Da mesi una domanda impetuosa di cambiamento soffia sul mondo. Un movimento di cui sono protagoniste grandi masse di cittadini - in primo luogo i giovani - che si mobilitano fuori dei canali politici tradizionali, contestano le classi dirigenti al potere, chiedono riforme e democrazia.
È avvenuto in Sudan dove un regime militare dispotico e sanguinario è stato costretto a lasciare il potere sull’onda di una mobilitazione di opinione pubblica e di società civile, di cui sono stati protagonisti le donne, i giovani e il mondo delle professioni. Accade in Algeria dove da mesi ogni venerdì grandi folle di cittadini riempiono le piazze delle città invocando un’elezione presidenziale che non sia sequestrata da chi da decenni tiene in mano il Paese. Accade in Libano dove decine di migliaia di giovani sono protagonisti di una contestazione delle oligarchie familiari che da sempre si spartiscono il potere nel paese dei Cedri. Accade in Serbia dove ogni sabato migliaia di cittadini si riversano nelle strade di Belgrado denunciando i tanti casi di corruzione, contestando il potere del Presidente Vucic e invocando nuove elezioni rispettose degli standard democratici europei. Ogni giorno arrivano nelle nostre case le immagini drammatiche di Hong Kong dove è in corso una aspra e drammatica lotta tra un vasto movimento, guidato dai giovani, che rivendica libertà e autonomia, contestando un potere centrale succube della volontà di Pechino. In Bolivia un movimento di piazza ha costretto il Presidente Morales a lasciare il potere e rifugiarsi in Messico. Da oltre un anno il Venezuela è scosso da una lotta che contrappone un vasto movimento di opinione al regime del Presidente Maduro. È di queste settimane l’esplodere in Cile di moti di protesta improvvisi e inaspettati. E in Iran tornano in piazza i giovani per rivendicare libertà e laicità. E tutto questo avviene in un mondo che vede milioni di giovani raccogliere l’appello di Greta Thunberg per rivendicare in ogni Paese politiche ambientali e di salvaguardia del pianeta.
Certo si tratta di situazioni diverse e ciascuna va valutata per le specifiche condizioni politiche di ogni Paese. Ma vi sono alcuni tratti comuni e trasversali che si ritrovano in ogni situazione.
Il primo è che si tratta di movimenti di opinione e di società che nascono e si sviluppano fuori dei canali politici tradizionali. Non nascono per iniziativa di partiti, che anzi sono quasi sempre nel mirino della critica civile dei movimenti. E ovunque si reclama un ricambio radicale di classi dirigenti e personale politico.
Una seconda caratteristica comune è l’assenza di leadership formali, anzi sono proprio l’informalità e la spontaneità organizzativa che hanno consentito una partecipazione così ampia e trasversale, coinvolgendo donne e uomini di ogni generazione e di ogni condizione sociale.
E, infine, tratto comune è il ricorso ai social e alla comunicazione digitale come strumento principale di mobilitazione.
Un fenomeno non dissimile nelle modalità e nelle forme da ciò che accadde nel 1968, da Berkeley a Parigi, da Berlino a Città del Messico, da Tokyo a Roma.
Anche oggi, come allora, un movimento di cui sono protagonisti i giovani - e tantissime ragazze - che esprimono una critica radicale delle classi dirigenti al potere, denunciandone l’inamovibilità (e spesso la permeabilità alla corruzione), contestandone l’autorità e richiedendone il cambiamento. Anche oggi, come allora, movimenti che rifiutano di essere guidati da gerarchie e leadership formali in nome di una partecipazione democratica e ugualitaria.
Ma a differenza di allora, oggi la protesta non si manifesta solo in Occidente, investendo anche paesi mediterranei, africani, latinoamericani in una sorta di “globalizzazione civica” che - a differenza di cinquant’anni fa - può beneficiare della potenza comunicativa dei social e delle piattaforme digitali, che consentono in pochi istanti la dilatazione virale dei messaggi a vantaggio di una chiamata “spontanea” alla mobilitazione dei cittadini.
Andando più a fondo, sarebbe miope non vedere anche in questi movimenti una manifestazione della crisi che vive oggi la democrazia rappresentativa che fatica sempre di più a stare al passo dei grandi cambiamenti che ridisegnano il profilo della società e manifesta difficoltà a raccogliere le domande dei cittadini e a soddisfare le loro aspettative.
