Articolo di Dario Conato

Dalla crisi peruviana segnali alle democrazie latinoamericane

La crisi peruviana ha avuto un’inattesa accelerazione il 7 dicembre 2022 con il tentativo del presidente della Repubblica Pedro Castillo di sciogliere il Congresso e imporre lo stato d’assedio al di fuori dei casi previsti dalla Costituzione, cui ha subito fatto seguito la sua decadenza decisa dal Congresso e l’arresto per quello che si è profilato essere un tentativo di colpo di Stato. Gli eventi culminati con l’arresto di Castillo segnano il punto di arrivo di molti anni di instabilità politica e di divaricazione sociale, nel quadro di un’economia che si è mantenuta in espansione – salvo la caduta determinata nel 2020 dal drammatico impatto della pandemia – anche grazie alla decisione di Castillo di confermare il governatore della Banca Centrale Julio Velarde, che dal 2006 gode della fiducia dei mercati internazionali.

Pur con caratteristiche che fanno del Perù un caso unico nel panorama latinoamericana (estrema frammentazione dell’offerta politica, bassa popolarità di istituzioni e schieramenti politici, forze di destra che – maggioritarie nel voto parlamentare – non riescono a far eleggere un proprio candidato alla presidenza della Repubblica, grande polarizzazione delle posizioni nell’arco politico e negli stessi schieramenti di sinistra e di destra), la crisi politica peruviana ha messo in rilievo problemi che riguardano più o meno tutte le democrazie latinoamericane e questioni chiave con cui deve fare i conti quel ventaglio molto differenziato di forze che per comodità (e in modo molto approssimativo) viene chiamato di “schieramento progressista”.

Dopo aver esposto per sommi capi gli eventi e le cause che hanno portato allo scontro frontale fra la Presidenza della Repubblica e il Congresso, con successiva deposizione e arresto dell’ormai ex presidente Castillo e il tentativo di stabilire un quadro istituzionale sufficientemente solido da poter portare il Paese a nuove elezioni presidenziali e parlamentari, cercheremo di mettere in rilievo alcuni aspetti che ci sembra rivestano interesse per lo sviluppo democratico dell’America Latina.

La parabola della Presidenza Castillo dall’elezione all’ “autogolpe” sino all’arresto

Pedro Castillo, leader sindacale degli insegnanti, proveniente da una famiglia di contadini di una delle regioni più povere del paese e candidato del partito di estrema sinistra Perú Libre, era stato eletto il 6 giugno 2021 nel secondo turno delle elezioni presidenziali (primo turno il 5 aprile), sconfiggendo la candidata della destra più estrema Keiko Fujimori il cui padre, l’ex presidente Alberto Fujimori, è in carcere per scontare condanne per un totale di 32 anni per omicidio plurimo, gravissime violazioni dei diritti umani e corruzione. Tutti i commentatori hanno riconosciuto trattarsi di un ballottaggio fra due schieramenti “contro”: si votava Castillo contro una destra golpista, razzista e violenta, oppure Keiko contro il pericolo di una nuova dittatura di sinistra sul modello di Cuba, Venezuela o Nicaragua. La grande frammentazione politica e la scarsa capacità di attrazione dei singoli candidati fu dimostrata con chiarezza dai risultati del primo turno: Castillo conquistò il 18,9% dei voti validi, Keiko Fujimori il 13,4%. In altre parole, ii due candidati più votati andavano al ballottaggio non avendo raccolto fra i due nemmeno un terzo degli elettori. La vittoria di Castillo al secondo turno ebbe un margine di circa 44mila voti su un totale di 18,9 milioni di votanti: i sostenitori di Keiko Kujimori parlarono di frodi, negate da tutti gli osservatori internazionali (fra cui quelli designati dall’Organizzazione degli Stati Americani) e dalla Giuria Nazionale per le Elezioni che respinse tutti i ricorsi: l’elezione di Pedro Castillo sembrò chiudere un periodo di profonda instabilità che aveva visto succedersi dal 2016 al 2021 ben quattro presidenti della Repubblica (Kuczynski, Vizcarra, Merino e Sagasti), quasi tutti caduti a seguito di inchieste per corruzione che diedero luogo a impeachment parlamentare (moción de vacancia) o a spontanea rinuncia proprio per evitare la decadenza (unica eccezione l’ex presidente Sagasti, che ha portato il Paese alle elezioni del 2021). Questa fase di profonda crisi del sistema politico peruviano ebbe inizio in realtà con l’auto-golpe di Fujimori nel 1990 che impose una semi-dittatura di fatto: alla sua fine politica fanno seguito tre presidenti che, pur rimanendo in carica per l’intero mandato (Toledo, García, Humala) vengono tutti investiti da inchieste e condanne per corruzione. Il sistema politico peruviano, di natura presidenziale, prevede meccanismi di controllo reciproco fra Presidente e Congresso (il parlamento monocamerale) che permettono a entrambi, in determinate circostanze, di inabilitare l’altro organo. In particolare il Congresso ha la possibilità di votare la decadenza del presidente con la generica motivazione di “incapacità morale”, per la quale non è definita una casistica e la cui efficacia è legata unicamente al verificarsi di una maggioranza parlamentare di 87 voti su 130. A sua volta il Presidente può sciogliere il Congresso e convocare nuove elezioni, se questo respinge per due volte di seguito una mozione di fiducia verso il governo.

