Vicini, lontani, integrati. Riflessioni sul caso albanese

Gjergji Kajana
Giornalista freelance, Collaboratore Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa

Secondo dati ufficiali del Ministero del Lavoro contenuti nel Rapporto Annuale sulla presenza dei migranti, a inizio 2020 gli albanesi regolarmente soggiornanti in Italia erano 416.703, al secondo posto per numero di presenze tra i cittadini non comunitari. Il 68.8% erano soggiornanti di lungo periodo. Il tasso di occupazione tra i membri della comunità era del 56.2% (Ministero del Lavoro, “La comunità Albanese. Rapporto annuale sulla presenza dei migranti”, 2020). Secondo Unioncamere, al 31 dicembre 2020 le imprese registrate con titolare individuale albanese in Italia erano 34.730, in aumento di 1.436 unità rispetto a fine 2019. La maggioranza opera nel settore costruzioni. Il dinamismo della “business comunity” è in linea con quello di altre comunità straniere (di Marocco, Romania e Cina per esempio, che precedono gli albanesi in questa classifica) e indicatore di una piena integrazione in Italia. La ben riuscita integrazione di questa comunità numerosa dimostra tanto della sua resilienza e capacità di adattamento ma anche delle opportunità che l’Italia può offrire ai stranieri che vogliono accorparsi al suo tessuto sociale.

Nel 1991 l’arrivo massiccio nei porti adriatici dell’Italia Meridionale di decine di migliaia di albanesi in fuga dalla miseria causata in Albania dal comunismo in sfacelo toccò e segnò profondamente l’immaginario collettivo del Belpaese. Si trattava di toccare materialmente la fine della Guerra Fredda e di essere sfidati dalle difficoltà umanitarie che ne derivavano. Chi arrivava era vittima della miseria di un paese isolatissimo e aveva subito il “soft power” culturale dell’Italia tramite le televisioni. Il governo italiano concesse agli arrivati con gli approdi di marzo un permesso di soggiorno temporaneo per compiere le pratiche della richiesta di asilo e per trovare un lavoro, cosa che consentì a gran parte di loro di mettersi in regola con i documenti. Subito dopo però si scelse una linea dura verso chi arrivò da allora in poì. Si nota la deriva della paura che catturò istituzionalmente il trattamento delle migrazioni albanesi: gli arrivi del 1997 (minori in quantità rispetto al 1991) accaderò sotto una luce di timore di infiltrazioni criminali sulle navi, approccio securitario all’origine della collisione al Canale di Otranto che causò l’affondamento della nave “Katër i Radës” e la morte in essa di più di 80 persone. Si mostrò allora in tutta la pienezza l’incongruenza della logica emergenziale del trattamento degli approdi, ciclicamente ripetutasi in un paese come l’Italia toccato fortemente dalle migrazioni - in arrivo da Africa, Asia ed Europa dell’Est- non tanto a causa della sua attrattività economica (persistente ma minore di pochi decenni fa) quanto per l’essere un crocevia geografico nel Mediterraneo. Questa incongruenza impedisce di capire l’impossibilità di arginare i flussi senza una politica di lungo respiro ed europea di progetti di cooperazione con i paesi d’arrivo dei migranti.

Gli albanesi sono storicamente un popolo migrante. Arrivarono in Italia con l’aspettativa di raggiungere in tempi brevi un facile benessere, ma dovettero adattarsi all’etica capitalista del lavoro, sconosciuta in un paese che era passato dai rapporti sostanzialmente feudali del periodo ottomano e della prima metà del ‘900 alla collettivizzazione imposta dal comunismo. La complessivamente riuscita integrazione albanese in Italia è avvenuta tra lavori umili, pericolosi e molto spesso irregolari che gli italiani (come tutti gli occidentali), detentori di diritti sociali ancora invidiabili oltre Adriatico, non svolgevano più in massa. A rendere difficoltoso questo percorso fu lo stigma di criminalizzazione che li marchiò durante gli anni ’90, merce di bassa politica in moda in schieramenti dell’epoca, specialmente a destra. Il trattamento draconiano degli approdi posteriori al marzo del ’91 nasce dalla percezione di avere a che fare con una Albania “stato fallito” che esportava più criminalità della forza lavoro. Questo atteggiamento era connesso con il rafforzamento di gruppi criminali albanesi in Albania e Italia che gestivano traffici di vario genere, ma trascurava i grandi sacrifici economici e sociali della maggioranza schiacciante della comunità, che lavorava e desiderava integrarsi, anche attraverso forme di mimetizzazione nella società ospite (V. Romania, “Farsi passare per Italiani. Strategie di mimetismo sociale”, Carocci 2004). Il processo d’integrazione ha poi subito una accelerazione con l’arrivo di migliaia di studenti albanesi nei primi anni del millennio e con il parallelo e irreversibile percorso di inserimento sociale dei migranti di seconda generazione che frequentano gli istituti scolastici e richiedono al compimento della maggiore età – perché prima è legalmente impossibile - la cittadinanza italiana. L’organizzazione professionale del lavoro in Italia ha dato l’”input” alla nascita - accanto alle associazioni culturali atte al mantenimento e l’insegnamento volontario di cultura e lingua albanese e pubblicazioni giornalistiche aggiornate – di associazioni di avvocati, dottori commercialisti e medici, frutto della esperienza maturata nel percorso d’integrazione. Oltre ad arricchire il panorama socio-professionale in Italia, le associazioni e i professionisti in generale sono un bacino di valore per l’Albania, intenta anche istituzionalmente nell’ultimo periodo ad approfondire i contatti con la sua diaspora. L’esistenza di questo progetto di networking costituisce una palese dimostrazione dell’importanza di interiorizzare gli standard italiani da parte dei cittadini di un paese dove l’organizzazione in associazioni sindacali o professionali è meno marcata.

