Strumenti comuni per problemi e beni comuni
Giungo con ritardo nel dibattito sugli interrogativi posti da Marco Piantini e questo mi da il vantaggio di poter tenere conto di quel che è successo dal luglio scorso quando lui li ha formulati e di beneficiare di quanto è già stato autorevolmente scritto nel frattempo sul tema.
Le imminenti elezioni europee costituiranno un passaggio cruciale per il destino dei popoli del nostro continente, dentro e fuori l'Unione, e mi permetto di dire per il mondo. In questo contesto l'Italia è particolarmente vulnerabile e quanto sta accadendo in questi giorni lo conferma.
Non mi soffermo sulle ragioni che sono ben note e bene evidenziate da chi mi ha preceduto in questo foro. Chi vuole evitare il peggio ha oggi il dovere di delineare una strategia che non si limiti a smascherare le incongruenze, le contradizioni e le false rappresentazioni della realtà dei nazional-populisti. Essa deve anche offrire una prospettiva programmatica, ovviamente europea, che inverta la subordinazione culturale su molti temi a quello che viene presentato come "lo spirito dei tempi", e che uscendo dalla genericità affronti alcuni dei nodi all'origine della deriva che si è determinata.
Occorre partire da quei nodi e quindi dalla sommatoria degli effetti determinati da una globalizzazione e da una rivoluzione tecnologica mal governate, dalla crisi economico-finanziaria manifestatasi prima negli Stati Uniti e ampliatasi poi in alcuni paesi europei tra cui l'Italia in relazione all'eccesso di debiti sovrani, dalle modalità con cui la crisi è stata affrontata in Europa diversamente che in America, dall’impatto di flussi migratori aumentati in breve tempo a causa di situazioni conflittuali e fallimenti di Stati in Medio Oriente e in Nord Africa uniti ad una accentuazione degli arrivi di persone provenienti dall'Africa sub-sahariana dovuta da un lato allo sfaldamento della Libia diventata centro del traffico di esseri umani, e dall'altro alle conseguenze di una crescita africana squilibrata, a volte discriminante su basi etniche e religiose o percepita come tale, e dei cambiamenti climatici.
Una politica di gestione delle ragioni che hanno prodotto i disagi su cui hanno fatto presa i nazional-populisti dovrebbe quindi affrontare le seguenti questioni:
- rilancio della crescita; si è usciti dalla recessione, ma la ripresa stenta soprattutto in Italia, e per favorirla occorrono rilevanti investimenti pubblici in infrastrutture, innovazione e conoscenza in grado di stimolare, assieme a riforme sul funzionamento del mercato, quelli privati;
- disponibilità di un adeguato e sostenibile sistema di ammortizzazione sociale per alleviare gli effetti della disoccupazione, contrastare le povertà che ne derivano e adeguare le capacità professionali alle nuove esigenze nella produzione di beni e servizi;
- risanamento delle aree in cui maggiore è il disagio sociale e l'insicurezza, reale o percepita;
- integrazione ed inclusione degli immigrati che oltre ad una legislazione funzionale a questo scopo, riducendo e non aumentando il numero delle persone in condizioni di irregolarità, richiedono l'impiego di notevoli risorse umane e finanziarie;
- cooperazione con i paesi di origine e di transito delle migrazioni, diretta a sostenere rimpatri volontari e assistiti, a gestire canali di migrazione legali, ad orientare una crescita più inclusiva, equilibrata e sostenibile, a favorire gli investimenti in attività generatrici di occupazione e di reddito, a contrastare i danni ambientali, ad affrontare la questione demografica e l'empowerment della componente femminile, a sostenere istituzioni e capacità di governo dotate di legittimazione democratica in grado di gestire i processi di sviluppo;
- svolgimento in modo più consistente, coerente ed efficace di attività di stabilizzazione e gestione delle crisi assieme alle Nazioni Unite, all'Unione Africana e ad altre organizzazioni regionali con strumenti comprensivi, laddove necessario, di quelli militari;
- costruzione quindi di una difesa europea che pur nel contesto dell'Alleanza Atlantica dia autonomia strategica all'Unione in materia di gestione delle crisi in un mondo multipolare nel quale crescono nuove potenze, realizzando economie di scala e quindi progressive condivisioni di sovranità cui occorre predisporsi anche in questo campo.