Il “combinato disposto” di queste regole fa sì che sia praticamente impossibile per un Presidente  peruviano arrivare al termine del proprio mandato se non può contare con una maggioranza parlamentare. Da questo punto di vista, la debolezza di Pedro Castillo era già scritta nelle tappe del processo elettorale che aveva visto la sua vittoria per stretto margine su Kiko Fujimori. Nelle elezioni parlamentari che si erano svolte nella stessa giornata del primo turno delle presidenziali le liste di sinistra (ognuna delle quali presentava un proprio candidato alla Presidenza della Repubblica) avevano preso complessivamente il 24% dei voti e 42 dei 130 seggi in palio, di cui 37 di Perú Libre che diventava così il primo gruppo parlamentare. Le numerose liste di destra – anch’esse divise nel voto presidenziale – raggiunsero il 55% e 47 seggi Infine le forze che potrebbero essere definite “di centro” si fermarono al 21% e 41 seggi. Nel secondo turno Castillo – che, pur arrivando primo fra i candidati non aveva con sé nemmeno un quinto dell’elettorato - riuscì nell’impresa di attrarre una considerevole quantità di voti di centro e persino di destra che temevano l’instaurarsi di una sorta di “autoritarismo familiare” legato al nome dei Fujimori.

La campagna elettorale presidenziale aveva visto un marcato cambiamento nell’immagine di Pedro Castillo fra il primo e il secondo turno. Nel primo turno il candidato di Perú Libre si rifaceva al programma del suo partito (tuttora riportato nel sito della Giunta Nazionale Elettorale come programma di governo di Castillo). Quel programma – redatto e firmato dal leader storico di Perú Libre, Vladimir Cerrón Rojas - indica la prospettiva della costruzione di uno “Stato socialista” con citazioni di Lenin e Fidel Castro  prevedendo tra l’altro il ricorso al voto popolare per la nomina e la revoca dei magistrati, la sostituzione dell’economia sociale di mercato (oggi richiamata nella carta costituzionale) con una non meglio precisata “economia popolare con mercati”, la modifica del ruolo dello Stato da “regolatore” a “interventore, innovatore, imprenditore e protettore”, la revisione delle concessioni a imprese transazionali impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali, la rinazionalizzazione di imprese statali vendute a privati dai governi precedenti. Quel programma contiene tra l’altro affermazioni quali “il socialismo non promuove la libertà di stampa ma una stampa impegnata per l’educazione e la coesione del popolo” e “dirsi di sinistra quando non ci si riconosce come marxisti, leninisti o mariateguisti[1] è semplicemente lavorare a favore della destra”. In occasione del ballottaggio Castillo diffuse un proprio Piano di Governo, privo dell’impronta ideologica del programma di partito, centrato su riforme da Stato Sociale quali un sistema sanitario nazionale gratuito per tutti, il rafforzamento dell’istruzione, riforma agraria a favore dell’agricoltura familiare e dei piccoli produttori, misure per l’inclusione sociale delle grandi fasce di popolazione oggi emarginate. Il Piano di Castillo riprendeva dal programma di Perú Libre l’idea di un’Assemblea Costituente che rediga una nuova Costituzione cancellando l’attuale, prodotto dell’epoca di Alberto Fujimori, e l’impegno a rinegoziare lo sfruttamento delle risorse naturali da parte di imprese transnazionali. Castillo si è dichiarato contrario alla legalizzazione dell’aborto, ai matrimoni omosessuali, all’eutanasia e alla legalizzazione della marijuana.

