Il sorprendente Sig. Biden
È appena iniziato il secondo e finale biennio di questo mandato per Joe Biden, 46mo. Presidente degli Stati Uniti d’America. Nato nel novembre del ’42, è in politica dagli anni ’70, e sa come muoversi nelle istituzioni della democrazia americana (confondendo di tanto in tanto coloro che vedono in lui solo un bonario nonnino, con qualche propensione a delle innocenti gaffes). In questi tempi divisi, il suo tasso di approvazione resta intorno ai 6 punti al di sotto della media.
Eppure, il nonnino in questione alla fine del primo biennio ha messo insieme un buon carniere, che regge bene il paragone con quello del suo celebre ex-capo, Obama, il quale rimase impelagato dalla intransigente opposizione a oltranza della destra repubblicana del suo tempo. Purtroppo, la destra di oggi non è meno estrema, ed anzi, con l’ambizione di rivivere l’eccitante periodo di Trump che è ormai dietro le spalle è ora forse anche più nichilista di allora, disposta a tutto per il potere. Il declino della frangia moderata dei conservatori ha praticamente cancellato la possibilità di governare dal centro, e l’asprezza del dialogo -se si può ancora chiamare tale- provoca genuine preoccupazioni tra gli americani sul futuro della loro democrazia. Se si misura su questo sfondo la “performance” di questa presidenza si è obbligati a riconoscere che il biennio trascorso si è svolto bene per Biden, che ha realizzato buona parte del suo programma economico. Il Presidente si è confermato un esperto parlamentarista, che si è mostrato capace di governare anche con pochi voti di riserva; deve dividere il merito con lo Speaker uscente della Camera, Nancy Pelosi, che lo ha espertamente servito.
Ma ora il partito Democratico non ha più una maggioranza alla Camera, e questo ramo del Congresso non è più sotto l’esperta guida della Pelosi. La Camera è stata persa per un soffio dai Democratici, più che vinta in modo convincente dai Repubblicani, che hanno dovuto pagare la vittoria piegandosi alla frangia estrema della destra. Per nominare il loro nuovo candidato Speaker, McCarthy - hanno dovuto soffrire l’incubo di quindici scrutini intervallati da concessioni per infine cedere completamente all’ala oltranzista del partito. Questo cedimento fa sì che non sarà più così facile governare. Negli scorsi anni Biden aveva potuto contare su qualche voto in più alla Camera, anche se al Senato la sua maggioranza era fragile: ma da oggi in poi per il suo programma sarà tutta salita. Al contrario, l’iniziativa alla Camera sarà largamente nelle mani dei suoi avversari, che ne useranno i poteri non per partecipare all’opera di governo del paese, ma come un’arma distruttiva, usando sia l’ostruzionismo (come già con Obama) che gli ampli poteri di iniziativa consentiti dalla costituzione americana, che attribuisce alla Camera numerose materie di esplicita competenza; e la Camera è anche la sede da dove secondo la Costituzione partono le inchieste dirette alla rimozione di un Presidente, che in questo clima non mancheranno.
A partire da ora, Biden dovrà perciò affrontare il prossimo biennio cercando di far breccia in un muro per mettere in atto il suo programma politico, e difendendosi al tempo stesso dagli attacchi che verranno. Di positivo, avrà almeno una maggioranza meno fragile al Senato che lo terrà al riparo dagli eventuali tentativi di “impeachment”.
L’anno appena iniziato vedrà l’attenzione spostarsi verso la scadenza elettorale del prossimo anno. Trump ha già annunciato in novembre la sua candidatura per le elezioni del 2024. Con ciò evidentemente si propone di togliere l’ossigeno ai politici della destra che coltivano simili ambizioni, che non mancano. Ci sono infatti già tra i presunti aspiranti tre governatori (De Santis della Florida, Youngkin della Virginia, Hogan del Maryland), due “ex” della passata amministrazione (il Segretario di Stato Mike Pompeo e il Vicepresidente Mike Pence), senza contare il Senatore del Texas Ted Cruz e l’ex-Ambasciatore all’ONU Nicky Haley, (finora l’unica donna in lizza).
