Le elezioni americane di mid-term ci consegnano un volto bifronte degli Stati Uniti di oggi.
Da un lato l’elettorato che si riconosce in Trump: concentrato nelle zone rurali e nelle città di provincia; ossessionato dall’immigrazione vissuta come perdita di identità; fortemente influenzato dalla predicazione conservatrice delle chiese evangeliche e di sette religiose; aggrappato al mito dell’”America first” e di un neoisolazionismo conflittuale; assertore di una politica economica fondata su deregulation e riduzioni fiscali a scapito della spesa sociale.
Sul fronte opposto l’elettorato democratico: concentrato nelle grandi città; con una netta prevalenza di giovani e donne; espressione del melting-pot che caratterizza sempre di più la società americana; impegnato a riaffermare diritti civili e valori laici insidiati dalle offensive dei Tea Party e delle sette religiose.
Un doppio volto che si è riflesso anche nei risultati: maggioranza democratica alla Camera dei Rappresentanti, maggioranza - sia pure di misura - dei repubblicani al Senato.
Una polarizzazione che spiega anche l’enorme affluenza ai seggi: 119 milioni di elettrici ed elettori, record di ogni elezione di mezzo termine. Un voto insomma che apre la lunga corsa elettorale verso le presidenziali del 2020: con i democratici incoraggiati a sperare in una riconquista della Casa Bianca e Trump sollecitato a stringere ancora di più il partito repubblicano intorno a sé.
Ma le conseguenze del voto in realtà si manifesteranno subito. Trump è un’ “anatra zoppa” e i democratici, forti della conquista della maggioranza alla Camera, potranno esercitare un forte potere di interdizione mettendo in discussione alcune delle scelte più rilevanti dell’attuale amministrazione americana.
A partire dalla politica estera, dove i democratici dovranno decidere quale atteggiamento assumere su significative decisioni di Trump: la denuncia del Trattato contro la proliferazione nucleare, il recesso dagli accordi di Parigi sul climate change, il ritiro dall’accordo sul controllo del nucleare iraniano e l’ulteriore inasprimento delle sanzioni contro Teheran, l’avallo alla politica dell’Arabia Saudita in Medio Oriente. Così come sono note le riserve dei democratici sulla strategia trumpiana di delegittimazione delle Nazioni Unite e del multilateralismo. E da molti mesi i democratici sono impegnati a rimuovere il velo di ambiguità e opacità che ha fin qui impedito un credibile accertamento delle influenze esterne - russe, ma non solo - sulle elezioni americane.
Anche in politica interna non mancheranno da subito occasioni di conflitto. Pur essendo i democratici tradizionalmente propensi a misure protezionistiche - il che probabilmente li porterà a non mettere in discussione i recenti nuovi accordi commerciali sottoscritti da Trump con Canada e Messico, né il contenimento dell’espansione commerciale cinese - su significative scelte economiche le differenze appaiono sostanziali: i democratici difficilmente potranno dare via libera alle forti riduzioni fiscali annunciate da Trump a vantaggio dei ceti più abbienti, per di più finanziate con drastici tagli alla spesa sanitaria e sociale. E in materia di diritti civili i democratici, che hanno significativamente puntato su candidature femminili - non solo “bianche”, ma anche ispaniche e musulmane - su giovani candidati afroamericani e su esponenti della comunità gay, faranno certamente sentire la voce di quell’America laica, liberal e cosmopolita che rifiuta ogni forma di discriminazione e di oscurantismo.