Una crisi che in altri Paesi - Turchia, Russia, Ungheria, Polonia, Filippine per citare i casi più evidenti - si manifesta in modo opposto: con l’affermarsi dentro involucri costituzionali democratici di una gestione autocratica e autoritaria del potere, esercitando omologazione degli apparati pubblici, controllo sui media, sulle università e sulle professioni, riducendo gli spazi di agibilità politica per opposizioni, mondo della cultura e società civile.
Peraltro è fenomeno generale di tutti i paesi democratici una crisi delle forme di rappresentanza sociale e politica - partiti, sindacati, associazioni professionali e di categoria - che vivono una crisi di consenso e una riduzione di ruolo e di peso. Ed è in questa crisi che sono venuti nascendo e affermandosi movimenti neonazionalisti e populisti che predicano la “democrazia illiberale”, espressione che è un evidente ossimoro e che tuttavia bene fotografa una immagine della democrazia sgranata e sfocata.
D’altra parte se si guarda alla evoluzione nel corso della storia del rapporto tra cittadini e potere si può facilmente constatare che le forme di quel rapporto sono mutate in ogni secolo. A questa legge non scritta non sfugge neanche il nostro tempo. La democrazia rappresentativa liberale è stata una grande conquista del ‘900 e i suoi valori, le sue forme, le sue regole hanno plasmato la vita democratica delle nazioni. È stata concepita quando centrale era lo Stato nazione, i mercati erano governati da regole protezioniste, il mondo non viveva una dimensione globale, la società viveva nel tempo differito.
Oggi tutto questo è mutato: la dimensione globale permea l’economia e ogni aspetto della vita del pianeta, i mercati sono aperti, la dimensione sovranazionale risulta necessaria, nuovi attori di ogni continente sono entrati in scena, la società vive in tempo reale, la comunicazione digitale consente a ciascuno di connettersi e interagire con il mondo intero. Tutto questo non può non incidere anche sulle forme delle istituzioni e della politica, della democrazia, del rapporto tra potere e cittadini. E dunque non è davvero inutile interrogarsi su che cosa debba essere la democrazia nel tempo della globalizzazione, della sovranazionalità, dei mercati aperti, di internet.
Quelle migliaia di giovani che con la loro passione e generosità riempiono le piazze del mondo, pongono domande e chiedono risposte a cui nessuno può sottrarsi.
Quei giovani che riempiono le piazze del mondo
Da mesi una domanda impetuosa di cambiamento soffia sul mondo. Un movimento di cui sono protagoniste grandi masse di cittadini - in primo luogo i giovani - che si mobilitano fuori dei canali politici tradizionali, contestano le classi dirigenti al potere, chiedono riforme e democrazia.
È avvenuto in Sudan dove un regime militare dispotico e sanguinario è stato costretto a lasciare il potere sull’onda di una mobilitazione di opinione pubblica e di società civile, di cui sono stati protagonisti le donne, i giovani e il mondo delle professioni. Accade in Algeria dove da mesi ogni venerdì grandi folle di cittadini riempiono le piazze delle città invocando un’elezione presidenziale che non sia sequestrata da chi da decenni tiene in mano il Paese. Accade in Libano dove decine di migliaia di giovani sono protagonisti di una contestazione delle oligarchie familiari che da sempre si spartiscono il potere nel paese dei Cedri. Accade in Serbia dove ogni sabato migliaia di cittadini si riversano nelle strade di Belgrado denunciando i tanti casi di corruzione, contestando il potere del Presidente Vucic e invocando nuove elezioni rispettose degli standard democratici europei. Ogni giorno arrivano nelle nostre case le immagini drammatiche di Hong Kong dove è in corso una aspra e drammatica lotta tra un vasto movimento, guidato dai giovani, che rivendica libertà e autonomia, contestando un potere centrale succube della volontà di Pechino. In Bolivia un movimento di piazza ha costretto il Presidente Morales a lasciare il potere e rifugiarsi in Messico. Da oltre un anno il Venezuela è scosso da una lotta che contrappone un vasto movimento di opinione al regime del Presidente Maduro. È di queste settimane l’esplodere in Cile di moti di protesta improvvisi e inaspettati. E in Iran tornano in piazza i giovani per rivendicare libertà e laicità. E tutto questo avviene in un mondo che vede milioni di giovani raccogliere l’appello di Greta Thunberg per rivendicare in ogni Paese politiche ambientali e di salvaguardia del pianeta.
Certo si tratta di situazioni diverse e ciascuna va valutata per le specifiche condizioni politiche di ogni Paese. Ma vi sono alcuni tratti comuni e trasversali che si ritrovano in ogni situazione.
