ghezzi, S., a cura di, Antropologia della crisi. Prospettive etnografiche sulle trasformazioni del lavoro e dell’impresa in Italia, Torino, L’Harmattan.), e che ho personalmente raccolto anche a Prato, rimanda a una forma di subalternità nei circuiti del mercato globale che emerge in luoghi, tempi e gruppi sociali diversi. Gli ex artigiani od operai dei distretti industriali italiani con questa espressione intendono affermare che un tempo sono stati subalterni così come oggi lo sono i migranti cinesi.
In molti casi, nello spazio e nel tempo, i percorsi di sviluppo economico dei territori sono stati caratterizzati da questo tipo di competizione tra i sistemi produttivi regionali europei: da una parte quelli che, anche grazie a pratiche diffuse di autosfruttamento del lavoro – presenti ben prima dell’arrivo dei migranti cinesi, così come la “logica dell’esenzione” dalle tasse (Arrighetti, A. e Gilberto Seravalli 1999, Istituzioni intermedie e sviluppo locale, Donzelli, Roma), - conquistano spazi di mercato; dall’altro, territori che subiscono lo spiazzamento competitivo delle proprie produzioni ed escono progressivamente da quei mercati. In alcuni casi, questi processi avvengono nello stesso tempo e luogo, tra gruppi diversi di imprese e lavoratori in competizione tra loro. La diversità nelle forme di subalternità è in gran parte un fenomeno culturale. Come ci ricorda Amalia Signorelli, esiste una stretta relazione tra la varietà delle forme culturali e la stratificazione sociale. Le differenze culturali, “oltre che per la distanza geografica e la separazione storica, si producono anche in relazione alle differenze di classe” (Signorelli, A., 2015, Ernesto de Martino. Teoria antropologica e metodologia della ricerca, Roma, L’Asino d’oro.). Se vogliamo parafrasare: cinesi si diventa; oppure lo si è stati in un momento in cui si aspirava a diventare altro.
Lo straniamento prodotto dall’effetto specchio si traduce in valore: un valore basato sul riflesso [attraverso lo specchio]; un valore attribuito da chi osserva in quanto parte della cosa vista, oltre che un valore conferito allo spazio fisico e sociale che cambia velocemente intorno a noi. L’integrazione dei migranti, come scrive Ceschi, ci parla di noi stessi, della nostra storia e della nostra cultura, e in questo modo può stimolare la nostra consapevolezza sui processi economici e politici che condizionano la nostra azione.