Note per il dibattito sul futuro dell’europeismo e dell’Unione Europea
Marco Piantini si chiede se le incertezze e le paure innescate dalle crisi di questo inizio di millennio possano uccidere la spinta propulsiva del processo europeo e pone alcune domande. Su quale sia oggi la coscienza dell’Europa, quale il rapporto fra integrazione e democrazia e fra sviluppo ed equità, quale la capacità delle istituzioni europee di rispondere ad esigenze diversificate, quale il valore fondante o meno della moneta comune e la possibilità di stabilire nel discorso europeo un raccordo efficace con pulsioni strettamente nazionali. All’interno, di ciò, si interroga su quale debba essere il ruolo della sinistra rispetto ai nodi della politica economica e dell’unione monetaria, della difesa e della sicurezza, dell’immigrazione.
E’ a mio avviso difficile rispondere, se non partendo da un esame critico di cosa si debba intendere oggi per Europa, visto che il cammino svolto, dal MEC degli inizi all’UE attuale, ha messo in luce differenze che sono di fondo, e non solo di tempi e di quantità. Cercherò di riassumerlo per sommi capi, chiedendo scusa per le inevitabili omissioni.
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L’Europa dei “padri fondatori” si poneva l’obiettivo di mettere fine alla secolare conflittualità franco-tedesca dando vita a una nuova entità politica sovranazionale. Non sono d’accordo con Riccardo Perissich quando colloca l’inizio del processo nel funzionalismo monnetiano: il MEC nasce dalle ceneri del fallimento della CED, di cui conserva la finalità politica, e quello indicato da Monnet era un percorso per superare l’impasse, muovendo per gradi attraverso gli spazi via via disponibili. Lo scambio politico sottostante era da un lato quello di inserire il rapporto franco-tedesco in una maglia multilaterale di controllo e, dall’altro, di dare agli altri quattro paesi di questo storicamente vittime e non protagonisti, la possibilità di tenerne le fila. All’ombra della guerra fredda e della – a tratti riluttante – garanzia americana, lo scambio si è rivelato solido e ha permesso ai Sei di crescere verso l’obiettivo sovranazionale dichiarato, superando anche momenti difficili.
Con l’allargamento alla Gran Bretagna le cose cambiano. Non tanto per le asperità di una candidatura passata attraverso un paio di veti, quanto per la sostanziale differenza – se non proprio incompatibilità – delle logiche politiche sottostanti. Se l’idea di superare le ragioni del confronto franco-tedesco aveva un valore fondante per i Sei, quello stesso confronto aveva storicamente rappresentato per Londra un utile strumento di politica estera, da gestire, controllare ma non necessariamente cancellare. L’idea di una cessione di sovranità in nome di un obiettivo estraneo alla sua visione non poteva, anche per questo, avere cittadinanza. Agli elettori venne spiegato che la Gran Bretagna entrava a far parte non di un progetto politico tendenzialmente sovranazionale, ma di un esercizio di razionalizzazione commerciale e di sviluppo dei mercati (con più di qualche forzatura, visto che di lì a poco sarebbe partito il progetto di Unione Europea…). Il referendum indetto dal governo Wilson confermò la scelta compiuta e in molti immaginarono che la spinta propulsiva dell’integrazione europea sarebbe stata capace di riassorbire quella che era una contraddizione evidente. Che invece è rimasta a lungo più o meno sottotraccia, condizionando la partecipazione di Londra prima di deflagrare nuovamente con la brexit.
Gli allargamenti successivi non modificarono in maniera significativa la situazione. Grecia, Spagna e Portogallo cercavano una sanzione europea della loro ritrovata legittimità democratica: i paesi scandinavi seguivano un modello concettuale ispirato a quello britannico, di cui erano principali sostenitori, e il loro ruolo è rimasto periferico.
