L’Unione europea ha un problema di resilienza politica
La riflessione di Marco Piantiti pone questioni urgenti. La quinta questione, dedicata ai toni, alle idee e agli approcci dell’europeismo, merita fuori di dubbio approfondimenti ulteriori. In particolare, ciò che segue è una suggestione dedicata alla resilienza politica dell’Unione europea, e che dunque si interroga se la Ue sia dotata di sufficiente capacità di reazione in grado di difenderne il progetto stesso.
Ha ragione chi, come Sergio Fabbrini, definisce le Elezioni europee 2019 come le più importanti di sempre, almeno da quando a partire dal 1979 i cittadini europei sono chiamati a eleggere direttamente i propri rappresentanti. È anche vero che mai come a questa tornata elettorale l’Europa sarà il vero cleavage, la linea divisoria, l’oggetto di una battaglia tutta politica che vedrà due schieramenti confrontarsi entro due coalizioni più o meno omogenee, che ad oggi hanno ancora non poche difficoltà a tracciare i propri confini ideali. Resta urgente domandarsi se tali schieramenti, i quali con imprecisione concettuale e tuttavia per convenienza intuitiva possiamo ascrivere nell’universo europeista da una parte e sovranista dall’altra, avranno la possibilità, entro l’architettura istituzionale e politica dell’Unione, di misurarsi ad armi pari, disponendo entrambi di piattaforme e strumenti che gli permettano di esprimere al meglio la volontà dei propri elettorati. A mio avviso la risposta è no, poiché l’Unione europea ha un problema di resilienza politica insito nelle sue stesse strutture, per il quale è più facile attaccare il progetto dell’Unione piuttosto che difenderlo. La resilienza politica è la capacità di un’organizzazione di reagire, di mettere in campo contromisure e in ultimo di trasformarsi, in risposta a eventi di disordine interno e esterno provocati da cambiamenti sociali, politici o ambientali, che minano la sopravvivenza dell’organizzazione stessa. Ciò vuol dire che le propulsioni europeiste dell’Unione, siano esse di natura popolare o istituzionale, fanno molta più fatica a far valere le proprie istanze politiche rispetto ai movimenti sovranisti. Per semplificazione, per propulsione europeista si intende la rivendicazione di una Ue più stretta, forte di una sempre maggiore condivisione di competenze con istituzioni in grado di sintetizzare l’interesse europeo. Al contrario, l’istanza sovranista reclama esattamente l’opposto, quindi un esproprio o una negata concessione di poteri a istituzioni comunitarie, a favore di un rafforzamento dei governi nazionali. La nuova struttura intergovernativa dell’Unione, ulteriormente consolidatasi dopo il Trattato di Lisbona e ben teorizzata da Uwe Puetter, Christopher J. Bickerton, Dermot Hodson, vede difatti una concentrazione di potere decisionale negli esecutivi nazionali, grazie a procedure che su più livelli prevedono decisioni prese all’unanimità o su base consensuale dai governi degli Stati membri. Decisioni in materia di migrazione e asilo, bilancio comunitario, sicurezza e difesa, sostegno finanziario, sono tutte vincolate da un sistema incrociato di veti, grazie al quale uno qualunque degli esecutivi nazionali può ostacolare una decisione condivisa dagli altri 27. Un assetto intergovernativo, lento e poco risolutivo, che ha mostrato tutte le sue debolezze all’emergere di movimenti sovranisti, ben in grado di trarne vantaggi elettorali su territorio nazionale. Da notare infatti che le aree di policy poco fa citate sono esattamente quelle da cui sono scaturiti gli eventi eccezionali che hanno provocato le crisi multiple dell’Unione negli ultimi anni, mettendone a prova la resilienza. L’Unione e la sua complessa macchina di governance multilivello non ha quindi avuto la possibilità di offrire alternative a soluzioni intergovernative rispetto a queste problematiche, accertando il successo o meno di contromisure realmente comunitarie. Un tale successo avrebbe potuto in via ipotetica offrire un quadro più chiaro ai cittadini in occasione delle prossime elezioni, chiamati a scegliere con dinanzi i successi e gli insuccessi di due approcci alla politica europea diametralmente opposti. Un chiaro esempio è proprio il voto del Parlamento europeo espresso a larga maggioranza a favore di sanzioni da applicare all’Ungheria per la violazione di valori fondamentali dell’Unione. L’Art. 7 dei Trattati prevede che saranno ora gli esecutivi nazionali a dover confermare all’unanimità tale decisione, con la Polonia pronta a fare ostruzionismo in quanto probabilmente colpevole degli stessi reati. Si avrà quindi una situazione a dir poco paradossale, con le istituzioni rappresentanti i cittadini europei in netto contrasto con quelle rappresentati gli esecutivi nazionali, con l’ultima parola in mano a quest’ultimi. Ecco che l’Unione si rivela nuovamente non attrezzata ad offrire una risposta comunitaria a un evento di disturbo eccezionale, come la violazione di valori fondamentali da parte di uno Stato membro. Nemmeno dal basso è possibile far valere fino in fondo istanze europeiste, basti pensare ai diversi movimenti transnazionali favorevoli al progetto europeo nati di recente. Quest’ultimi rivendicano da tempo piattaforme politiche transnazionali di rappresentanza all’interno del Parlamento europeo, utili a contenere la natura stessa di tali gruppi di persone. Piattaforme tuttavia non previste dai Trattati e anzi la cui formazione è stata rimandata a data da destinarsi dal Parlamento stesso. Entro una tale incapacità d’azione comunitaria, mai messa nei fatti veramente alla prova e per di più su questioni ormai di vitale importanza per i cittadini, l’Unione risulta così facilmente attaccabile da chi in campagna elettorale ha l’obbiettivo di distruggerla. Da qui la debolezza dello schieramento europeista di difendere un progetto che, nonostante i suoi difetti, ha portato pace e prosperità al nostro continente, accompagnando la civiltà europea nella modernità e in tutto ciò che da essa ne è conseguito.