Tutto ciò richiede notevoli risorse che soprattutto i paesi con bassa crescita ed alti livelli di indebitamento, ma anche gli altri, non possono mobilitare, né in condizioni di equilibrio di bilancio né in deficit.
Si tratta di problemi che possono essere affrontati soltanto a livello europeo, pena la condanna dei popoli dell'Unione alla marginalizzazione, all'irrilevanza e alla subordinazione. E' una costatazione banale. Ma è da questa che occorre partire promuovendo l'approntamento degli strumenti per reperire e usare le risorse necessarie.
A questo scopo occorre una capacità fiscale e di spesa comune gestita da una autorità politica auspicabilmente all'interno della Commissione responsabile davanti al Parlamento Europeo, di dimensioni commisurate agli obbiettivi che si vogliono perseguire con questo strumento nel rispetto del principio di sussidiarietà ma ben oltre l'1% del PIL europeo dell'attuale bilancio dell'UE. Essa dovrà essere dotata di risorse proprie e della possibilità di ricorrere al mercato dei capitali con capacità di garanzia delle relative obbligazioni. Le risorse proprie dovrebbero derivare da una imposizione europea sulle imprese multinazionali del web, da eventuali forme di carbon tax, da recuperi per quanto possibile sull'elusione derivante dalle sperequazioni impositive esistenti all'interno dell'Unione e da altri prelievi che limitino al massimo le possibilità di trasferimento e di aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese.
Di una prospettiva di questo tipo hanno parlato in diversi momenti e in varie forme esponenti dei Governi italiani presieduti da Letta, Renzi e Gentiloni, il Presidente Hollande e poi il Presidente Macron, mentre la Cancelliera Merkel ne ha accolto il concetto come possibilità di cui ha però finora ipotizzato dimensioni che ne vanificherebbero la portata e l'efficacia.
Questo sistema, la cui esigenza è avvertita soprattutto per il buon funzionamento dell'Eurozona, non comporterebbe alcuna forma di mutualizzazione di debiti pregressi che rimarrebbero in capo ai paesi debitori ed eliminerebbe i rischi di azzardo morale che nel clima di scarsa fiducia reciproca manifestatasi negli ultimi anni hanno contribuito a frenare politiche di crescita nell'Unione.
Ma per realizzarlo occorre una forte volontà politica che al momento appare alquanto lontana e che non si vede come possa emergere unanimemente tra i ventisette stati membri. Lo potrà eventualmente essere tra un numero inizialmente limitato di paesi in una prospettiva di integrazione differenziata che mantenendo per tutti gli acquis del mercato unico e di tutte le politiche fin qui avviate, purché siano rispettati gli impegni contenuti nei trattati, abbia un nucleo che intende procedere verso una integrazione sempre più stretta, ricorrendo per quanto possibile a quanto già previsto dai trattati stessi o a nuovi strumenti pattizi che non pregiudichino quelli esistenti. Occorrerà operare affinché l’Italia ne faccia parte.
La definizione di una capacità di spesa di questo tipo con i suoi corollari istituzionali, diretta ad affrontare i problemi su cui hanno prosperato le forze nazional-populiste, e di cui non sfuggono peraltro le difficoltà di attuazione, potrebbe costituire un denominatore comune di forze europeiste che lascerebbero poi alla dialettica politica nell'ambito di un comune contenitore istituzionale le scelte dell'elettorato su contenuti e dimensioni delle attività regolatrici, distributive e programmatorie del settore pubblico a tutti i livelli, facendo comunque chiaramente comprendere che nessun problema può essere adeguatamente affrontato e risolto, in una direzione o in un'altra, al di fuori di una sempre maggiore integrazione europea.