Il successivo mutamento fondamentale avviene con l’ingresso dei paesi europei dell’ex comunità socialista a seguito della caduta del Muro. Si trattava di un debito storico: per decenni si era ripetuto loro che la porta dell’Europa era aperta a quanti si fossero liberati dal giogo sovietico, ed ora legittimamente presentavano il conto. Il loro percorso tuttavia era stato diverso e inseriva un ulteriore elemento di contraddizione: se quelli dell’Europa occidentale avevano avuto tempo e modo di fare i conti con l’eredità di dittature e conflitti, prima di pensare di mettere in comune le loro sovranità, per i nuovi membri la fuoriuscita da un lungo internazionalismo posticcio, imposto dall’alto, portava innanzitutto a riaffermare identità a lungo conculcate e non certo a metterle in comune, sia pure per gradi.
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Di allargamento in allargamento l’obiettivo politico originario si è andato sbiadendo nella morsa di visioni fortemente diversificate, ma ha continuato ad essere ribadito come un mantra tanto necessario quanto incerto. L’architettura istituzionale si è fatta via via ingarbugliata e alla dimensione comunitaria si è aggiunta e in parte sovrapposta quella intergovernativa, riflesso della divaricazione di priorità e interessi. L’elefantiasi istituzionale per cui quando ci si trova dinanzi a una sfida nuova, prima si crea l’istituzione che dovrebbe governarla e poi – semmai – si pensa alla sostanza operativa è un vecchio vizio europeo, che si è ripresentato anche stavolta. Fra metodo comunitario e intergovernativo vi sono differenze non di forma o di metodo, bensì di sostanza politica, rispetto alle quali si pone anche un gigantesco problema di comunicazione, come ha ricordato fra gli altri Massimo Nava. Esso resterà insoluto sino a quando non saremo in grado di ricondurre ad una unitarietà sostenibile il “messaggio”. Nell’attesa, pensare che un ircocervo dettato dalle circostanze e dalla logica del compromesso possa coinvolgere un’opinione pubblica disorientata, appare illusorio.
L’euro doveva rappresentare “l’ultima raffica” del funzionalismo monnetiano e rilanciare il cammino verso l’integrazione politica. L’intuizione di Kohl di accelerarne la nascita ancorché privo della “gamba” economica, non solo per europeizzare la questione del marco post-riunificazione, ma anche per rafforzare l’ancoraggio tedesco alla costruzione europea resistendo alla tentazione delle vaste praterie che si stavano aprendo a Est, è stata fondamentale. L’UEM è rimasta però a metà strada. Da un lato, non è riuscita ad imprimere la spinta immaginata verso l’unione politica; dall’altro ha finito per sovrapporsi all’UE nel suo complesso, con una deformazione tecnocratico-economicista che ne ha offuscato vieppiù la valenza politica. Nel frattempo, il mantra di una unione sempre più stretta ha continuato ad essere ripetuto stancamente, sino all’ennesimo tentativo di rilancio a Lisbona. Qui, David Cameron si è incaricato di far capire a tutti che il “re è nudo”. Che fare, quindi?
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Europa vuol dire innanzitutto democrazia rappresentativa, stato di diritto, economia di mercato, solidarietà sociale e diritti fondamentali della persona. Sono valori fondanti in cui tutti dichiarano di riconoscersi; anche le democrazie illiberali e autoritarie degli Orban e dei Kaczinsky, che paradossalmente affermano di rappresentarne la vera essenza. La diversità delle situazioni può giustificare un margine di flessibilità, ma è importante evitare di superare la linea rossa di forzature e strumentalizzazioni inaccettabili; la volontà di farne parte espressa anche da chi ne contesti regole e obblighi, dimostra d’altro canto la forza di questo “recinto esterno” su cui è possibile agire per ampliare i margini di una identità condivisa.
