Perché abbiamo bisogno di un europeismo fatto di ideali e di realismo
Ho l'impressione che la nostra maniera di vedere i problemi dell'integrazione europea sia influenzata da una forte dose di idealismo, sia lontana dai temi di cui si discute effettivamente a livello europeo e sia fonte di continue frustrazioni perché porta a fissarsi obiettivi irraggiungibili. Per di più, la nostra maniera di vedere il processo di integrazione europea è molto diversa da quella della grande maggioranza degli altri cittadini europei e questo non ci permette di costruire quelle alleanze che sono necessarie per far accettare modifiche e approfondimenti.
Prendiamo, per esempio, il concetto molto popolare di "Stati Uniti d'Europa". Riporto per esteso quello che Jean Claude Junker ha detto in un discorso dell'ottobre del 2016 perché credo che le sue parole siano importanti e giuste. “Penso che sia venuto il momento, in realtà è venuto da parecchio tempo, per essere chiari su di un certo numero di cose. Molto spesso quelli che ci osservano non capiscono quello che facciamo. La ragione – in realtà ce ne sono parecchie – è che c’è un malinteso di fondo. Penso che noi si debba smettere di parlare di Stati Uniti d’Europa. L’ho fatto quando ero giovane all’età di 17/18 anni, ma a un certo punto mi sono detto che non possiamo continuare a dare indicazioni sbagliate perché non avremo mai gli Stati Uniti d’Europa e questo perché i popoli europei non li vogliono. I popoli europei hanno bisogno di una vicinanza, amano il loro territorio, il loro paesaggio, le loro tradizioni. Amano un’Europa fatta di diversità e per questo più ricca di altri insiemi. Dare l’impressione che l’Europa stia diventando uno stato ci porta contro un muro perché quelli che abitano in Europa rispettano non l’identità nazionale, è un termine superato, ma la realtà nazionale. L’Europa non può essere costruita contro la volontà delle nazioni. Le nazioni non sono un’invenzione provvisoria della storia. Le nazioni sono fatte per durare e l’Unione europea le completa nei campi dove, grazie ai loro soli mezzi, le nazioni e gli stati sarebbero condannati all’immobilismo, soprattutto all’immobilismo sulla scena internazionale.”
Noi abbiamo elevato a testo di riferimento intoccabile il Manifesto di Ventotene (Riccardo Perissich parla di un "mito di Ventotene"). Viene citato come ai tempi del comunismo si dovevano citare passaggi di Marx o Engels. Questo documento ha un valore storico importantissimo, ma non ha più una grande rilevanza politica per la situazione attuale. Il Manifesto era basato sulla premessa che lo stato-nazione portava inevitabilmente alla dittatura. La situazione degli anni '40 dava sicuramente un forte fondamento a questa tesi. Ma dalla fine della guerra ad oggi gli stati nazione si sono ricreati e, in Europa, nessuno è diventato una dittatura. Non si può continuare ad attaccare gli stati-nazione sulla base di una ipotesi che fortunatamente si è rivelata non essere corretta. Ma gli autori del Manifesto di Ventotene erano stati molto lucidi. Nel Manifesto hanno scritto che il superamento degli stati-nazione avrebbe dovuto essere realizzato entro un anno o due dalla fine della guerra. Se questo non fosse successo gli stati-nazione si sarebbero riaffermati e la battaglia sarebbe stata persa definitivamente.
Gli stati nazionali sono indeboliti dallo sviluppo delle comunicazioni e la sempre maggiore integrazione economica mondiale, ma godono ancora di buona salute. In Europa hanno recentemente ripreso parte delle loro competenze con le modifiche del sistema di Schengen e le loro maggiori pressioni sulla conclusione di nuovi accordi commerciali, che è diventata più difficile. Il successo dei partiti sovranisti, costituisce poi un altro elemento che impedisce nuove erosioni delle sovranità nazionali.
Oggi siamo in una situazione complessa. Ad ogni crisi l'Unione europea ha saputo finora rispondere con degli approfondimenti considerevoli della sua integrazione. Questi approfondimenti hanno sempre una valenza politica. Rappresentano nuove condivisioni di sovranità, a volte molto più forti di quanto inizialmente immaginato. Basti pensare alle cessioni di sovranità implicite nella creazione del mercato unico tanto sostenuto da Margaret Thatcher. Ma parlare semplicemente di integrazione politica, di unione politica come fine del processo di integrazione europea è per la maggioranza dei cittadini europei uno straccio rosso che mette fine alle discussioni. Jean-Claude Junker ha ben spiegato perché nel suo discorso che ho menzionato.
