Verso una società inclusiva e non divisa

Vittorio Lannutti
Docente di Sociologia generale presso l’università Politecnica delle Marche

Il contesto italiano in cui si inquadra la gestione dei migranti è quello di una società per sua natura tendenzialmente divisa, basta pensare alla fatica che hanno fatto negli ultimi cinque decenni coloro che hanno lottato per affermare i diritti su importanti questioni sociali quali l’aborto, il divorzio, l’emancipazione dei diversamente abili e delle persone con disagio psichico.

Il fenomeno migratorio dunque è una delle più importanti cartine di tornasole della società italiana, in quanto il modo in cui viene gestito è intriso di una molteplicità di divisioni, a volte anche trasversali, presenti in tutti i livelli: sociale, politico, amministrativo.

Da almeno trent’anni in tutta la società italiana enti locali e del terzo settore e mondo della scuola e della sanità hanno realizzato e stanno realizzando progetti volti all’integrazione dei migranti, supportati anche da una ormai foltissima letteratura scientifica. Tuttavia, se parte della società italiana intende ancora l’integrazione esclusivamente come processo di adattamento unilaterale da parte dei nuovi arrivati, evidentemente le politiche di integrazione non hanno funzionato come avrebbero dovuto. Ecco dunque emerso un importante elemento di divisione, che interseca il livello politico e quello della gestione: da un lato chi ‘dal basso’ si è prodigato e si sta prodigando per far sentire i migranti ‘a casa loro’ e dall’altro chi ‘sta in alto’, che non è stato finora in grado di pensare e attuare politiche migratorie virtuose e volte all’integrazione. Tuttavia, questa dicotomia è molto più trasversale, perché molti amministratori degli enti locali pur di avere un minimo di esposizione mediatica si sono lanciati in affermazioni e in scelte politiche discriminatorie e incostituzionali.

I tanti progetti implementati per favorire l’integrazione dei migranti, moltissimi dei quali finanziati dal Ministero dell’Interno, hanno messo in luce i problemi arrecati dall’implementazione di una gestione autonomista delle politiche di welfare avviatasi con la riforma dell’articolo V° della Costituzione. In particolare, per quanto riguarda le politiche d’integrazione dei migranti, uno dei principali problemi provocati da questa riforma ha riguardato le differenze territoriali nell’erogazione di servizi e di risorse umane, anche all’interno di uno stesso territorio provinciale. In questo modo si è aperto un nuovo fronte nell’ambito delle disuguaglianze nell’accesso ai servizi di welfare.

Le autorità locali, proprio grazie al fatto che hanno contatti costanti e continui con i migranti, sono potenzialmente coloro che conoscendo meglio di chiunque altro il territorio che governano, hanno la possibilità di promuovere percorsi di integrazione la cui costruzione dovrebbe essere condivisa con gli stessi beneficiari, cosa che si verifica non frequentemente (Barzuli, Campomori, Casula, 2020). I tanti progetti e le tante esperienze, dunque, non sempre hanno insegnato che non solo vanno ascoltate le reali esigenze del migrante stesso, ma che questo andrebbe sempre percepito nella sua complessità e in maniera olistica. In troppi casi, infatti, è emerso il problema della frammentarietà delle iniziative, seppur virtuose, per cui si è verificato un problema di mancanza di ottimizzazione di risorse. Nonostante le pratiche risultino di buon impatto ed efficaci, la conseguenza di questo tipo di dinamica è un basso potenziale di sostenibilità e di integrazione, a causa della loro dipendenza da fondi una tantum più che da un piano strategico a lungo termine ben strutturato. Ciò è causato anche da un approccio neoliberista, che si esplicita nella logica dei bandi, dunque con servizi forniti soltanto con i progetti che, per loro natura, determinano tanto la precarietà dei lavoratori, quanto quella del servizio stesso. Tenendo sempre conto della posizione privilegiata che hanno le autorità locali rispetto alla conoscenza del territorio, vanno necessariamente considerate le difficoltà vissute dagli operatori (assistenti sociali, operatori sociali, educatori, personale sanitario e scolastico, in altre parole quelli che Lipsky ha definito street level bureaucrats) spesso schiacciati tra il martello delle politiche migratorie nazionali e/o comunitarie e l’incudine rappresentata dalla fragilità di cui è portatore il migrante in difficoltà. In un ragionamento sull’integrazione non può dunque mancare una riflessione anche su come questi operatori provano a resistere all’inasprimento delle politiche di accoglienza, per garantire ai loro beneficiari almeno i diritti essenziali.

Nell’interpretazione dell’immigrazione come cartina di tornasole, un altro elemento da considerare riguarda il ruolo della società civile rispetto alle carenze di welfare provocate o non soddisfatte dall’attore pubblico, che questa riesce a colmare o con gli stessi progetti o con il puro volontariato, con tutti i limiti che quest’ultimo comporta nel medio termine.

La divisione che interseca invece i livelli politico e sociale negli ultimi anni è stata caratterizzata dalla radicalizzazione che partiti di destra e Movimento 5 Stelle hanno portato avanti nella cosiddetta ‘criminalizzazione della solidarietà’. Tuttavia, non vanno sottaciuti i gravi errori del centro-sinistra: dal mancato coraggio per abolire la Bossi-Fini e per far approvare una virtuosa riforma della legge sulla cittadinanza, almeno per i minorenni, al decreto Minniti-Orlando, precursore dei decreti sicurezza di Salvini. Queste dinamiche hanno alimentato un’importante spaccatura nell’opinione pubblica italiana, favorendo la radicalizzazione del conflitto, i cui indicatori più emblematici sono stati da un lato la mancata strage di Macerata, ad opera di Luca Traini, che il 3 febbraio del 2018 dalla sua macchina esplose diversi colpi di pistola con l’intenzione di uccidere immigrati africani, ferendone sei, in seguito all’omicidio di Pamela Mastropietro e, dall’altro, le tante manifestazioni di solidarietà e di accoglienza e una rinnovata voglia di partecipare ad iniziative che sostengono l’accoglienza. La classe politica e dirigente che fa di tutto per ostacolare e impedire processi di integrazione dimostra di non avere una vision, una prospettiva, un orizzonte di senso e soprattutto un’idea di società, che non può non essere inclusiva, alla luce dei cambiamenti climatici in atto e dei conflitti internazionali.

La classe politica e dirigente ostile all’integrazione e all’emancipazione dei migranti è evidentemente incapace di assumere un atteggiamento relativista e predisposto al mutamento sociale e all’empowerment, che renderebbe la società italiana più inclusiva. Inoltre, un approccio di apertura potrebbe trasformare il nostro paese in un importante laboratorio, nel quale sperimentare per giungere ad un modello internazionale sulle politiche volte all’integrazione, dato anche l’elevato numero di nazioni e di culture rappresentate dagli oltre 5 milioni e 300mila cittadini stranieri legalmente presenti (IDOS, 2020).

Il rapporto con i migranti e con i loro discendenti andrebbe dunque profondamente rivisto, tenendo sempre ben presente la lezione che poco meno di vent’anni ci ha impartito il sociologo bavarese Ulrick Beck, quando ha avuto l’intelligenza di rispolverare e rendere attuale, alla luce delle dinamiche della globalizzazioni e delle migrazioni, il concetto del cosmopolitismo, sottolineando che si dovrebbe passare da un approccio ‘o...o’ a un approccio ‘sia...sia’.

26 Gennaio 2021
di
Sebastiano Ceschi