L’evoluzione dell’UE ha portato a riconoscere la necessità di articolazioni al suo interno che tengano conto delle diverse specificità; l’Europa a più velocità, cerchi e geometrie non è nuova ed ha cominciato a trovare una prima parziale applicazione. I percorsi da essa previsti si distinguono per tempi, modi e ambiti di applicazione ma si collocano tutti all’interno di un processo formalmente unitario, in cui resta inalterato l’obiettivo di una unione sempre più stretta tendenzialmente sovranazionale (sia pure con tempi sempre meno definiti). Un simile obiettivo, come Cameron ha detto e i fatti hanno confermato, non esiste più e le differenze riguardano la natura e le finalità dell’integrazione.
Nell’UE esiste oggi una pluralità di “famiglie” di paesi membri che perseguono obiettivi coerenti con il “recinto esterno” dell’Europa, ma diversificati non per tempi e modalità, bensì per il fine ultimo che perseguono. Per alcuni, solo una unione politica può garantire i “beni fondamentali” in cui ai loro occhi si sostanzia l’appartenenza all’UE; per altri, l’obiettivo è la razionalizzazione economica senza bardature istituzionali; per altri ancora, la sua valenza è soprattutto geopolitica e securitaria. Non si tratta di gruppi rigidamente definiti e la loro composizione può cambiare in funzione del mutare delle esigenze e delle priorità; così come sono in parte sovrapponibili e permeabili fra loro. L’Europa plurale potrebbe sembrare a prima vista una delle possibili modalità di quella a più velocità, ma c’è una differenza: quest’ultima ammette le diversità e le riconduce ad un quadro più o meno stretto ma comune a tutti; nella prima, gli obiettivi restano strutturalmente diversi. Da un lato una unione sovranazionale, dall’altro una sovranazionalità strettamente funzionale e ridotta al minimo, dall’altro ancora una dimensione essenzialmente intergovernativa, e così via.
Inserire processi di integrazione diversificati in una gabbia concettuale unica non favorisce la coesione del tutto bensì alimenta contrasti e paralisi. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, dal rapporto fra ins e outs nell’eurozona, ai contrasti su rifugiati e immigrazione, la politica sociale, la politica estera e di difesa e così via. Liberando percorsi diversi nelle finalità – ma rispettosi della comune idea di Europa – è possibile mettere a frutto le capacità rispettive e si favoriscono le sinergie. Punto fondamentale è quello della pari dignità fra i diversi percorsi, mentre i cerchi e le geometrie dell’Europa a più velocità sottendono una gerarchia, con implicazioni politiche evidenti. Gerarchia necessaria proprio in funzione del fine ultimo unitario che si vuole perseguire.
L’Europa plurale denega invece la gerarchia, perché presuppone l’autonomia di percorsi fra loro paralleli, legittimati da un lato dalla finalità specifica che si prefiggono e, dall’altro, dalla comune adesione al “recinto esterno” dell’Europa Non concordo con l’osservazione di Marco Piantini nella sua quarta questione, secondo cui rendere autonoma l’Europa del mercato unico da quella politica rischierebbe di comprometterne l’evoluzione, consegnandola ad un ristretto limbo intergovernativo. L’Europa politica è parte di quella del mercato, la sussume, partecipa alla sua crescita e, al tempo stesso, persegue finalità diverse da quella, che devono potersi sviluppare con arricchimento di entrambi. Non esiste un “mercato cattivo”, ma vi sono dimensioni diverse che possono, come sottolinea Piantini, contribuire alla crescita complessiva dell’Unione Europea. Solo che, a mio avviso, devono poterlo fare attraverso percorsi e meccanismi autonomi e paralleli. Condizionare l’una all’altra – continuando nella finzione di ritenerle comunque parte di un percorso che prima o poi troverà una sanzione unitaria – rischia di aggiungere lacciuoli anziché vantaggi. Di una Europa plurale parlano in molti – da Piketty a Fabbrini, fra gli altri – con accenti e modalità diverse ma tutti rilevandone l’inevitabilità positiva.