Questa profusione di candidati “in pectore” o già dichiarati indica che mentre l’ex-Presidente conta ancora su una massa di fedeli irriducibili, nel partito le cose sono evolute. Un fattore di peso potrà essere la piega che prenderà la sua vicenda nei tribunali. Le indagini sul suo conto coprono con abbondanza i requisiti per un processo, anzi più di uno: il suo ruolo nei fatti del 6 gennaio 2021, la sottrazione di casse di documenti segreti dalla Casa Bianca alla fine del mandato, le accuse mai sopite di ripetuti casi di violenza nei riguardi di varie donne. Vi sono infine le presunte frodi fiscali nel corso di vari anni in cui vantava pubblicamente la sua ricchezza e allo stesso tempo presentava dichiarazioni dei redditi che mostravano il contrario, per sfuggire alle tasse; la scelta è tra evasore o truffatore.
Ma sarà Trump processato?
Fu mai processato il pifferaio di Hamelin? Le cose stavolta sono andate troppo avanti perché la giustizia si ritiri in un angolino e taccia per sempre. Trump dovrà affrontare i tribunali, perché ha minato sulla pubblica piazza i fondamenti di questa grande avventura nazionale che è la democrazia americana, di cui i cittadini sono genuinamente partecipi, ed è troppo tardi per stendere un velo sul suo quadriennio, anche perché lui c’è ancora, e il suo ego non gli permetterà di svanire silenziosamente poco a poco, quando ancora è popolare in varie parti del paese.
Ne consegue che lo stato della democrazia è meno solido di quanto potrebbe. Il successo d’insieme della democrazia parlamentare nata su queste sponde non basta più a nascondere le aree dove la sua realizzazione è mancata. Il paese è cambiato dalla fine del diciottesimo secolo, e il popolo degli americani di oggi potrà sentire il bisogno di riaffermarne i principi per proseguire la lunga, ardua strada della sua quotidiana realizzazione.
Non è evidente come potrà questo accadere. Non è più il paese dalle risorse illimitate, dagli orizzonti senza confine, dalla sostanziale omogeneità che permetteva di accogliere nuove genti e farne subito degli americani; non è più nemmeno il paese sicuro dietro lo scudo della sua massa e protetto dall’estensione dei suoi oceani. Quella America è uscita dal suo guscio un secolo fa, e non potrà mai più rientrarvi. Al tempo stesso, la distanza resto del pianeta si è attenuata e gli oceani non sono più uno scudo assoluto. L’America di oggi potrebbe sempre guidare, e certamente influire, ma la sua posizione sulla scena internazionale non è la stessa del dopoguerra.
Questo sarà un secolo per la diplomazia, se gli americani vorranno, perché di certo ne hanno i mezzi; ma non c’è diplomazia che possa avere successo in assenza di un paese che non abbia una chiara visione di dove andare. E questo spetterà a chi guiderà il paese nel decennio a venire, in cui occorrerà riunificare nuovamente questa America divisa, le cui forze interne sono più disposte a confrontarsi per prevalere l’una sull’altra che per cercare un terreno comune. Se continuerà la sua aspra contrapposizione interna, anche se l’America resterà la grande potenza degli ultimi cent’anni, si rischierà la proiezione delle sue tensioni al di fuori dei suoi confini.
La democrazia non è solo una astratta stella polare nella vita del paese. Nel mito nazionale, non solo gli Stati Uniti sono santificati dalla democrazia impiantata dai padri della patria -al punto che, mentre ne discende il concetto dell’eccezionalismo americano, ne è nata anche l’ambizione di estenderne il credo attraverso il resto del mondo.
L’ idea della “leadership del mondo libero” emerge dal trionfo della Seconda guerra mondiale, da cui il paese esce intatto ed egemone, e si volge a guidare “the free world” contro la minaccia sovietica, dopo aver sconfitto quella nazista. E’ questa l’ultima grande vittoria militare della nazione, la linea di massima espansione della sua potenza bellica, coronata quarant’anni dopo dalla immensa vittoria politica che rappresenta la dissoluzione dell’URSS. Alle generazioni successive resta di far onore a questa eredità, in un mondo oramai profondamente cambiato. Biden ha un compito più difficile di quello di Roosevelt o di Truman.
Non sarà dunque solo il restante biennio di Biden a dare una risposta a questo genere di quesiti, ma sarà il momento per cominciare: pochi come Biden e il suo team sono equipaggiati per affrontare la sfida.