Il riaffermare continuamente l'obiettivo dell'integrazione politica e degli Stati Uniti d'Europa è fonte di frustrazioni continua per noi e non ci offre una base di discussione con molti altri cittadini europei. Noi parliamo di integrazione politica, di superamento degli stati nazionali, di creazione di un demos europeo. Gli altri parlano di spese per la difesa europea, di unione bancaria, di rafforzamento istituzionale dell'eurozona, di politiche di ricerca e di tante altre cose concrete; e sono spesso reticenti su molti di questi punti. E, in ogni caso, la creazione di un demos europeo implica che si sviluppi una discussione su temi di interesse comune; la richiesta di integrazione politica viene da una minoranza dell'elettorato europeo.
Oltre a tutto, l'inevitabile frustrazione che nasce dal confronto tra la realtà dell'Unione europea che è sotto i nostri occhi e una visione mitica dell'obiettivo storico porta spesso ad una reazione politica illogica e ingiustificata: "Se l'Europa non diventa quella che io sognava da bambino, allora non vale la pena di avere un processo di integrazione europea; allora io sono contro l'Europa". Come ha scritto in maniera meno polemica Roberto Castaldi, la visione di alcuni federalisti, quella che lui chiama l'Europa-progetto, "non valorizza il ruolo e i successi oggettivi" del processo di integrazione europea che è stato realizzato finora.
Importante è anche il fatto che la visione iniziale del processo di integrazione europea, quella vera e non quella idealizzata tanto di moda nel centro-sinistra italiano, era dovuta ad un gruppo di padri fondatori che, come ricorda l'ambasciatore Giuseppe Morabito, rappresentavano pochissimi paesi e un gruppo molto ristretto di forze politiche. Non è facile proporre quella visione al mezzo miliardo di cittadini dell'Unione europea attuale.
Io sono convinto che il processo di integrazione europea che abbiamo visto fino ad oggi costituisca un successo spettacolare. Il premio Nobel per la pace attribuito all'Unione europea non è stato un errore. Se solo si riflette sulle differenze fortissime che esistono tra i paesi europei – differenze di storie, di esperienze, di culture, di lingue – non si può che riconoscere il carattere straordinario della forte collaborazione che si è creata tra questi paesi. I pochi chilometri da Metz a Den Haag e da Den Haag a Copenaghen sono sufficienti per ricordarci le enormi diversità che esistono. Ma questi progressi sono stati compiuti perché – usando le parole attribuite al presidente James Madison a proposito degli stati americani – "abbiamo bisogno gli uni degli altri, non perché ci vogliamo bene".
Il processo di integrazione europea è stato lanciato sulla base dell'approccio funzionalista di Jean Monnet per raggiungere un obiettivo della più alta importanza politica: impedire un riarmo clandestino di Francia o Germania. Ma la solidarietà tra paesi o regioni non faceva parte di questo progetto. I tre trattati iniziali non hanno nulla sulla solidarietà verso le parti più povere del gruppo di paesi (hanno solo degli aiuti per le regioni colpite dalla ristrutturazione delle industrie del carbone e dell'acciaio). I fondi strutturali sono stati introdotti alla metà degli anni settanta e rafforzati fortemente negli anni ottanta insieme al lancio del programma per il mercato unico. Si è trattato di misure molto forti e importanti, alcuni piccoli nuovi stati – per esempio la Grecia – hanno ricevuto e ricevono tutt'oggi un aiuto di un ordine di grandezza uguale o superiore a quello una tantum del Piano Marshall. E questo ogni anno, da quando sono entrati nell'Unione europea. Ma in tanti altri campi la solidarietà non è mai andata al di là dei rapporti di buon vicinato tra persone civili.
Il nostro europeismo sembra anche ignorare i principi di "attribuzione" e di "sussidiarietà" inseriti nell'artico 5 del Trattato sull'Unione europea. Secondo il principio di attribuzione "l'Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti.Qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati membri". Secondo il principio di sussidiarietà "nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l'Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell'azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione". Questi due principi pongono dei limiti forti allo sviluppo dell'Unione europea in uno stato che superi gli stati nazionali. Questi principi possono non piacerci, ma li abbiamo accettati e la maggior parte degli altri paesi li difende e chiede che si agisca in linea con quanto essi prevedono.
Esagerando un po' per sottolineare il punto, il processo di integrazione europea può essere meglio visto come una struttura di tipo condominiale per regolare tanti problemi pratici in tantissimi campi. Le procedure comunitarie sono complesse e lente, ma sono sempre preferibili al negoziare 378 trattati bilaterali (tra 28 paesi). I paesi dell'Unione europea sono dei paesi medio-piccoli situati in uno spazio geografico limitato e hanno bisogno di collaborare tra di loro. Devono farlo nel loro interesse, soprattutto in un mondo sempre più aperto e integrato. I meccanismi dell'Unione europea forniscono un quadro efficace per raggiungere questo scopo.