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Cosa vuol dire Europa politica? Una unione con una visione comune del ruolo nel mondo; forte di una politica monetaria, economica e di bilancio capace di mediare le scelte e promuovere equità sociale; di politiche davvero comuni per l’immigrazione, il controllo delle frontiere, la sicurezza e la difesa (il tutto, beninteso, nell’ambito delle libertà fondamentali e dello spazio di diritti del “recinto esterno” europeo). Richiede un salto di qualità in direzione sovranazionale che non è possibile concepire uguale per tutti - indipendentemente da geometrie, velocità, gironi e quant’altro - perché non tutti sono disposti a compiere i passi necessari. La contraddizione – nessun vero progresso possibile senza unione politica, nessuna unione politica possibile a Ventisette – deve essere risolta lasciando libertà di percorso, in autonomia e con pari dignità, alle opzioni degli uni e degli altri. Chi può ragionevolmente parlare di una diversa articolazione del rapporto fra solidità finanziaria e risorse condivise, senza una politica economica e di bilancio comune? O di una razionalizzazione di Schengen senza il passaggio a una gestione comunitaria del controllo delle frontiere (le riserve opposte anche dall’Italia a una polizia di frontiera comune, in nome di una sovranità “da tutelare”, mostrano quanto lunga sia la strada da fare)? O di una riforma delle politiche sull’immigrazione che non sia sostanzialmente sovranazionale? Dare a chi è disponibile la facoltà di andare avanti non minerebbe la solidità dell’edifico europeo; anzi la rafforzerebbe.
La creazione dell’euro è stata l’evento di maggiore impatto nella vita dell’Ue; la crisi finanziaria e l’affievolimento dell’idea di Europa hanno fatto perdere di vista il fatto che la moneta unica non è il fine, bensì lo strumento di un processo politico dalle dimensioni più ampie, col risultato che è diventato quasi un sinonimo dell’Ue nel suo complesso: l’Europa dell’euro “senz’anima, complice delle banche e lontana dai bisogni della gente” è stata vista come la protagonista consapevole di un burocratismo dominato dalla Germania a danno dei più deboli. Il capitalismo liberale arranca dinanzi alle difficoltà di una crescita che non riesce a ridurre le diseguaglianze, mentre il rapporto fra economia reale e finanziaria si fa sempre più squilibrato; ma questo è un problema globale cui mancano ancora le risposte e non riguarda solo l’Ue, la quale semmai al pari di altri ne è vittima e stenta a immaginare vie d’uscita. Tutto ciò non conta agli occhi di un’opinione pubblica spaventata, sensibile alle sirene di una retorica populista e alle sue promesse di mirifici ritorni a perdute dimensioni nazionali, che dimentica come proprio l’Ue abbia assicurato al continente un settantennio di pace e di progresso come mai nel passato. La prima priorità di una politica europea della sinistra, dovrebbe essere di rovesciare questa narrativa mettendo in luce, in coerenza con la sua storia, le interrelazioni positive di un sistema complesso che hanno contribuito tutte a dare corpo nell’Ue a una crescita sociale e civile nella libertà, e non certo a un mero esercizio economicistico. Compito non facile dinanzi alla presa di una propaganda proterva e svincolata dai fatti, ma necessario e non impossibile: il disincanto nei confronti di una Ue ritenuta preda di eurocrati senza volto tende a crescere, ma al tempo stesso permane nell’opinione pubblica europea una “voglia di Europa”, indistinta nelle finalità ma forte, sulla quale è possibile lavorare.
