Quello che le crisi europee ci insegnano
Le considerazioni di Marco Piantini nell’intervento di apertura di questo forum sono un prezioso aiuto per affrontare in modo non ingenuo la domanda cruciale che si pone sul futuro dell’Unione Europea nello scenario attuale.
È evidente ai più – dalle istituzioni europee, a quelle nazionali e alla società civile – che l’Unione sta attraversando un momento di faticosa e incerta transizione.
Dal 2008, l’anno dello scoppio della bolla finanziaria negli Stati Uniti che poi ha investito tutta l’economia mondiale, l’Unione è stata messa alla prova da una serie di crisi. All’inizio vi è stata quella economica, finanziaria e monetaria, che ha colpito con particolare forza i Paesi dell’Europa meridionale a livello di disoccupazione, in particolare giovanile, e di crescenti diseguaglianze, oltre a investire il sistema bancario europeo, l’euro e le politiche di bilancio degli Stati. Si è poi aggiunta quella umanitaria dovuta all’arrivo alle frontiere europee di richiedenti asilo e migranti, provenienti soprattutto dalla Siria e dall’Africa subsahariana, che chiedono di poter entrare in Europa per sottrarsi alle minacce mortali di guerre, violenze, regimi dittatoriali e/o per avere una vita più dignitosa. Inoltre, il nostro continente è stato scosso dagli attacchi terroristici organizzati – o ispirati – dallo Stato islamico, che hanno posto il tema della sicurezza in cima delle agende politiche e hanno acuito il senso di timore e di sospetto nei confronti dei musulmani che vivono nei nostri Paesi, accrescendo i problemi di integrazione già esistenti. Infine, è arrivata la Brexit: la scelta dei cittadini britannici di uscire dall’Unione ha mandato in frantumi l’idea, cullata nel corso degli allargamenti dell’Unione dopo la caduta del Muro di Berlino, che il processo di integrazione europea sia irreversibile, destinato a estendersi in modo progressivo a tutte le nazioni europee. A questo si sono aggiunte la rottura del multilateralismo da parte dell’Amministrazione Trump, che ha reso più sola l’Unione a livello internazionale, la crescita delle posizioni antieuropeiste in tanti Paesi europei e le difficili relazioni con alcuni Stati membri, come la Polonia e l’Ungheria, le cui scelte di politica interna sono ritenute in contrasto con lo Stato di diritto (al punto che si è fatto ricorso alla procedura prevista all’art. 7 del Trattato di Lisbona).
Per descrivere questo insieme di eventi si ricorre generalmente alla parola “crisi”. Si tratta di una scelta significativa, dato che questo termine non evoca un semplice problema che può essere affrontato e risolto ricorrendo a soluzioni ordinarie. Al contrario, l’uso della parola “crisi” denuncia una difficoltà profonda, che tocca alla radice la realtà coinvolta (sia essa una persona o un’istituzione), rimettendone in discussione l’identità, il comportamento, le scelte, e la cui soluzione richiede necessariamente il dispiegarsi di energie, risorse e soluzioni straordinarie. Un altro elemento va, infine, aggiunto: una crisi riguarda sempre un aspetto cardine. Se si “entra in crisi”, allora lo status quo non è più sufficiente a rispondere alle necessità fondamentali. In questo senso, però, la crisi rivela ciò che è vitale ed essenziale per la persona o l’istituzione toccata e scossa, qualcosa che è “malato” e va “guarito”, che va rivitalizzato.
Queste ultime considerazioni mi sembrano cruciali se pensiamo al momento che sta attraversando l’Unione Europea. Che cosa si è rotto in Europa negli ultimi anni, a partire del “no” francese e olandese alla Costituzione europea? Che cosa ci indicano le crisi elencate da tutti gli osservatori a proposito di ciò che è vitale ed essenziale per la costruzione europea? La crisi economica – scoppiata nel quadro mondiale della globalizzazione e di un sistema produttivo che si avviava a entrare nella quarta rivoluzione industriale – ha colpito le aspettative di benessere dei cittadini europei, rendendoli più vulnerabili e poveri e ha mostrato i limiti dell’attuale governance europea in campo economico. Le incertezze sul fronte economico hanno di sicuro pesato sull’atteggiamento tenuto nei confronti della crisi umanitaria, in cui si può rinvenire un groviglio di elementi, alcuni razionali e altri irrazionali, che vanno dai timori di veder ancor più pregiudicata la propria posizione economica a causa di chi arriva alle paure suscitate da chi è un estraneo per storia, cultura, religione. Da tutti questi elementi nasce un senso di insicurezza, amplificato in modo esponenziale dai violenti attacchi terroristici che hanno colpito le grandi città europee.
