Perché Trump e Putin sono gli idoli dei populisti europei
Il summit tra il Presidente americano Donald Trump e il Presidente russo Vladimir Putin che ha avuto luogo lo scorso 16 luglio a Helsinki era atteso da molti – tranne forse che da Silvio Berlusconi. In stile molto Trumpiano infatti, l’esuberante ex primo ministro italiano aveva affermato, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche dello scorso febbraio, di essere stato proprio lui ad aver finalmente smantellato la cortina di ferro grazie alla sua intesa speciale con Putin. L’attuale gruppo di politici populisti europei appare sicuramente più umile di Berlusconi ma non per questo meno pericoloso. A partire dal premier ungherese Viktor Orban, la francese Marine Le Pen, fino al britannico Nigel Farage e al nuovo ministro dell’interno italiano Matteo Salvini, i populisti in Europa vedono Putin e Trump come i portabandiera del protezionismo, del nazionalismo, delle politiche anti-immigrazione ma anche di ideologia e stile.
Il concetto di “sovranismo”, usato spesso in Italia per descrivere le posizioni dell’attuale coalizione 5 Stelle-Lega al governo è molto vicina all’idea della democrazia sovrana di Putin, che è in effetti un altro nome per descrivere la democrazia illiberale del regime a maggioranza nazionalista. Tutte queste correnti in Europa condividono comunque il disprezzo per le pratiche e le premesse dell’integrazione europea e appaiono determinate a minarle dall’interno. Cercano in tutti i modi di sfruttare la Russia di Putin e l’America di Trump come fonte di legittimazione delle proprie scelte politiche, contrapponendole così alle debolezze dell’Europa.
Secondo l’ormai noto ritornello, l’Europa, determinata a voler costruire un’unione quasi federale, ha trascurato il suo popolo: sfruttando temi come la percezione di un potere d’acquisto sempre più debole o le minacce provenienti dalle periferie degradate, i populisti si sono dipinti come le forze sensibili alle esigenze del popolo e capaci di ripulire l’agenda europea dal sempre più surreale discorso sulla mutualizzazione del debito o quello sull’esercito europeo. Questa non è una presa di posizione contro l’Europa in sé, ma contro un’Europa che è vista distante dai cittadini. Per usare le parole di Salvini: “se ci sono direttive europee che danneggiano le famiglie e le imprese italiane, per noi non esistono”. Tuttavia questa visione ha grossi limiti, poiché queste direttive sono parte di una compatta integrazione regionale che da sola può fare dell’Europa una forza persuasiva a livello globale. L’ordine mondiale viene visto in maniera fortemente diversa da Washington e Mosca piuttosto che da Bruxelles o qualsiasi altra capitale europea. Almeno per il momento, gli Stati Uniti e la Russia possono radunare le loro risorse e fare pressione per produrre un effetto trasformatore, benché reazionario, sugli affari mondiali. L’imposizione dei dazi sulle importazioni potrebbe effettivamente ridisegnare i contorni delle relazioni commerciali globali, così come l’annessione Russa della Crimea ha riaperto questioni di sovranità e autodeterminazione che si pensava fossero ormai archiviate nei meandri del diciannovesimo secolo.
Me mentre Washington e Mosca possono, a buon motivo, starsene appollaiati nel punto più alto di un’arena globale sostanzialmente anarchica dove rimangono pochi centri di potere che competono tra loro, l’Europa, e men che mai i suoi stati membri non possono permettersi questo lusso. I movimenti populisti al suo interno e ora sempre di più i governi nazionali non hanno il peso per attirare l’attenzione né tantomeno per giocare un ruolo attivo, oltre ai confini di un continente sempre più isolazionista.
Puntare sui cavalli vincenti di Trump e Putin potrebbe essere un espediente efficace nel breve termine a livello nazionale, ma dato che il nativismo e il protezionismo sono per loro stessa natura esclusivi, aspettarsi che l’Europa possa trarre qualche beneficio da questo approccio nel lungo periodo è un vero e proprio ossimoro.