Sin dal primo giorno del suo insediamento Pedro Castillo ha dovuto affrontare un Congresso fortemente avverso. Due le forze su cui poteva contare nel Congresso: Perú Libre, suo partito di riferimento[2] (13,4% dei voti) e Juntos por el Perú (coalizione di forze della sinistra “storica” e di movimenti libertari, 6,59%). In totale 42 voti, contro un agguerrito schieramento di otto forze di centro, di destra e di estrema destra divise su molte cose ma unite nell’avversione a Castillo, forti di 88 voti, due terzi del Congresso.

Dall’insediamento di Pedro Castillo il 15 giugno 2021 sino al suo arresto il 9 dicembre 2022, il presidente ha nominato ben cinque governi e circa 80 ministri, dovendo continuamente sostituire presidenti del consiglio e singoli titolari per martellanti campagne politiche e di stampa basate su accuse che andavano dall’incapacità alla corruzione a presunte collusioni con l’estinto movimento armato maoista Sendero Luminoso, protagonista di azioni terroristiche nel corso degli anni Ottanta e Novanta e sgominato da Alberto Fujimori attraverso risposte altrettanto violente e feroci da parte dell’esercito e delle forze di sicurezza: la presunta vicinanza a questo movimento è stata la vera ragione della sostituzione del presidente del consiglio del primo governo di Castillo, Jorge Bellido, segretario generale di Perú Libre. Nei mesi successivi Castillo ha cercato di migliorare la propria immagine affidandosi a esponenti di altri settori della sinistra democratica e a economisti prestigiosi di orientamento moderato. Si è tuttavia sempre trattato di nomine di breve durata, prive di un disegno strategico di alleanze (peraltro piuttosto difficili da ricercare in un contesto di estrema polarizzazione), senza che il presidente riuscisse ad avviare veri processi di riforma in campo economico e sociale. Tale circostanza gli ha alienato rapidamente gran parte della fiducia che le classi più diseredate avevano riposto in lui. Sul piano internazionale Castillo si presto convinto della necessità di non essere identificato con esperienze radicali come quella di Morales in Bolivia o di Correa in Ecuador e ha assunto posizioni chiare in questo senso, come  il ministero degli esteri peruviano ha criticato duramente la rielezione di Ortega in Nicaragua, in quanto avvenuta in mancanza di condizioni minime di libertà e trasparenza. I governi di Castillo hanno sempre ottenuto la fiducia del Congresso con una maggioranza compresa fra i 64 e i 68 voti, grazie al contributo di deputati delle forze di centro e potendo contare in un caso sull’assenza di alcuni congressisti (ricordiamo che la maggioranza parlamentare è di 66 voti).

Con il tempo alle critiche crescenti delle opposizioni si sono aggiunte quelle provenienti da ex membri dei governi nominati da Castillo.