La via dell’Europa plurale (si può parlare di un’Europa politica “di Altiero Spinelli” e di un’Europa del mercato “di Margaret Thatcher”, entrambe parte del “recinto esterno” dell’Europa “di Coudenhove-Kalergi”) permette dunque di liberarne le potenzialità non negando ma mettendo nella soffitta delle ambizioni lontane una “unione sempre più stretta” che ha perso di significato. Tiene acceso il faro dell’unione politica – con la sua integrazione sovranazionale - senza farne un riferimento obbligato per quanti in essa non si riconoscono. Supera il concetto di gerarchia e introduce quello, fondamentale, della pari dignità e autonomia fra l’Europa politica e quella del mercato. Non crea steccati rigidi nella partecipazione e nei percorsi, che restano sinergici e all’occasione sovrapponibili. Essa rappresenta il modo per ridare slancio al progetto europeo ponendo a frutto al meglio le sue diverse componenti.
Per l’Italia, essere parte di una unione politica è fondamentale (naturalmente, partendo dall’assunto che dell’UE intendiamo ancora fare parte). Lo è, perché gli obiettivi di questa coincidono pienamente con quelle che dovrebbero essere le nostre priorità: superare Dublino senza passare dall’attuale a una gestione veramente comunitaria dei flussi migratori è illusorio; analogo discorso vale per Schengen e a maggior ragione per il completamento dell’UEM e l’introduzione di politiche economiche e di bilancio comuni. O per la difesa, dove il rischio di mettere il carro davanti ai buoi è molto forte; la memoria della CED dovrebbe ricordarci che essa deve essere la funzione, e non la premessa, di una politica estera comune. Per tutelare i nostri interessi è necessaria più integrazione sovranazionale, e non meno, superando fragilità e complessi.
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Viene inevitabilmente in mente quello che Riccardo Perissich ha chiamato il “complesso di calimero”. Una integrazione sempre più stretta sarà anche in astratto la via più giusta – corre l’argomentazione - ma in essa rischiamo di venire regolarmente schiacciati dall’inferiore capacità di difenderci dinanzi allo strapotere dei più forti. E’ vero che nell’Ue hanno un forte peso i rapporti di forza relativi, ma è altrettanto vero che i correttivi nel sistema comunitario (assai più che in quello intergovernativo) ci sono per chi abbia idee chiare e sappia individuare il punto di compromesso migliore. Gli esempi non mancano e non è vero che l’asse Berlino-Parigi debba avere sempre la meglio. Certo, non aiutano le campagne urlate, né lo sbeffeggiamento di presunti ubriaconi; gli insulti possono talvolta servire, ma solo se parte di un disegno ragionato. Così come appaiono improvvide mosse destinate a suscitare ostilità proprio in quegli eurocrati di cui per altri versi si teme il potere (respingendo ad esempio al mittente quale corpo estraneo uno dei suoi migliori rappresentanti come Mario Nava, anziché farsene un alleato). Ci troviamo dinanzi a una scelta necessaria in una versione rovesciata, ma egualmente essenziale, del “vincolo esterno” della prima Repubblica; se allora ci consentiva di accelerare un processo di adattamento che avrebbe potuto altrimenti impantanarsi, oggi ci permette di essere parte di un disegno che altrimenti rischia di sfuggirci. A condizione, naturalmente, di essere proattivi evitando sbavature retoriche e provincialismi, figli di una faciloneria che potrà anche fare sorridere ma che non per questo è meno pericolosa.
Il nucleo di partenza dell’unione politica viene generalmente fatto coincidere con l’eurozona (in aggiunta o in alternativa ai Sei fondatori). Sono questi i paesi che si sono sin qui spinti più avanti sulla via dell’integrazione, con un’ampia platea di impegni volti a mettere in comune le rispettive sovranità. E’ un criterio logico, ma potrebbe non essere sufficiente: davanti alla verifica di ciò che essa comporta concretamente, non tutti gli attuali membri dell’eurozona potrebbero dimostrarsi pronti a farsi carico non solo del completamento dell’UEM, ma dell’intero complesso dei beni fondamentali prima descritti. Potrebbero essere disposti a farlo per contro alcuni dei restanti fra i Ventisette; il numero finale potrebbe essere diverso da diciannove, con forse alcuni e non tutti fra i fondatori. Il numero potrebbe infine anche essere così esiguo da rendere improponibile una vera unione politica, rimettendola a un incerto futuro.