A fronte di questo scenario, si registra l’insofferenza manifestata da un numero consistente di cittadini europei, che avverte le istituzioni di Bruxelles come distanti, talvolta inutili e costose, se non addirittura ostili e nemiche. Un dato che non può essere sottovalutato da chi è chiamato a guidare l’Unione, perché ne segnala uno scollamento preoccupante dalla società civile. Questo malessere è interpretato – e alimentato – da alcuni partiti politici che hanno fatto del ritorno alla sovranità nazionale il loro cavallo di battaglia, negando la solidarietà europea in modo selettivo, scegliendo i dossier su cui impegnarsi e quelli su cui ritirarsi. Le loro posizioni sono sostenute da una narrazione potente ed efficace, che ha una forte presa sull’immaginario delle persone, facendo leva sull’insicurezza, l’insoddisfazione, le paure per l’avvenire. La Brexit (tenendo conto di tutte le peculiarità della partecipazione del Regno Unito al progetto europeo) costituisce un episodio esemplificativo di questa dinamica disgregativa del processo europeo.
Tuttavia, se consideriamo gli ambiti toccati da queste multiple e distinte crisi, non si può fare a meno di considerare che le attuali fatiche dell’Unione si concentrano su due aspetti – la possibilità di vivere in uno spazio pacifico e sicuro; il benessere socioeconomico – che hanno esercitato un ruolo cruciale nella decisione di alcuni Governi europei di dare vita alla CECA negli anni cinquanta e che poi possiamo rintracciare, pur con accenti distinti, nelle scelte che hanno spinto i vari Stati europei a entrare a far parte delle Comunità europee prima e dell’Unione Europea dopo. Ciò che oggi preoccupa gli europei – e mette in crisi l’Unione Europea – è l’improvvisa fragilità, inattesa e destabilizzante, che si sperimenta proprio a questo duplice livello: il vivere in pace e l’esistenza di prospettive di benessere per sé e le generazioni future. In questo contesto fragile, ciò che rischia di non essere più visto e riconosciuto sono le realizzazioni che il processo di integrazione ha realizzato nel corso di questi decenni a livello di diritti dei cittadini, di economia, di pace nel continente europeo. Un’originale e inedita pax europaea, progetto ambizioso e lungimirante, che si è tradotto in realtà come ha anche riconosciuto l’attribuzione del Nobel per la pace all’Unione nel 2012. La narrazione istituzionale risulta, però, debole e inefficace nel presentare quanto realizzato nel tempo e nell’aiutare a riconoscere che certi standard non sono scontati. Dell’importanza e dell’ampiezza dei risultati raggiunti a livello europeo stanno prendendo coscienza anche i cittadini e la classe dirigente del Regno Unito, seguendo i faticosi negoziati post Brexit. Quando poi si tratta di comunicare le ragioni fondamentali della costruzione europea, la narrazione si ammanta talora di uno sguardo nostalgico verso il passato (ad esempio, il richiamo delle scelte compiute dai padri fondatori dell’Europa), evocato in un modo che non è più capace di parlare all’oggi e di stimolare positivamente la costruzione dell’avvenire.
In modo quasi paradossale, le crisi allo stesso tempo rivelano impietosamente i punti critici della costruzione europea e confermano ancora una volta la bontà del processo avviatosi in Europa oramai settanta anni fa. Il progetto che ha animato la nascita dell’integrazione europea non è superato, ma si tratta di coglierne nuovamente in modo pieno e condiviso la finalità, le potenzialità e le conseguenze. Come europei desideriamo e ricerchiamo ancora la pace e la possibilità di un benessere che sia sempre più accessibile a tutti. Lo sguardo rivolto al passato deve essere allora capace di ridare slancio al presente, sapendo restituire all’intuizione originaria vitalità e pertinenza per l’oggi.