La situazione è divenuta particolarmente critica agli inizi di dicembre 2022, quando alle crescenti indagini della magistratura per ipotesi di corruzione riguardanti Castillo e la sua famiglia si è sovrapposto il terzo tentativo di impeachment promosso dai settori più radicali dell’opposizione, dopo che i primi due non avevano raggiunto gli 87 voti richiesti. La reazione di Castillo è stata considerata da analisti d’ogni orientamento politico come politicamente incomprensibile e suicida: un proclama diffuso a reti televisive unificate con cui annunciava lo scioglimento del Congresso, il controllo dell’esecutivo sul potere giudiziario, lo stato d’assedio e l’elezione di un nuovo Congresso con il compito di redigere una nuova Costituzione. Si è trattato di un intervento apparentemente incomprensibile perché tutti prevedevano una terza sconfitta parlamentare della richiesta di impeachment e sostanzialmente  suicida perché palesemente incostituzionale e quindi configurante un Colpo di Stato, peraltro privo di qualsiasi appoggio di istituzioni e forze armate: la Costituzione stabilisce che il Presidente della Repubblica possa sciogliere il Congresso se questo nega per tre volte la fiducia al suo governo, ma questa circostanza non si era verificata e probabilmente non si sarebbe verificata nemmeno questa volta. Il Congresso ha subito votato la decadenza del presidente (101 voti su 130) e la Procura ha disposto l’arresto immediato di Castillo[3] e l’avvio di indagini per ribellione, cospirazione, abuso di autorità e grave turbamento dell’ordine pubblico. La Corte Suprema di Giustizia ha stabilito un periodo di carcerazione preventiva che può arrivare sino a 18 mesi a causa del rischio di fuga dell’indagato, che era stato arrestato mentre stava cercando di rifugiarsi nell’ambasciata del Messico a Lima dopo l’offerta di asilo politico da parte del governo messicano.

L’irrazionale comportamento di Castillo sarebbe dovuto, a parere di numerosi analisti, all’aumentare di prove e testimonianze sui presunti fenomeni corruttivi per i quali è indagato.

Mentre tutti i membri del governo prendevano le distanze da Castillo, la presidenza della Repubblica è stata assunta dall’avvocata Dina Boluarte, candidata alla vicepresidenza a fianco di Castillo nelle elezioni del 2021 e quindi vicepresidente fino alla sostituzione di Castillo, proveniente anch’essa da una delle regioni più povere del Paese. La successione è avvenuta nel pieno rispetto della Costituzione ma ha provocato movimenti di protesta tuttora in corso tutto il paese, soprattutto nelle regioni del centrosud dove si concentrano le popolazioni indigene e contadine storicamente emarginate dallo sviluppo del paese e dove maggiore era stato il sostegno alla candidatura di Castillo. I manifestanti accusano a loro volta il Congresso e alla neopresidente di aver prodotto un colpo di Stato e chiedono le dimissioni di Dina Boluarte e la convocazione di un’Assemblea Costituente, mentre non prende slancio la richiesta di un reintegro di Castillo. L’intervento di polizia ed esercito, mobilitati dalla presidente Boluarte, ha provocato l’uccisione di 28 manifestanti e il ferimento di oltre 500. L’Ufficio del Difensore Civico (istituzione pubblica autonoma), la Commissione dei Diritti Umani dell’Organizzazione degli Stati Americani (CIDH) e organizzazioni nazionali e internazionali hanno chiesto di individuare rapidamente le responsabilità per questa strage. Su invito del nuovo governo peruviano la CIDH ha visitato il paese e ha potuto tra l’altro incontrare in carcere l’ex presidente Castillo. La Procura della Repubblica. Per chiarire la responsabilità di queste morti la Procura della Repubblica ha aperto un’indagine che coinvolge la presidente a alcuni dei suoi ministri.

Un futuro incerto

La presidente Dina Boluarte ha chiesto un dialogo nazionale che coinvolga tutte le forze politiche e anche i settori sociali che sono scesi in piazza contro i nuovi assetti istituzionali. E il 2023 si è aperto in Perú con due dinamiche opposte: le conversazioni fra il presidente del consiglio incaricato, Alberto Otárola, e tutti i gruppi parlamentari per ottenere la fiducia del Congresso, e scioperi e manifestazioni a Lima e nelle regioni meridionali del Perù con cui settori della popolazione continuano a chiedere la convocazione di un’Assemblea Costituente e le dimissioni della presidente della Repubblica – su cui pesa i morti e i feriti provocati dalle forze di esercito e forze di polizia da lei incaricate di garantire l’ordine pubblico.