In una fase di forte criticità come quella che stiamo attraversando, un simile sviluppo negativo non segnerebbe la fine dell’UE, ma una profonda trasformazione sì. Il “recinto esterno” di libertà e diritti resterebbe il riferimento comune di una unione concentrata sul mercato; verrebbe a mancare la possibilità di una trasformazione in senso comunitario del governo dell’economia, della solidarietà, dell’immigrazione, della sicurezza, della difesa. L’Europa resterebbe un partner commerciale importante, ma verrebbe fortemente ridimensionata la sua capacità di muoversi da protagonista sulla scena mondiale. Davanti ad una ipotesi del genere, c’è chi sostiene che forzare i tempi sarebbe un errore potenzialmente irreparabile e che sarebbe più saggio continuare a muoversi a piccoli passi lungo la via sin qui seguita, fidando che la dinamica interna residua consenta attraverso adattamenti via via possibili di riprendere prima o poi il discorso. L’integrazione europea, si aggiunge, è sempre andata avanti per gradi, sfruttando gli interstizi di consenso e restando spesso delusa da traguardi troppo ambiziosi. In condizioni normali sarebbe forse giusto. Ma queste non sono condizioni normali.
Una Ue chiusa nella contemplazione dell’ombelico della moneta unica e dei suoi problemi, rischia di perdere di vista la sua essenza di grande progetto di libertà e crescita civile. E’ impensabile che così come oggi si presenta, essa possa risultare la molla per scuotere l’albagia di opinioni pubbliche in cui il rifiuto di pensare oltre si culla dell’illusione che lo straordinario acquis di settant’anni di integrazione sia irreversibile, mentre è vero il contrario. Prese fra il Dio della molla ideale e il Mammone della deriva tecnocratica, non soffrono la mancanza della prima e si rassegnano di malavoglia al secondo, rinunciando a scegliere. E’ da qui che parte il vento del sovranismo e del populismo; questi movimenti scaricano sull’ottusità di sovrastrutture burocratiche il peso del fallimento delle promesse, nascondendo dietro aggressività retoriche e vuoto concettuale la loro incapacità di recuperare un filo conduttore che dia una nuova e diversa centralità politica al progetto europeo. Ed è da qui che è indispensabile partire perché la dissoluzione di questo progetto – non la scomparsa, si badi bene, ma la sua scomposizione in mille particolarismi e settarismi – potrebbe essere dietro l’angolo e, man mano che acquistasse forza, diventerebbe più difficile porvi freno.
Verificare la consistenza dell’unione politica dunque non è solo importante per ‘Italia, visto che le sue finalità corrispondono a ciò che il nostro paese dice di attendersi dall’Europa, ma è fondamentale per capire quale potrà essere il futuro dell’Ue. Rinunciare a capire se, come, in che tempi e con chi sia realizzabile per il timore di provocare scossoni che sarebbe difficile controllare, vorrebbe dire non capire come gli scossoni rischino di diventare davvero ingovernabili continuando in una politica di piccolo cabotaggio, mentre intorno tutto cambia in tempi rapidissimi. Potrà anche fallire, l’unione politica, ma se così fosse meglio, molto meglio prenderne atto tempestivamente piuttosto che dover cercare altre strategie sull’onda di uno slabbramento andato fuori controllo. Guadagnare tempo potrebbe essere utile nell’immediato, ma non risolverebbe certo le cose. Fra crisi dell’integrazione europea e “voglia di Europa” il momento di capire è adesso, prima che una deriva accelerata, di cui non si sia potuto o voluto prendere coscienza, finisca per provocare crisi di assai più difficile maneggio che sarebbe un problema per tutti, mentre l’Italia vedrebbe di molto complicarsi il suo conto del dare e dell’avere nell’Unione. Ragione di più di adoperarsi perché non accada.
