Costruire un europeismo d’opposizione
Qualunque dibattito sul destino dell’Europa e sull’agenda degli europeisti deve partire da una domanda sempre più urgente: e se fosse troppo tardi? Anche il contributo di Marco Piantini che ha aperto la discussione qui sul sito del CeSPI ha una premessa non dichiarata, che gli europeisti siano in condizione di guidare i destini dell’Unione europea da posizioni di governo, in patria e nelle istituzioni comunitarie. Questo comincia a non essere più vero a livello di politica nazionale e anche a Bruxelles, dopo le imminenti elezioni europee, molti equilibri saranno riscritti. Certo, forse si passerà dalla grande coalizione che ha retto la spartizione delle cariche all’inizio della legislatura europea precedente a una super-grande coalizione che verrà vista come l’ultima trincea dell’establishment, ma sarà un’illusione di continuità, un simulacro di potere. Riformare l’Europa da dentro un bunker assediato da sovranisti e nazionalisti che in alcuni Paesi come l’Italia sono ormai maggioritari, almeno nel consenso a partiti che recepiscono quel tipo di istanze, è una pericolosa illusione.
Invece che ragionare su un europeismo di governo, è ora di cominciare a costruire un europeismo di opposizione, di battaglia culturale e politica. E’ finita la fase del benign neglect, il consenso per disinteresse degli elettori alle politiche europee. Tweet, libri e apparizioni televisive di folkloristici predicatori anti-euro sono state le gocce che in anni di paziente lavoro sono riuscite a scavare la pietra. Possiamo indulgere in analisi retrospettive o delineare scenari, ma la realtà sta andando a una velocità che non consente pause di riflessione. Questo non significa che siano inutili dibattiti come quello aperto da Marco Piantini, anzi, ma serve la consapevolezza che si svolgono in un contesto mutato. Somigliano più a congiure carbonare di una minoranza ancora battagliera piuttosto che a riflessioni da convegno istituzionale.
Serve un’altra consapevolezza, che gran parte dell’élite sembra non avere affatto: l’assetto istituzionale in cui ci troviamo è solido, più
resiliente del previsto, come ha dimostrato la reazione alla crisi dell’euro tra 2011 e 2012, ma può crollare. Qui nei Paesi della vecchia Europa non riusciamo a immaginarlo perché la nostra esperienza di cittadini, politici o intellettuali si è svolta tutta sotto l’ombrello comunitario, con l’Unione europea come punto di partenza e di arrivo di ogni traiettoria ideale. Ma basta leggere quello che scrivono gli intellettuali dell’Est, come il politologo bulgaro Ivan Krastev con il suo After Europe (2017), per capire che tutto può crollare. Chi ha visto svanire l’Unione sovietica e l’ordine internazionale che aveva costruito sa che certe fragilità sistemiche, certe crepe nelle fondamenta, possono essere sopportate
per decenni ma possono anche determinare tracolli improvvisi. E dopo non finisce il mondo, ma il vuoto istituzionale viene comunque riempito da un nuovo equilibrio, da un ordine che sostituisce quello precedente. Qualunque confronto intellettuale in vista delle prossime elezioni europee del maggio 2019 deve contemplare la possibilità che potrebbero essere ultime. Rimuovere questa ipotesi significa negare la complessità del momento.
C’è una analisi ormai condivisa su cosa è andato storto, che si riassume in quella famosa battuta (apocrifa) di Jean Claude Juncker: “Sappiamo tutti cosa fare ma non come essere rieletti dopo averlo fatto”. I partiti tradizionali, in Italia il Pd, hanno in realtà scelto una linea intermedia peggiore: hanno cercato vie di mezzo, contestando quelle regole di cui però professavano al contempo l’importanza, col risultato che non hanno fatto quello che probabilmente avrebbero dovuto e neppure sono stati rieletti. Le élite hanno (abbiamo) dato tutto per scontato, si sono comportate come se fosse tutto ovvio: l’euro, il mercato unico, la condivisione dei rischi, i limiti d’azione dell’Ue (politica estera, migranti). Col risultato che i predicatori di nazionalismo e sovranismo hanno avuto gioco facile a far passare le proprie interpretazioni e proposte perché, dall’altra parte, non esisteva alcuna contro-narrazione più elaborata di una semplice rivendicazione dello status quo.
E’ dunque troppo tardi, possiamo soltanto limitarci a osservare le conseguenze di scelte troppo a lungo sbagliate? Io credo di no e penso che ci siano margini per costruire un europeismo d’opposizione che si fonda su quattro cardini.
Primo: far leva sugli aspetti irrinunciabili dell’Europa. E’ falsa l’idea che ci sia una contrapposizione tra i sostenitori di una società aperta e chi invece la vuole chiusa. Questo è il momento dell’ascesa dei free rider, di chi vuole i benefici senza i costi, rifiuta l’euro ma vuole un mercato unico in cui esportare grazie a svalutazioni competitive. La vicenda della Brexit dovrebbe essere istruttiva in questo senso, ma per una forma inspiegabile di pudore istituzionale nessuno degli Stati membri o dei vertici comunitari la usa come un formidabile spot anti-sovranista. L’opinione pubblica ha perso la consapevolezza che l’integrazione europea è un pacchetto completo, che certi costi sono da pagare non per un complotto tecnocratico, ma per accedere ai benefici.