Soprattutto si confronteranno due opposti “sentiment”: intorno a Trump si è raccolta una “coalizione del rancore”, unita da spiriti di rivalsa: aree rurali contro città, strati popolari bianchi contro ispanici, asiatici e afroamericani, middle class di provincia contro élites metropolitane, suprematisti contro cosmopolitismo. Un’America impaurita che, in un istinto difensivo emotivo, non esita a mettere in causa quei tratti di apertura, integrazione, multiculturalità che hanno fatto degli Stati Uniti un grande paese, capace di accogliere e integrare donne e uomini provenienti da ogni continente, offrendo a ciascuno la opportunità di far valere e veder riconosciute le proprie capacità. Valori che invece stanno coagulando intorno al Partito Democratico, una “coalizione della speranza” di cui sono protagonisti la middle class urbana, le donne, i giovani, le minoranze, che alla esibizione muscolare e al ripiegamento identitario contrappongono le ragioni della democrazia, dei diritti, dell’apertura, dell’uguaglianza, del “sogno americano”, nel solco dell’America dei padri fondatori, di Lincoln, di Wilson, di Roosevelt, di Kennedy, di Luther King e di Obama. Saranno capaci quelle due Americhe di incontrarsi, riconoscersi reciprocamente, trovare punti di intesa oppure prevarrà l’incomunicabilità e la reciproca delegittimazione? Molto dipenderà dall’atteggiamento di Trump che dovrà decidere se proseguire nel decisionismo - peraltro molto ondivago - che ha caratterizzato fin qui il suo mandato oppure se con realismo prenderà atto che il controllo democratico della Camera dei Rappresentanti è un vincolo da cui non può prescindere.
In ogni caso il nuovo scenario americano non potrà che riflettersi anche sugli equilibri internazionali, a partire dai rapporti tra Stati Uniti e Europa, mai così freddi e precari. E se Trump non ha avuto remore - e continua a non averne - a delegittimare l’Unione Europea e a mettere in discussione il ruolo della NATO - sollecitando così l’emergere di un “patriottismo europeo” che andrebbe coltivato con maggiore determinazione - è tuttavia auspicabile che dai democratici americani venga un atteggiamento più consapevole del carattere strategico che l’alleanza transatlantica riveste anche nel mondo più largo della globalizzazione.
Di tutto questo dovrà tenere conto anche l’Italia, che troppo sbrigativamente negli ultimi mesi è sembrata mettere in discussione i pilastri della sua collocazione internazionale: incrinando il legame transatlantico con opachi e poco motivati atteggiamenti filorussi e conducendo una polemica astiosa e preconcetta contro l’Unione Europea. Due scelte che espongono l’Italia al rischio di un doppio dannoso isolamento.
Dal voto un America bifronte
Le elezioni americane di mid-term ci consegnano un volto bifronte degli Stati Uniti di oggi.
Da un lato l’elettorato che si riconosce in Trump: concentrato nelle zone rurali e nelle città di provincia; ossessionato dall’immigrazione vissuta come perdita di identità; fortemente influenzato dalla predicazione conservatrice delle chiese evangeliche e di sette religiose; aggrappato al mito dell’”America first” e di un neoisolazionismo conflittuale; assertore di una politica economica fondata su deregulation e riduzioni fiscali a scapito della spesa sociale.
Sul fronte opposto l’elettorato democratico: concentrato nelle grandi città; con una netta prevalenza di giovani e donne; espressione del melting-pot che caratterizza sempre di più la società americana; impegnato a riaffermare diritti civili e valori laici insidiati dalle offensive dei Tea Party e delle sette religiose.
Un doppio volto che si è riflesso anche nei risultati: maggioranza democratica alla Camera dei Rappresentanti, maggioranza - sia pure di misura - dei repubblicani al Senato.
Una polarizzazione che spiega anche l’enorme affluenza ai seggi: 119 milioni di elettrici ed elettori, record di ogni elezione di mezzo termine. Un voto insomma che apre la lunga corsa elettorale verso le presidenziali del 2020: con i democratici incoraggiati a sperare in una riconquista della Casa Bianca e Trump sollecitato a stringere ancora di più il partito repubblicano intorno a sé.
Ma le conseguenze del voto in realtà si manifesteranno subito. Trump è un’ “anatra zoppa” e i democratici, forti della conquista della maggioranza alla Camera, potranno esercitare un forte potere di interdizione mettendo in discussione alcune delle scelte più rilevanti dell’attuale amministrazione americana.