Il politico francese Jean Monnet, uno degli ispiratori e realizzatori del sogno europeo, sosteneva che l’avanzare dell’integrazione europea avviene attraverso passaggi difficili: «l’Europa sarà forgiata dalle sue crisi e sarà la somma delle soluzioni trovate per risolvere tali crisi». Oggi, la ricerca delle risposte e la loro attuazione richiedono di avviare una serie riflessione su che cosa significhi pace e sviluppo per i Paesi europei nel XXI secolo. Non siamo più all’indomani della Seconda guerra mondiale, con un’Europa spaccata a metà dalla cortina di ferro, con alcuni Stati che sono ancora potenze coloniali, con un processo di riconciliazione tra Francia e Germania tutto da inventare e una situazione economica che portava ben evidenti le ferite inflitte dal lungo conflitto. Ridare pregnanza alla costruzione europea significa interrogarsi sul senso da dare alla pace in un’epoca in cui i rischi non vengono tanto da attacchi di Stati stranieri, quanto da attentati terroristici, dalla messa in discussione dei principi dello Stato di diritto, dal venir meno di luoghi istituzionali in cui possa trovare voce il conflitto sociale o da una comunicazione segnata da “fatti alternativi”, fake news e altri fenomeni analoghi che alterano il dibattito democratico. Allo stesso modo, per lo sviluppo si tratta di riflettere sul modo di comprenderlo e declinarlo alla luce degli obiettivi dell’Agenda 2030, dell’Accordo di Parigi in tema di clima, della consapevolezza suscitata dalla Laudato si’ di dover battere nuove vie di fronte allo stretto legame tra crisi ecologica e crisi sociale. Passi per avanzare verso una nuova comprensione di pace e sviluppo per i Paesi e i popoli europei sono stati già compiuti, alle volte in modo timido (basti pensare al pilastro europeo dei diritti sociali), e si tratta di procedere con maggiore decisione e convinzione.
Per giungere davvero a una nuova comprensione è necessario un processo condiviso, in cui vi sia un serio confronto tra le esperienze profondamente diverse dei Paesi che compongono l’Unione. Questo presuppone di superare una logica in cui si continua a pensare le differenze esistenti tra est e ovest, tra sud e nord in termini di “bravi/cattivi”. Se ciò non accade, non vi è spazio alcuno per una reale soluzione alle attuali crisi, perché manca il mutuo riconoscimento della dignità di ciascuna componente dell’Unione, tenendo conto di tutte le specificità e caratteristiche. La nascita della CECA nel 1952 non avrebbe avuto nessun seguito se i vincitori e i vinti della Seconda guerra mondiale non si fossero seduti al tavolo del negoziato in una condizione di pari dignità. Il mancato riconoscimento costituisce uno dei fattori che rafforza i partiti che attaccano l’Unione Europea e propongono il ritorno al livello nazionale come scelta di maggiore garanzia, che assicuri davvero la tutela dei diritti e il soddisfacimento dei bisogni dei cittadini. Proprio questa opzione rivela la distanza che separa le proposte sovraniste da quella europea su un punto cruciale. La costruzione europea si basa sulla convinzione che possiamo avere pace e sviluppo solo se si opera insieme, perché ci sono beni comuni che possono essere tutelati e fruiti solo a un livello più ampio di quello statale, come ad esempio la questione della sicurezza. Per il sovranismo, invece, la via da percorrere non è quella di una collaborazione solidale, ma della divisione, mettendo a rischio proprio il raggiungimento di alcuni beni in sé incompatibili con una logica di concorrenza reciproca.
Lo sforzo di creatività politica che si impone è di sicuro di prima grandezza, ma i Paesi europei hanno già dato prova nel passato di saper avanzare in modo originale ed efficace, quando hanno saputo mettere in gioco la collaborazione reciproca e audaci visioni del futuro.