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L’Europa plurale si incrocia inevitabilmente con uno dei tabu maggiormente temuti dall’ortodossia comunitaria: la rivisitazione dei trattati. Tenuto conto delle fragilità di una Unione esposta da varie direzioni a spinte disgregatrici, si osserva, toccare l’architettura istituzionale comporta un rischio di disarticolazione ben più alto dei teorici vantaggi di un suo ammodernamento, la cui opportunità non viene peraltro in assoluto negata. Credo che valga ancora una volta l’argomento contrario: rinunciando ad affrontarne in maniera strutturata incongruenze e contraddizioni, e chiudendo gli occhi dinanzi all’importanza delle sfide che si presentano all’integrazione europea, si rischierebbe di imprimere una ulteriore accelerazione alla deriva negativa, anziché erigere dighe efficaci contro di essa. Farlo, partendo dall’assunto che per crescere l’Ue deve prendere atto di una struttura plurale che si muova lungo binari paralleli ed autonomi, con pari dignità e legittimazione, può essere una via utile.
La riforma e l’estensione in profondità del voto a maggioranza qualificata costituiscono uno degli obiettivi più perseguiti e, altrettanto spesso, disattesi a causa del prevalere di steccati nazionali, a volte in contraddizione con lo stesso interesse di quanti vi fanno ricorso. Continuare a immaginare una riforma del genere in un contesto unitario può forse massaggiare lo spirito federalista, ma non avvicina la realtà; è per contro evidente come proprio l’unione politica rappresenti il terreno in cui questo passo – indispensabile per l’effettività delle decisioni ad ogni livello – può essere realizzato, affrontando la prova di passaggi ben più complessi di ora e fungendo da battistrada per successivi ampliamenti.
Il Consiglio Europeo ha assunto un peso sempre maggiore nell’ircocervo istituzionale dell’Ue, diventando in buona sostanza la “seconda Camera” dell’Unione, in coerenza con l’estensione del metodo intergovernativo a settori sempre più vasti e il conseguente aumento del ruolo dei governi. Si è prodotta così una dissimmetria fra il Parlamento Europeo, espressione del voto dei cittadini, e un Consiglio rappresentativo nella sua composizione, ma non eletto, e soggetto a vincoli di controllo democratico affatto diversi, che ha inciso profondamente su ruolo e funzioni della Commissione. Mi ha colpito l’osservazione di Piantini, alla terza questione, secondo cui la “politicizzazione della Commissione è cresciuta”; a me sembra vero il contrario. Politica poteva definirsi la Commissione Hallstein, e politica era certamente quella Delors, ma sulle successive e in specie sulle più recenti il dubbio è legittimo. Di allargamento in allargamento, la Commissione ha visto aumentare per ragioni di convenienza politica e in maniera dissennata il numero dei suoi membri e ha subito una frammentazione delle attribuzioni dei Commissari in portafogli spesso di scarsa o nulla rilevanza, ancorché ricchi di definizioni tanto immaginifiche quanto inconsistenti. La deriva intergovernativa ha inferto un altro colpo alla sua credibilità politica, ridimensionandone ulteriormente il ruolo di iniziativa e di garante della dinamica dei trattati. La Commissione era stata immaginata come l’anticipazione di quello che sarebbe dovuto diventare il vero governo europeo – e anche per questo la sua collocazione nell’architettura istituzionale aveva conservato qualche ambiguità – ma ha finito per assumere un ruolo quasi di super-Segretariato di fatto del Consiglio Europeo, assai lontano dalla visione originaria e solo in parte temperato da una attività politica più declaratoria che di sostanza (chi ne dubiti, potrebbe utilmente chiedersi quale sia stato, ad esempio, l’impatto del rapporto dei Cinque Presidenti o dello stesso piano Juncker). Nell’Europa plurale, la Commissione potrebbe recuperare un ruolo forte, quale garante del rispetto del sistema di principi, diritti e obblighi del “recinto esterno”, custode della crescita e strumento politico di una governance in divenire.