Il mandato della presidente Boluarte scadrebbe nel 2026. Il Congresso – d’accordo con la residente - ha deciso la convocazione di nuove elezioni per il 2024 ma Dina Boluarte sta cercando di ottenere il consenso necessario per anticiparle di un anno.

È indubbio che, come segnala l’analista messicano Jorge Castañeda, nelle persistenti campagne politiche contro la presidenza di Castillo vi sia stata una componente di “disprezzo – spesso razzista – delle élite di Lima”.

Lo stesso autore segnala come quel che è avvenuto in Perù possa rafforzare “la tesi (…) secondo cui le persone senza istruzione, senza esperienza, che non appartengono alla classe politica, non sono adatte a governare”. In Perù – come in altri paesi dell’America Latina – questa interpretazione palesemente falsa (la migliore controprova è Lula, in Brasile) può approfondire fratture sociali che da decenni le forze democratiche stanno cercando faticosamente di ricucire promuovendo l’inclusione di popolazioni indigene, contadine, afrodiscendenti, appartenenti alle grandi periferie urbane, riconoscendone – spesso per la prima volta - valori e diritti.  

La caduta di Castillo è senz’altro il prodotto di un’impreparazione che appartiene al personaggio e che non può essere estesa tout court alla sua classe sociale d’origine. In questa occasione la fragilità strutturale del sistema politico e sociale peruviano ha colpito l’esponente di una forza politica di estrema sinistra, molto settaria, dalla quale Castillo è uscito nel giugno 2022 mentre Perú Libre lo accusava di non aver messo in pratica il programma per il quale era stato eletto. Effettivamente, al di là di una serie di atti simbolici come l’utilizzo di un tradizionale sombrero contadino e di un poncho, o il ricorso in alcune circostanze a lingue e rituali indigeni, Castillo non è riuscito ad avviare nemmeno una delle riforme promesse, impegnato com’era nello schivare le inchieste giudiziarie e le iniziative parlamentari a lui avverse, anche coinvolgendo nei vari governi personalità moderate al fine di neutralizzare le mozioni di sfiducia e di impeachment.

Sicuramente Castillo non godeva dell’appoggio della maggioranza della popolazione peruviana: agli inizi di dicembre le inchieste demoscopiche gli attribuivano un consenso di appena il 24%. Questo dato, tuttavia, era notevolmente superiore alla fiducia riscossa dal Congresso, che non andava al di là dell’11%. Il 71% si dichiarava d’accordo sulla prosecuzione delle indagini riguardanti il presidente.

Non bisogna tuttavia pensare che tutta la destra peruviana – politica, sociale, economica – fosse interessata allo stesso modo alla precipitazione degli eventi. Mentre le forze che appoggiano la leadership di Keiko Fujimori hanno spinto per vendicarsi dell’ennesima sconfitta elettorale subita dalla loro leader e portarla finalmente alla Presidenza della Repubblica, i settori legati alla grande impresa temono che l’incertezza che domina il paese possa avere ripercussioni negative sugli investitori internazionali e in generale per la performance economica del Perù su scala globale.