A partire dalla politica estera, dove i democratici dovranno decidere quale atteggiamento assumere su significative decisioni di Trump: la denuncia del Trattato contro la proliferazione nucleare, il recesso dagli accordi di Parigi sul climate change, il ritiro dall’accordo sul controllo del nucleare iraniano e l’ulteriore inasprimento delle sanzioni contro Teheran, l’avallo alla politica dell’Arabia Saudita in Medio Oriente. Così come sono note le riserve dei democratici sulla strategia trumpiana di delegittimazione delle Nazioni Unite e del multilateralismo. E da molti mesi i democratici sono impegnati a rimuovere il velo di ambiguità e opacità che ha fin qui impedito un credibile accertamento delle influenze esterne - russe, ma non solo - sulle elezioni americane.
Anche in politica interna non mancheranno da subito occasioni di conflitto. Pur essendo i democratici tradizionalmente propensi a misure protezionistiche - il che probabilmente li porterà a non mettere in discussione i recenti nuovi accordi commerciali sottoscritti da Trump con Canada e Messico, né il contenimento dell’espansione commerciale cinese - su significative scelte economiche le differenze appaiono sostanziali: i democratici difficilmente potranno dare via libera alle forti riduzioni fiscali annunciate da Trump a vantaggio dei ceti più abbienti, per di più finanziate con drastici tagli alla spesa sanitaria e sociale. E in materia di diritti civili i democratici, che hanno significativamente puntato su candidature femminili - non solo “bianche”, ma anche ispaniche e musulmane - su giovani candidati afroamericani e su esponenti della comunità gay, faranno certamente sentire la voce di quell’America laica, liberal e cosmopolita che rifiuta ogni forma di discriminazione e di oscurantismo.
Soprattutto si confronteranno due opposti “sentiment”: intorno a Trump si è raccolta una “coalizione del rancore”, unita da spiriti di rivalsa: aree rurali contro città, strati popolari bianchi contro ispanici, asiatici e afroamericani, middle class di provincia contro élites metropolitane, suprematisti contro cosmopolitismo. Un’America impaurita che, in un istinto difensivo emotivo, non esita a mettere in causa quei tratti di apertura, integrazione, multiculturalità che hanno fatto degli Stati Uniti un grande paese, capace di accogliere e integrare donne e uomini provenienti da ogni continente, offrendo a ciascuno la opportunità di far valere e veder riconosciute le proprie capacità. Valori che invece stanno coagulando intorno al Partito Democratico, una “coalizione della speranza” di cui sono protagonisti la middle class urbana, le donne, i giovani, le minoranze, che alla esibizione muscolare e al ripiegamento identitario contrappongono le ragioni della democrazia, dei diritti, dell’apertura, dell’uguaglianza, del “sogno americano”, nel solco dell’America dei padri fondatori, di Lincoln, di Wilson, di Roosevelt, di Kennedy, di Luther King e di Obama. Saranno capaci quelle due Americhe di incontrarsi, riconoscersi reciprocamente, trovare punti di intesa oppure prevarrà l’incomunicabilità e la reciproca delegittimazione? Molto dipenderà dall’atteggiamento di Trump che dovrà decidere se proseguire nel decisionismo - peraltro molto ondivago - che ha caratterizzato fin qui il suo mandato oppure se con realismo prenderà atto che il controllo democratico della Camera dei Rappresentanti è un vincolo da cui non può prescindere.
In ogni caso il nuovo scenario americano non potrà che riflettersi anche sugli equilibri internazionali, a partire dai rapporti tra Stati Uniti e Europa, mai così freddi e precari. E se Trump non ha avuto remore - e continua a non averne - a delegittimare l’Unione Europea e a mettere in discussione il ruolo della NATO - sollecitando così l’emergere di un “patriottismo europeo” che andrebbe coltivato con maggiore determinazione - è tuttavia auspicabile che dai democratici americani venga un atteggiamento più consapevole del carattere strategico che l’alleanza transatlantica riveste anche nel mondo più largo della globalizzazione.
Di tutto questo dovrà tenere conto anche l’Italia, che troppo sbrigativamente negli ultimi mesi è sembrata mettere in discussione i pilastri della sua collocazione internazionale: incrinando il legame transatlantico con opachi e poco motivati atteggiamenti filorussi e conducendo una polemica astiosa e preconcetta contro l’Unione Europea. Due scelte che espongono l’Italia al rischio di un doppio dannoso isolamento.