Il primo è che si tratta di movimenti di opinione e di società che nascono e si sviluppano fuori dei canali politici tradizionali. Non nascono per iniziativa di partiti, che anzi sono quasi sempre nel mirino della critica civile dei movimenti. E ovunque si reclama un ricambio radicale di classi dirigenti e personale politico.
Una seconda caratteristica comune è l’assenza di leadership formali, anzi sono proprio l’informalità e la spontaneità organizzativa che hanno consentito una partecipazione così ampia e trasversale, coinvolgendo donne e uomini di ogni generazione e di ogni condizione sociale.
E, infine, tratto comune è il ricorso ai social e alla comunicazione digitale come strumento principale di mobilitazione.
Un fenomeno non dissimile nelle modalità e nelle forme da ciò che accadde nel 1968, da Berkeley a Parigi, da Berlino a Città del Messico, da Tokyo a Roma.
Anche oggi, come allora, un movimento di cui sono protagonisti i giovani - e tantissime ragazze - che esprimono una critica radicale delle classi dirigenti al potere, denunciandone l’inamovibilità (e spesso la permeabilità alla corruzione), contestandone l’autorità e richiedendone il cambiamento. Anche oggi, come allora, movimenti che rifiutano di essere guidati da gerarchie e leadership formali in nome di una partecipazione democratica e ugualitaria.
Ma a differenza di allora, oggi la protesta non si manifesta solo in Occidente, investendo anche paesi mediterranei, africani, latinoamericani in una sorta di “globalizzazione civica” che - a differenza di cinquant’anni fa - può beneficiare della potenza comunicativa dei social e delle piattaforme digitali, che consentono in pochi istanti la dilatazione virale dei messaggi a vantaggio di una chiamata “spontanea” alla mobilitazione dei cittadini.
Andando più a fondo, sarebbe miope non vedere anche in questi movimenti una manifestazione della crisi che vive oggi la democrazia rappresentativa che fatica sempre di più a stare al passo dei grandi cambiamenti che ridisegnano il profilo della società e manifesta difficoltà a raccogliere le domande dei cittadini e a soddisfare le loro aspettative.
Una crisi che in altri Paesi - Turchia, Russia, Ungheria, Polonia, Filippine per citare i casi più evidenti - si manifesta in modo opposto: con l’affermarsi dentro involucri costituzionali democratici di una gestione autocratica e autoritaria del potere, esercitando omologazione degli apparati pubblici, controllo sui media, sulle università e sulle professioni, riducendo gli spazi di agibilità politica per opposizioni, mondo della cultura e società civile.
Peraltro è fenomeno generale di tutti i paesi democratici una crisi delle forme di rappresentanza sociale e politica - partiti, sindacati, associazioni professionali e di categoria - che vivono una crisi di consenso e una riduzione di ruolo e di peso. Ed è in questa crisi che sono venuti nascendo e affermandosi movimenti neonazionalisti e populisti che predicano la “democrazia illiberale”, espressione che è un evidente ossimoro e che tuttavia bene fotografa una immagine della democrazia sgranata e sfocata.
D’altra parte se si guarda alla evoluzione nel corso della storia del rapporto tra cittadini e potere si può facilmente constatare che le forme di quel rapporto sono mutate in ogni secolo. A questa legge non scritta non sfugge neanche il nostro tempo. La democrazia rappresentativa liberale è stata una grande conquista del ‘900 e i suoi valori, le sue forme, le sue regole hanno plasmato la vita democratica delle nazioni. È stata concepita quando centrale era lo Stato nazione, i mercati erano governati da regole protezioniste, il mondo non viveva una dimensione globale, la società viveva nel tempo differito.
Oggi tutto questo è mutato: la dimensione globale permea l’economia e ogni aspetto della vita del pianeta, i mercati sono aperti, la dimensione sovranazionale risulta necessaria, nuovi attori di ogni continente sono entrati in scena, la società vive in tempo reale, la comunicazione digitale consente a ciascuno di connettersi e interagire con il mondo intero. Tutto questo non può non incidere anche sulle forme delle istituzioni e della politica, della democrazia, del rapporto tra potere e cittadini. E dunque non è davvero inutile interrogarsi su che cosa debba essere la democrazia nel tempo della globalizzazione, della sovranazionalità, dei mercati aperti, di internet.
Quelle migliaia di giovani che con la loro passione e generosità riempiono le piazze del mondo, pongono domande e chiedono risposte a cui nessuno può sottrarsi.