Le tre virtù di cui ha bisogno l'europeismo
Salvare l’Europa dagli europeisti? Forse è un modo un po’ brutale per sintetizzare in una battuta le sette questioni poste da Marco Piantini, ma in fondo il problema che egli solleva è proprio questo: uscire da una narrazione che ha visto nell’Unione europea un dogma e cercare di trovare ragioni per cui le persone possano ancora entusiasmarsi. E’ la stessa attualità politica, del resto, a rendere il tema assolutamente imprescindibile: se le forze antieuropee (che Piantini chiama, correttamente, nazionalismi e demagogie) hanno conquistato un consenso tanto vasto, è anche perché l’Europa ha perso agli occhi di molti la dimensione della prospettiva politica verso cui tendere, e acquisito quella della matrigna a cui dare la colpa se tutto va (o sembra andare) male. Se ciò è accaduto, la responsabilità è in buona misura dell’Europa stessa e degli europeisti, o almeno dei più ingenui tra di loro (tra di noi).
Dietro ognuna delle domande di Piantini c’è, peraltro in modo assai esplicito, una critica alla condotta degli europeisti, e alla loro incapacità di comprendere i movimenti profondi all’interno della nostra società. Ma questo implica anche riconoscere che l’Unione europea non è stata in grado di mantenere tutte le sue promesse, e neppure di comunicare in modo efficace la vastità dei cambiamenti che, a ben guardare, ci sono stati. Potremmo quindi chiamarle non sette domande, ma i sette peccati dell’europeismo. In questo breve contributo, cercherò di fare un passo avanti indicando le tre virtù che l’europeismo dovrebbe perseguire. In buona misura si tratta di considerazioni già presenti nell’articolo di Marco, ma organizzate secondo un criterio differente.
La prima virtù è la fede: gli europei hanno bisogno di credere nell’Europa, ma per farlo non gli si può chiedere un atto di fiducia incondizionata. Occorre ricostruire, o addirittura costruire, una narrazione di quello che l’Unione è ed è stata negli scorsi decenni: di tutti i benefici che ha portato agli europei, senza però nascondere quello che non ha funzionato e senza lesinare critiche per le tante occasioni perse. Le storie di successo dell’Ue non possono limitarsi all’Erasmus – iniziativa lodevole, per carità, che però riguarda fatalmente solo una ristretta minoranza degli europei – o alla libera circolazione delle persone o l’euro stesso. Potersi muovere liberamente tra tutti gli Stati membri e utilizzare un’unica valuta è un’enorme conquista, ma non si può ignorare che ormai intere generazioni non hanno mai conosciuto l’Europa dei passaporti e dei controlli doganali. Occorre continuamente collegare la partecipazione allo spazio europeo coi vantaggi che essa genera, anche quando e se sono più difficili da inserire in una clip o quando i nessi di causalità sono meno ovvi o addirittura contro-intuitivi. Le direttive europee hanno consentito un sensibile e misurabile miglioramento della qualità della vita e dei servizi in molteplici ambiti: energia, telecomunicazioni, trasporti, ambiente, banche, assicurazioni, professioni, digitale.
Tutto ciò ha determinato progressi concreti che impattano direttamente sulla quotidianità di ciascuno di noi, ma raramente gli individui collegano tali miglioramenti tangibili col motore europeo. Questo dipende anche da un’attitudine delle classi politiche nazionali (tra cui certamente quella italiana), che tendono a mettere il cappello sulle misure che percepiscono come gradite dai rispettivi elettorati (lasciando dunque Bruxelles nel proprio cono d’ombra) e puntare il dito contro l’Europa quando invece faticano a giustificare alcune scelte. La retorica del vincolo esterno ha indubbiamente aiutato ad adottare riforme dolorose nell’immediato ma necessarie nel lungo termine, ma ha anche contribuito a far sedimentare l’immagine di un’Europa occhiuta e inflessibile: più autovelox che casa comune, insomma. Sebbene tutti siamo consapevoli dell’importanza dei controlli sulla velocità degli autoveicoli, difficilmente li amiamo, e la tentazione di incolpare il telelaser anziché il nostro piede per la multa è assai difficile da resistere. Allo stesso modo, la continua rappresentazione della Commissione europea come una struttura tecnocratica composta da burocrati – quando invece è l’organo politico per eccellenza dell’Unione – ha rafforzato questa visione. Va pure detto che la scarsa riconoscibilità dei Presidenti e dei Commissari non ha aiutato ad accreditare la percezione della vivace dialettica che anima il lavoro delle istituzioni europee. Il fallimento nel trovare accordi su molte partite cruciali – l’unione bancaria su tutte – ha ulteriormente dissolto quel poco di empatia che, in un passato tanto tanto lontano, pareva essersi creata. Se dunque la fede degli europei nell’Europa si sta incrinando, la risposta deve stare in un nuovo sforzo missionario, che tenti di riallacciare un discorso rivolto alla loro sensibilità, e che aiuti a vedere nell’Europa la base dei tanti progressi che hanno concretamente sperimentato.