Gli "egoismi nazionali" che bloccherebbero i progressi verso l'integrazione politica costituiscono un'espressione vuota (un po' come quella dei "poteri forti"), ma l'espressione ha un senso solo se si vede il processo di integrazione come un processo politico nel quale gli interessi nazionali dovrebbero essere messi da parte (soprattutto quelli degli altri). Ma se si vede il processo come la vita di un condominio dove si discute assieme per raggiungere il miglior risultato possibile per tutti nel rispetto delle regole che ci si è dati il comportamento degli stati membri in tutti i negoziati comunitari diventa assolutamente comprensibile, logico e non criticabile.
In Italia soffriamo di una sfiducia consolidata nel nostro stato, nella nostra pubblica amministrazione. Diamo per scontato che qualsiasi programma amministrato e gestito da un organismo basato fuori dall'Italia sarebbe preferibile ad uno gestito da un ente italiano. Ma in molti altri paesi la situazione è ben diversa. A torto o a ragione considerano che la loro pubblica amministrazione e il loro governo siano più efficaci ed efficienti del meccanismo decisionale europeo e della sua amministrazione. Questo è un dato di fatto difficilmente contestabile.
Dovremmo sviluppare una versione più realista dei nostri obiettivi per la costruzione europea. Come hanno scritto Diletta Aulese e Giulio Saputo, i federalisti devono darsi come obiettivo la realizzazione del migliore dei mondi possibili e non di realizzare un mondo utopico.
È necessario prendere posizione sui tanti temi di cui si sta effettivamente discutendo in Europa. Dobbiamo farlo rendendoci conto meglio di quello che pensano gli altri cittadini europei. Purtroppo in questo campo non siamo aiutati da una stampa che – forse ancora più che in altri paesi – ci racconta poco su quello che viene detto e proposto negli altri paesi. I tanti insuccessi delle discussioni europee non vengono analizzati o spiegati (gli "egoismi nazionali" sembrano spiegare tutto). Molto spesso delle posizioni che avremmo voluto veder adottare sono state respinte per ragioni perfettamente valide che avremmo fatto meglio ad analizzare prima.
Non c'è dubbio che la costruzione europea viva oggi una fase di grande fragilità dovuta alle difficoltà economiche di alcuni paesi, alla crescita delle disuguaglianze in tutti e alla sfida rappresentata dall'immigrazione irregolare. È urgente creare alleanze per realizzare dei passi in avanti dove questo è possibile. Questo richiede un forte lavoro diplomatico. Tommaso Padoa-Schioppa aveva definito la politica europea dell'Italia come una politica "interstiziale", ossia una politica che cercava di sfruttare gli interstizi che potevano aprirsi nell'asse franco-tedesco. In ogni caso, le dichiarazioni roboanti e l'affermazione enfatica di interessi nazionali – veri o presunti – è l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno.
Non dimentichiamo infine le conseguenze sull'europeismo della situazione economica. Non solo le difficoltà economiche portano sempre ad un ripiego su di sé, sulla situazione locale e la situazione nazionale. Ma nel caso dell'Italia c'è una sfortunata quasi coincidenza temporale che complica molto le cose. Da quasi trenta anni, l'Italia cresce meno degli altri paesi europei e degli altri paesi dell'eurozona. Dal 1992 ad oggi l'Italia è cresciuta meno del resto dell'eurozona ogni singolo anno con la sola eccezione del 1995. Dal 1991 al 2018, il tasso cumulativo di crescita reale del PIL italiano è stato di poco più del venti per cento (20,6 per cento secondo le ultime proiezioni della Commissione europea). Il tasso di crescita degli altri 18 paesi che formano l'eurozona attuale è stato nello stesso periodo del 58 per cento !
Questi dati mostrano l'esistenza di fattori interni italiani che frenano la nostra crescita. Ci sono poi tanti studi e analisi che spiegano la cosa e cercano di identificare le cause specifiche. Ma per tante persone la quasi coincidenza temporale è sufficiente ad attribuire la colpa della nostra bassa crescita all'euro e alle regole di bilancio europee. Fare osservare che nello stesso periodo 1991-2018 in cui noi siamo cresciuti di circa il 20 per cento la Spagna è cresciuta di oltre il 70 per cento non sembra essere sufficiente. Fare ripartire la crescita nel nostro paese, lanciando le tante riforme strutturali di cui abbiamo bisogno, contribuirebbe molto a rendere l'elettorato italiano meno scettico sull'Europa.