Il Parlamento Europeo è accusato spesso di scarsa incisività e di una sostanziale distanza dagli elettori nei paesi membri. Sono critiche non sempre fondate, poiché i poteri del Parlamento sono molto cresciuti, al pari dell’attività di controllo democratico, tanto sul piano legislativo come nella procedura per la nomina e conferma della Commissione. Permane tuttavia la sensazione di una certa separatezza, con un’opinione pubblica poco informata e ancor meno interessata, senza che l’elezione diretta abbia fatto molto per cambiare le cose. Gli strumenti correttivi sono necessari, poiché il Parlamento incide ormai direttamente sulla vita quotidiana della popolazione europea (e questa, dal canto suo, ne sa poco o nulla). Per rafforzare i legami con i Parlamenti nazionali, così da creare un flusso regolare nelle due direzioni che sino ad oggi, ad onta delle buone intenzioni, è sostanzialmente mancato, si potrebbe immaginare un sistema parlamentare bi-camerale con una Camera alta composta di eletti di secondo grado in rappresentanza dei Parlamenti nazionali, riprendendo e adattando il modello del Bundesrat. Il tutto, in attesa di una completa trasformazione dell’Unione in senso federale.
Nell’Europa plurale il controllo parlamentare va visto sotto l’angolo dell’autonomia e complementarietà delle sue componenti. Non è necessario pensare alla creazione di distinte Assemblee e non mancano formule cui fare riferimento; fra esse particolarmente utile appare quella con cui nella Camera dei Comuni attraverso la West Lothian question è stata regolata la partecipazione degli eletti scozzesi alle decisioni riguardanti l’Inghilterra.
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Queste note hanno cercato di affrontare il tema di come superare i confini nazionali della politica, tenendo conto delle singole priorità, recuperando capacità di iniziativa e ribadendo la centralità politica del progetto europeo. Ho cercato di illustrare come non sia più possibile un simile percorso in un contesto unitario – sia pure scandito per tempi, percorsi e cerchi diversificati – mentre resta decisivo riconoscersi in una comune dimensione europea, anche per affrontarne le contraddizioni (fino a prova contraria, gli Orban e i Kaczinsky sono Europa). Una Europa plurale, in cui ribadire i caratteri fondamentali di una Unione con oggetto la stabilità nella democrazia e la crescita nell’equità, consentirebbe di liberare le capacità ponendo a fattor comune le sinergie. Al pari di ogni altra, una simile Europa può essere condivisa, discussa, contrastata e alla sinistra incombe il compito fondamentale di non disperdere un bagaglio intellettuale e un acquis, che ci hanno consentito di diventare ciò che siamo per cui, perdendolo, diverremmo incommensurabilmente più poveri. Tenendo presente in ogni caso come sia controproducente impiccarsi al tabu della prudenza istituzionale quando la situazione fa acqua e rischia di affondare trascinandosi dietro tutto il resto (magari lentamente, senza guerre e spargimenti di sangue, ma sicuramente).
POST SCRIPTUM
Il dibattito avviato dalle “sette questioni” di Marco Piantini ha dato vita a contributi variati e tutti di grande interesse. Accomunati da un difetto – presente in massima parte anche in queste note - quello di essere stati scritti con un linguaggio da cognoscentes chiaro agli esperti, ma non altrove. Nella fase che viviamo, di disintermediazione non solo della politica ma anche della comunicazione, è un problema che rischia di vanificare lo sforzo di far passare un messaggio, peraltro necessario. Lo segnalo non perché ne sappia proporre la soluzione – cosa quantomai lontana dalle mie capacità – ma perché una riflessione da parte di chi le soluzioni, invece, può averle è urgente.