E’ difficile chiedere la fede senza offrire speranza. La speranza implica la capacità, la forza e il coraggio di rispondere alla domanda sottostante l’intera riflessione di Piantini: cosa sarà l’Europa del futuro? A tale quesito non si può credibilmente rispondere né prospettando sviluppi inverosimili (l’unione politica) né riducendo l’intero operato dell’Ue a tecnicismi incomprensibili ai più (la Gdpr). Occorre anzitutto riconoscere che su troppi fronti l’azione dell’Unione è stata insoddisfacente o addirittura assente. Ma occorre anche mostrare che in molti altri sono i Governi nazionali a impedire che l’onda delle innovazioni europee arrivi fino ai cittadini. Piantini cita più volte il mercato interno come un orizzonte imprescindibile, e ha perfettamente ragione perché nelle sue varie declinazioni l’integrazione dei mercati ha prodotto enormi guadagni di efficienza e di qualità, ponendo le basi per il progresso economico e sociale. Ma non mancano i casi in cui la resistenza politica a livello nazionale ha elevato dei muri dove la Commissione cercava di aprire delle strade. Pensiamo alla direttiva Bolkestein, che almeno in alcune delle sue dimensioni è stata elusa quando non addirittura tradita o nei fatti disapplicata (le concessioni balneari e mercatali in Italia). Il problema è che, se da un lato gli interessi particolari sono riusciti a costruire una potente contraerea politica e legale, dall’altro gli europeisti hanno fallito nel convincere la popolazione che quella era una battaglia di libertà. Per parafrasare – rovesciandola – la celeberrima battuta di JFK, dovremmo smetterla di chiederci cosa possiamo fare noi per l’Europa, e iniziare a chiederci cosa può fare l’Europa per noi.
Parimenti, dovremmo chiederci cosa l’Europa stia facendo per noi e in che modo possa uscire dal vicolo cieco in cui sembra essersi cacciata. E’ una domanda tanto più rilevante quanto più ci avviciniamo alle elezioni europee del 2019, di fronte alle quali gli europeisti possono essere credibili solo se riscaldati dalla carità. Le risposte possono essere molteplici ma tutte incrociano le grandi questioni ancora aperte su cui i fautori dell’apertura e dell’Unione rischiano di trovarsi a mani vuote di fronte agli europei. Sono moltissime le partite per le quali si fatica a vedere un punto di caduta – l’unione bancaria, l’unione dell’energia, la contrapposizione fuorviante tra condivisione e riduzione del rischio finanziario, la riforma della governance dell’eurozona – dalle quali non si può sfuggire semplicemente evocandone la dimensione tecnica. Occorre offrire una rappresentazione chiara del perché ciascuna di queste decisioni sia cruciale, da cosa possano derivare opportunità e rischi, e quali siano le ragioni per cui i risultati attesi non sono ancora stati raggiunti. Gli elettori sono pronti a comprendere le difficoltà di un processo, ma hanno bisogno di esserne messi a parte, senza indulgere in complessità eccessive ma nel tentativo di agevolare una comprensione almeno pari a quella delle dinamiche politiche nazionali. Se gli italiani (o gli spagnoli, i tedeschi, i francesi, ecc.) sono in grado di farsi un’idea del dibattito attorno alla legge di bilancio, possono anche comprendere i temi politici alla base, per esempio, della regolamentazione del rischio finanziario. E possono capire in quale senso e per quali ragioni – semplificando – italiani e tedeschi hanno interessi contrapposti, gli uni chiedendo la condivisione del rischio e gli altri pretendendone la riduzione. Solo a quel punto si potrà rilanciare proponendo di coniugare l’una e l’altra. Ma bisogna anche onestamente riconoscere, almeno per quanto riguarda il nostro paese, che la piega che ha preso il dibattito pubblico – con gli europeisti a difendere in modo assai poco convinto l’Unione, e i nazionalisti-demagoghi a martellare in modo sempre più violento – fornisce l’alibi perfetto agli avversari di qualunque riforma. Gli italiani, e non è la prima volta, si sono dimostrati i peggiori nemici di se stessi.
In conclusione, di Europa c’è un tremendo bisogno – oggi più che mai – ma gli europei hanno diritto di conoscere quali possano essere gli sviluppi realistici del progetto europeo e perché e in che modo essi possano rappresentare una risposta ai loro bisogni concreti. L’incapacità di offrire una visione coerente e convincente non è una colpa degli europei, ma un fallimento degli europeisti.