Improvvisamente il mondo scoprì di essere fragile. E il paradosso è che la fragilità si è manifestata in Cina, il simbolo per eccellenza della globalizzazione e delle sue illimitate potenzialità.
Sì, un epidemia suscitata da un virus sconosciuto ha sconvolto le nostre vite e la vita del mondo. E così dopo aver predicato e praticato mercati aperti e superamento delle barriere, ci ritroviamo a chiudere frontiere, interrompere comunicazioni, rinchiuderci ognuno nel proprio orto. Dopo aver promosso società aperte e cosmopolite, regrediamo nella nostalgia delle nazioni e del localismo. Dopo aver esaltato acriticamente le virtù della globalizzazione, scopriamo che un mondo globale senza regole e governance espone miliardi di persone al rischio. Dopo aver creduto nella crescita lineare e infinita della produzione di beni e merci, siamo costretti a fare i conti con i limiti strutturali dello sviluppo e della natura. Dopo aver accettato - e spesso enfatizzato - politiche di riduzione della spesa pubblica, dobbiamo prendere atto che salute, formazione, vita sono beni preziosi non subordinabili all’aridità contabile degli equilibri di bilancio. Dopo aver scommesso sulla sovranazionalità e sulle istituzioni internazionali, constatiamo che alla prima seria criticità globale le istituzioni sovranazionali sono deboli e prive di strumenti.
E scopriamo anche che i ritmi frenetici della società di internet, degli e-bay, dei social, dei discount, degli all-inclusive non ci offrono più sicurezza, ne’ più felicità. E scopriamo che, per non vanificare l’enorme fatica delle strutture terapeutiche e sanitarie e fermare la diffusione del contagio, prezioso è il focolare domestico.
Sì, COVID-19 ci costringe a ripensare il nostro modo di vivere e il mondo in cui viviamo.
Non con la testa rivolta all’indietro, non con la nostalgia di ere dell'oro in realtà mai esistite. Né con una pregiudiziale diffidenza verso le mille e mille innovazioni che in ogni campo ogni giorno si aprono. Né con una ostilità ideologica alle tante opportunità che le società aperte offrono, in primo luogo ai giovani.
Si esce dal buco nero del coronavirus se, guardando avanti e scommettendo sul futuro, si progetta un mondo “nuovo” rispettoso dell’uomo e della natura. Questo virus chiama la politica a riflettere seriamente sulle sue finalità, sulle sue priorità, sulla relazione con i beni primari della vita.
Ce lo chiedono quei milioni di giovani che in tutto il mondo hanno raccolto l’appello di Greta a fermare il degrado del pianeta. Ce lo chiedono quei tanti scienziati oggi in prima linea nel difendere la vita dall’insidia mortale di un bacillo sconosciuto. Ce lo chiedono quei tanti profughi che fuggono da guerre che la comunità internazionale non è capace di fermare. Ce lo chiede quella moltitudine di donne e uomini che emigra dalla propria terra quando invece vorrebbe trovare ragioni di vita e dignità nel luogo in cui è nato e cresciuto.
Sì serve un cambio di passo, un mutamento di paradigma. Serve la consapevolezza che il destino del mondo - e il destino di ciascuno di noi - richiede una assunzione di responsabilità individuale e collettiva. E che nessuna anonima tecnologia può sostituire la ragione umana, i sentimenti che muovono cuore e cervello, le relazioni interpersonali, il senso di appartenenza a una comunità, i valori civici e sociali che presiedono alla convivenza.
Da questa dolorosa epidemia il mondo uscirà. Ma non è indifferente se la archivierà come un brutto incidente o ne trarrà forza per intraprendere un cammino nuovo.
Coronavirus. Un mondo fragile
Improvvisamente il mondo scoprì di essere fragile. E il paradosso è che la fragilità si è manifestata in Cina, il simbolo per eccellenza della globalizzazione e delle sue illimitate potenzialità.
Sì, un epidemia suscitata da un virus sconosciuto ha sconvolto le nostre vite e la vita del mondo. E così dopo aver predicato e praticato mercati aperti e superamento delle barriere, ci ritroviamo a chiudere frontiere, interrompere comunicazioni, rinchiuderci ognuno nel proprio orto. Dopo aver promosso società aperte e cosmopolite, regrediamo nella nostalgia delle nazioni e del localismo. Dopo aver esaltato acriticamente le virtù della globalizzazione, scopriamo che un mondo globale senza regole e governance espone miliardi di persone al rischio. Dopo aver creduto nella crescita lineare e infinita della produzione di beni e merci, siamo costretti a fare i conti con i limiti strutturali dello sviluppo e della natura. Dopo aver accettato - e spesso enfatizzato - politiche di riduzione della spesa pubblica, dobbiamo prendere atto che salute, formazione, vita sono beni preziosi non subordinabili all’aridità contabile degli equilibri di bilancio. Dopo aver scommesso sulla sovranazionalità e sulle istituzioni internazionali, constatiamo che alla prima seria criticità globale le istituzioni sovranazionali sono deboli e prive di strumenti.
E scopriamo anche che i ritmi frenetici della società di internet, degli e-bay, dei social, dei discount, degli all-inclusive non ci offrono più sicurezza, ne’ più felicità. E scopriamo che, per non vanificare l’enorme fatica delle strutture terapeutiche e sanitarie e fermare la diffusione del contagio, prezioso è il focolare domestico.
Sì, COVID-19 ci costringe a ripensare il nostro modo di vivere e il mondo in cui viviamo.
Non con la testa rivolta all’indietro, non con la nostalgia di ere dell'oro in realtà mai esistite. Né con una pregiudiziale diffidenza verso le mille e mille innovazioni che in ogni campo ogni giorno si aprono. Né con una ostilità ideologica alle tante opportunità che le società aperte offrono, in primo luogo ai giovani.
Si esce dal buco nero del coronavirus se, guardando avanti e scommettendo sul futuro, si progetta un mondo “nuovo” rispettoso dell’uomo e della natura. Questo virus chiama la politica a riflettere seriamente sulle sue finalità, sulle sue priorità, sulla relazione con i beni primari della vita.
Ce lo chiedono quei milioni di giovani che in tutto il mondo hanno raccolto l’appello di Greta a fermare il degrado del pianeta. Ce lo chiedono quei tanti scienziati oggi in prima linea nel difendere la vita dall’insidia mortale di un bacillo sconosciuto. Ce lo chiedono quei tanti profughi che fuggono da guerre che la comunità internazionale non è capace di fermare. Ce lo chiede quella moltitudine di donne e uomini che emigra dalla propria terra quando invece vorrebbe trovare ragioni di vita e dignità nel luogo in cui è nato e cresciuto.
Sì serve un cambio di passo, un mutamento di paradigma. Serve la consapevolezza che il destino del mondo - e il destino di ciascuno di noi - richiede una assunzione di responsabilità individuale e collettiva. E che nessuna anonima tecnologia può sostituire la ragione umana, i sentimenti che muovono cuore e cervello, le relazioni interpersonali, il senso di appartenenza a una comunità, i valori civici e sociali che presiedono alla convivenza.
Da questa dolorosa epidemia il mondo uscirà. Ma non è indifferente se la archivierà come un brutto incidente o ne trarrà forza per intraprendere un cammino nuovo.