Secondo: dalla difesa all’attacco. Gli europeisti finora hanno giocato soltanto in difesa, a protezione di uno status quo minacciato. Non funziona. Serve un’azione comunicativa e politica aggressiva, se si vuole contrastare quello che è diventato il nuovo mainstream sovranista. E la razionalità non basta. In fondo sta succedendo quello che molti europeisti radicali hanno sempre desiderato: l’Europa sta diventando politica. Anzi, per usare la formula di Piantini, è diventata “il minimo comune denominatore del dibattito politico”. E sarebbe assurdo, oltre che stupido, negare che la politica ha una dimensione emotiva, oltre che numerica e argomentata. Nessuno, in Italia, sa cosa abbia fatto Emmanuel Macron in Europa, tutti però ricordano la festa della vittoria con l’inno alla gioia europeo che suona prima della Marsigliese nazionale. Qualunque azione europea non può basarsi soltanto sui think tank. Il doppio binario è quello di bilanciare i messaggi sovranisti (cambiamento può essere anche salto nel buio) e far leva sui benefici dell’integrazione per cittadini normali che cominciano a sembrare a rischio (norme ambientali, tutela dei consumatori, diritti, protezione dei dati personali, protezione sociale).
Terzo: abbandonare una visione olistica. Marco Piantini auspica un soggetto politico che possa rappresentare insieme il giovane operaio di Wolfsburg e il giovane precario del Mezzogiorno. Ma l’ascesa dei populismi passa anche per l’illusione di una omogeneità sociale che permetta una rappresentanza unica e l’assenza di opposizioni e fratture. Anche chi pensa che l'integrazione sia nell’interesse di tutti deve tenere presenti gli interessi contrapposti che inevitabilmente si polarizzano su ogni politica. Non dimentichiamo la lezione del Ttip e del Ceta:
il dibattito è stato lasciato alle lobby che avevano interessi minacciati dai trattati o ai movimenti che vedevano uno spazio politico nell’opporsi ad essi. Gli argomenti del fronte favorevole non si sono sentiti, se non nella declinazione che i due trattati erano nell’interesse di tutti, mentre ci sono sempre vincitori e vinti. Qualunque illusione di omogeneità in Europa rischia di essere controproducente: bisogna riconoscere e ammettere le fratture nella società e tra Stati e costruire coalizioni di interessi trasversali che non abbiamo l’ambizione di aggregare tutti. Il giovane operaio di Wolfsburg forse ha molto poco a che spartire con un calabrese disoccupato, ma quasi certamente ha esigenze simili a un emiliano del distretto della ceramica o a un torinese dell’indotto Fiat.
Quarto: cambiare le facce. Le idee camminano sulle gambe delle persone e i programmi politici su quelle dei leader o anche soltanto dei candidati. Non si può costruire un europeismo d’opposizione con le stesse persone che hanno incarnato l’europeismo egemone fino alla crisi del 2011-2012 e poi a quella dei migranti nel 2015. L’autorevolezza di figure come ex presidenti del Consiglio, ex presidente della Commissione o grandi vecchi è minata dal fatto che qualunque loro perorazione o vaticinio di catastrofi imminenti può sembrare una difesa si assetti di potere ora messi in discussione, una rivendicazione di centralità individuale mascherata da opinione disinteressata. Questo vale per le figure più autorevoli ma a maggior ragione per chi ha semplicemente avuto responsabilità di governo nel determinare risultati che, a torto o a ragione, sono stati giudicati fallimentari dall’elettorato. Servono quindi persone nuove, diverse, che nella scelta europeista non siano sospettabili di calcoli di carriera o difesa del proprio passato. La stagione sovranista è già durata abbastanza da legittimare critiche da parte degli oppositori, dalla Brexit a Trump all’Italia (ma anche alla Grecia con Syriza), gli europeisti di opposizione possono chiedere conto a chi governa delle conseguenze delle scelte fatte. Ma devono essere nuovi europeisti a farlo, non la classe dirigente spodestata che cerca di riconquistare il ruolo perduto.
Costruire un europeismo d’opposizione non è facile e può essere deprimente per chi pensava di essere chiamato a guidare l’integrazione europea da dentro. Ma non c’è alternativa. E’ una sfida impegnativa, forse destinata alla sconfitta, ma anche inevitabile perché - come ci hanno ricordato di recente l’Economist e il libro di Jan Zielonka Controrivoluzione - i liberali europeisti sono i primi a non sapere più per cosa stanno combattendo. E non c’è niente come una buona stagione di opposizione per riscoprire quei valori e quella spinta ideale che si perde quando si sta in maggioranza.