Le sinistre dell’America Latina di fronte alla crisi peruviana

Nello schieramento delle sinistre latinoamericane (ormai quasi tutte al governo nei rispettivi paesi) sono emerse sfumature diverse rispetto agli eventi peruviani.  Il presidente messicano López Obrador ha subito dichiarato che “il presidente continua a essere Castillo” e gli ha offerto asilo politico: nel caso di Castillo è stata più veloce la polizia peruviana nell’arrestarlo, mentre moglie e figlia dell’ex presidente hanno trovato rifugio nell’ambasciata messicana di Lima per poi partire alla volta di Città del Messico con l’ambasciatore di quel paese, subito dichiarato “persona non grata” dalle autorità peruviane. I governi di Bolivia, Colombia, Messico e Argentina hanno emesso un comunicato chiedendo di “rispettare la volontà popolare espressa attraverso libero suffragio”, cui il governo peruviano ha risposto sottolineando la legalità del procedimento che ha portato alla caduta e all’arresto di Castillo. La natura costituzionale di quanto avvenuto in Perù è stato invece riconosciuta nelle dichiarazioni del neo-presidente brasiliano Lula e del cileno Boric. Non vi è stata comunque una condanna netta da parte dei presidenti latinoamericani di orientamento “progressista” della violazione delle regole costituzionali condotta da Castillo. La complessa macchina istituzionale peruviana – una sorta di presidenzialismo “attenuato” da alcune facoltà attribuite al Congresso – presenta rischi e contraddizioni cui abbiamo fatto cenno in questo articolo. Tuttavia finché le regole sono queste una loro violazione non può che costituire un attentato alle istituzioni. La mancanza di un’affermazione netta in tal senso può essere legata a una insufficiente assunzione da parte di alcune forze della sinistra latinoamericana della democrazia come fine e non solo come mezzo[4], ma è anche motivata, secondo alcuni osservatori, al timore dei presidenti latinoamericani di poter finire intrappolati in meccanismi istituzionali analoghi a quelli che hanno messo all’angolo Pedro Castillo.

  Colpisce la mancata richiesta di convocare l’Organizzazione degli Stati Americani o della Conferenza degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi, entità quest’ultima che non include Stati Uniti e Canada ma che – a differenza della OSA - vede la presenza di Cuba, Venezuela e Nicaragua, i cui regimi si sono decisamente schierati a favore di un Castillo vittima del desiderio di “capovolgere la volontà popolare”.

Nella complessa vicenda della presidenza Castillo, le sinistre latinoamericane mostrano però anche una sostanziale paralisi nel definire linee strategiche chiare e una visione trasparente della democrazia e dello Stato di diritto. Si trattava questa volta di esprimersi senza ambiguità: siamo di fronte al rovesciamento del presidente legittimo da parte di un Congresso dominato da una destra golpista, oppure abbiamo assistito al tentativo di colpo di Stato da parte di un presidente che si è sentito in trappola e cui le istituzioni hanno risposto secondo quanto stabilito dalla Costituzione, sia pure a coronamento di una durissima opposizione reazionaria e a tratti razzista che ne ha ostacolato l’attività sin dal primo giorno? Dai governi latinoamericani di orientamento progressista non sono venute risposte nette al riguardo.

Pur molto diverse tra di loro, gran parte delle sinistre latinoamericane continuano ad applicare chiavi interpretative di autodifesa acritica in base alle quali qualsiasi indagine, procedimento o condanna per reati comuni che colpisca suoi esponenti è frutto di un complotto politico-giudiziario (utilizzando il caso Lula come paradigma per interpretare l’azione giudiziaria in qualsiasi paese e contesto) mentre proteste di piazza contro governi di sinistra sono sempre qualificate come tentativi di colpo di Stato evitando qualsiasi valutazione circostanziata “caso per caso”.  Chiariamo: il mancato riconoscimento della democrazia come fine è caratteristica anche di partiti e movimenti di destra, come dimostra l’assalto perpetrato da migliaia di seguaci di Bolsonaro alle istituzioni federali a Brasilia, sventato proprio mentre questo testo vede la luce; e si è davvero trattato di un tentativo di colpo di Stato, come dimostra la richiesta di questi gruppi violenti alle Forze Armate di intervenire per rovesciare il neo-eletto presidente Lula. E l’annullamento delle condanne che negli scorsi anni portarono Lula in prigione impedendogli di candidarsi alla presidenza mostra come quelle inchieste fossero state condotte violando i diritti della difesa e non rispettando norme e procedure. Il punto è che questi gravissimi episodi non possono essere utilizzati per “interpretare” in modo acritico le manifestazioni in Nicaragua, in Venezuela, a Cuba, in Ecuador e in altri paesi e che, represse nel sangue, ponevano questioni di libertà, democrazia, trasparenza. Lo scrittore nicaraguense Sergio Ramírez, oppositore di Ortega dopo essere stato vicepresidente della Repubblica negli anni Ottanta, ha dichiarato: "Lula sostiene [in un'intervista a El País, NdR] di essere finito in carcere perché odiavano lui e il suo Partito dei Lavoratori e perché non gli perdonavano di essere stato un grande presidente. Ma se un giudice l'ha messo in carcere, lui ha fatto ricorso presso altri giudici che lo hanno tirato fuori dopo aver esaminato la causa, annullandola. In Nicaragua, dove non c'è Stato di diritto, sarebbe ancora chiuso in una cella senza finestre, senza diritto a un avvocato difensore, sottoposto a continui interrogatori, senza garanzie processuali e senza diritto a visite familiari".