Gli albanesi in Italia si trovano impegnati nell’avanzare la richiesta di un accordo reciproco di riconoscimento delle pensioni tra Italia e Albania. Una proposta legislativa in tal senso, rafforzata da una petizione online, è già stata depositata in Parlamento.

Le potenzialità della diaspora albanese in Italia come risorsa-ponte per la collaborazione più stretta e strategica tra i due paesi, obbligati da storia, geografia ed economia ad avere una partnership molto stretta, non è stata ancora pienamente sfruttata. La diaspora albanese potrebbe aiutare a ravvivare le relazioni economiche tra le due sponde, inserendosi attivamente in programmi di intermediazione di investimenti già avviati tra governo albanese, AICS e ONU, oppure relazionandosi in un rapporto informativo sull’economia albanese con le camere di commercio italiane. Si profilerebbe così un ruolo da ambasciatore pratico per gli albanesi in Italia, oltre la retorica dell’integrazione avvenuta.

Nella storia gli flussi da paesi economicamente e/o socialmente ed etnicamente flagellati da conflitti sono inevitabili malgrado ogni militarizzazione di menti e confini attuabile. In Italia, adottando un atteggiamento istituzionale improntato al securitarismo (accompagnato da pigrizia nella ricerca doverosa di alleanze a Bruxelles per rendere davvero europea la questione della immigrazione nel Mediterraneo) e burocratismo, si è persa una possibilità di aprirsi con  un orizzonte più pragmatico alle possibilità aperte dal contatto con gli stranieri legalmente residenti ed i loro paesi di provenienza.

L’esempio della integrazione silenziosa degli albanesi però, anche se non supportata da politiche attive in loro favore, come evidenzia Colucci in questo Forum, e segnata dall’impatto visuale e mediatico che ebbero gli sbarchi via Adriatico del 1991 e la visione allarmista degli anni a seguire, dimostra la possibilità che una presunta invasione di lavoratori alla ricerca di dignità si trasformi in insediamento fruttifero (come testimoniato dalla vitalità crescente di “business comunity”, presenza significativa di studenti e professionisti) e costituisce un patrimonio di buone pratiche da estendere. Servirebbe coraggio nell’adottare una legislazione che acceleri l’ottenimento del permesso di soggiorno e il ricongiungimento dei familiari almeno per gli stranieri extracomunitari laureati universitari in Italia. Altresì bisogna insistere, con buonsenso, nella riforma della legge sulla cittadinanza e far sì che resti nell’agenda parlamentare, fino alla risoluzione per legge dell’assurda situazione nella quale bambini italianizzati di genitori arrivati in Italia da stranieri perdono anni preziosi  nell’iter burocratico del compimento della maggiore età per ottenere il passaporto del Paese che meritano di rappresentare, anche legalmente. Certo – e il caso albanese è lì a dimostrarlo – si può raggiungere l’integrazione di una comunità straniera e perfino stigmatizzata malgrado il securitarismo e la burocrazia. Non è giusto, però, spararsi sui piedi rinunciando a armonizzare e a fondere le diversità in una comunità nazionale più ricca possibile e uguale in diritti e doveri condivisi. Non va dimenticato il dato di fatto che i lavoratori stranieri in Italia, per l’essere proni ai sacrifici e in media più giovani della popolazione del paese dove lavorano, pagano all’erario più contributi delle prestazioni monetarie che ricevono. Laddove l’integrazione è di fatto una realtà, spesso positiva e dinamica, il diritto dovrebbe conformarsi di conseguenza.

26 Gennaio 2021
di
Sebastiano Ceschi