Non c’è dubbio che le iniziative europee sul piano globale siano state troppo episodiche per lasciare un segno. Ad eccezione dell’accordo sul nucleare con l’Iran, il cui destino è comunque sempre più incerto, l’ultimo atto di potere trasformativo dell’Europa in politica estera è stato l’allargamento verso l’Europa centro-orientale, che risale comunque ad oltre un decennio fa. Con l’indebolirsi anche di questo processo, in particolare con il caso della Turchia, altro notevole esempio di regime illiberale, l’Europa non ha mantenuto la promessa di apportare benefici tangibili oltre i propri confini.
All’interno dell’Europa, si è verificato un distacco tra coloro che difendono una politica estera comune che promuove valori liberali e un pubblico sempre più diffidente nei confronti dei valori dell’apertura e dell’integrazione. Ed è proprio in questo sempre più ampio divario che i populisti europei si sono inseriti con successo. Così facendo, però, hanno anche alterato l’equilibrio tra le politiche interne e quelle esterne. Attribuendo eventi come la crisi migratoria all’ingenuità della classe politica liberale, i populisti sono riusciti di fatto a sostenere che gli elettori stessi potessero spezzare il legame tra quanto avviene all’interno dei confini nazionali – la gestione dell’integrazione con gli immigrati – e quanto si verifica fuori da essi, facendo crescere vertiginosamente i conflitti faziosi in Medioriente e Nord Africa.
La risposta sbilenca dell’Europa alla crisi migratoria non ha fatto altro che rafforzare il gap tra la sicurezza interna e quella esterna. L’approccio difensivo adottato dal mainstream politico europeo, focalizza il dibattito sul costo dell’interdipendenza. Certamente, i benefici dell’interdipendenza non sono sempre immediati, ma le reazioni a catena nel lungo periodo possono essere di notevole rilevanza. L’interdipendenza in una mercato di mezzo miliardo di persone ha trasformato la Commissione, il braccio esecutivo dell’UE, in una formidabile paladina dell’antitrust. Inoltre, ha permesso ad oltre 9 milioni di studenti di beneficiare del programma Erasmus che è diventato un marchio costitutivo dell’identità dei giovani europei. Ancora, l’interdipendenza attraverso una sempre più profonda integrazione ha fatto dell’Europa un vasto spazio politico libero dalla violenza e governato dallo stato di diritto.
Che sia in Europa o altrove, la reazione negativa alla globalizzazione non cambia il fatto che lo stato-nazione tradizionale si sia dimostrato inadeguato a contenere la portata pervasiva della tecnologia, del commercio, delle corporazioni, delle informazioni e dei media. Paradossalmente, questo assunto è stato identificato, in maniera totalmente ignara, dallo stesso Salvini che recentemente si è fatto promotore dell’alleanza transnazionale dei populisti. I populisti europei sembrano avere dato per scontato i risultati di un’Europa che è diventata sempre più integrata proprio per fronteggiare le sfide dell’interdipendenza globale, ma allo stesso tempo sembrano screditare le istituzioni e le pratiche necessarie a fronteggiare tali sfide.
Essi sono dunque cittadini europei in pratica ma non in politica pur avendo adottato una visione transnazionale dell’Europa. Nonostante ciò, sviluppi cruciali come il mercato unico, l’Euro e la libera circolazione delle persone sono stati ideati per diventare beni internazionali nell’interesse pubblico. Ciò che hanno portato e dove invece hanno fallito dovrebbe rappresentare l’inizio e non la fine di una conversazione sul modo in cui la società e soprattutto le democrazie “giovani” si organizzano e si auto-governano.
La visione transnazionale globale a somma zero di Trump e Putin può infatti trasformare radicalmente il modo in cui l’America e la Russia si posizionano nel contesto nazionale e internazionale ma difficilmente questa andrà a beneficio di qualcun altro. Comprendere ed essere pronti a reagire alle realtà di governance transnazionale è un imperativo, anche nell’Europa populista.