La difficoltà di uscire dalla contraddizione fra enunciazioni astratte da un lato (poche settimane prima del tentativo di colpo di Stato di Castillo il colombiano Gustavo Petro aveva dichiarato al quotidiano spagnolo El País che “rifiutare la democrazia liberale porta alla dittatura, come è accaduto in alcuni paesi dell’America Latina”) e comportamenti concreti dall’altro ha determinato ormai la sostanziale irrilevanza di organismi che in altri momenti avevano svolto un ruolo per una elaborazione non dogmatica: pensiamo al Forum di San Paolo, in cui convivono forze portatrici di visioni molto diverse e persino opposte per quanto riguarda la democrazia, il pluralismo e lo Stato di diritto, e al Gruppo di Puebla, cui prendono parte numerose personalità latinoamericane, spagnole e portoghesi, fra cui ex-presidenti della Repubblica ed ex-capi di governo, il quale non è stato capace di condannare l’operazione condotta da Castillo in un comunicato che è solo l’ennesimo di una lunga serie di prese di posizione che denunciano soprusi veri o presunti provenienti dalle destre del continente ma che non si esprimono mai sulla violazione dei diritti umani  e dello Stato di diritto compiuti da regimi definiti “di sinistra”. 

Non è facile, né giusto né tantomeno utile mantenere questa ambiguità. Se ne è accorto il Partito dei Lavoratori brasiliano (PT), quando durante la recente campagna elettorale i sostenitori di Bolsonaro hanno avuto gioco facile nel rinfacciare a Lula e al PT atteggiamenti ambigui nei confronti del regime nicaraguense. Un chiarimento definitivo è giunto alla vigilia dell’insediamento di Lula il futuro ministro degli esteri, Mauro Vieira, che in un’intervista ha affermato che per Lula Maduro e Ortega sono dittatori. Quello del rapporto con i regimi illiberali  è comunque un tema non risolto all’interno del PT, come dimostra la vicenda del messaggio di congratulazioni a Ortega per la rielezione a presidente del Nicaragua nelle elezioni del novembre 2021 (con tutti i candidati dell’opposizione in galera), pubblicato sul sito del Partito e rimosso qualche giorno.

Al di là delle specifiche caratteristiche dello spettro politico peruviano, dominato da forze estremiste sia a sinistra sia a destra, il caso che abbiamo qui analizzato suggerisce un’ultima osservazione  che riguarda l’insieme dei paesi latinoamericani (tutte repubbliche presidenziali). Come rileva il già citato Jorge Castañeda, arrivare alla Presidenza della Repubblica con un ambizioso programma di sinistra attraverso un sistema a due turni rischia di creare quelle che potremmo definire pericolose “illusioni ottiche”. Castillo poteva contare su una base del 19% (primo turno), raccogliendo poi nel secondo turno una quantità di voti superiore al 50%. In Cile Gabriel Boric aveva ricevuto il 26%, prima di vincere al ballottaggio con il 56% e Gustavo Petro, in Colombia, è passato dal 40% del primo turno al 51% del secondo. Spesso gli schieramenti di sinistra vittoriosi perdono di vista i risultati del primo turno e pensano di avere un solido consenso corrispondente alla percentuale ottenuta al secondo turno: quando si cade in questo errore di prospettiva le conseguenze possono essere molto gravi, come ci ricorda la sconfitta nel referendum costituzionale in Cile e la stessa caduta di Castillo. Passando ad altra epoca e ad eventi ben più tragici che sono rimasti impressi nella coscienza del mondo intero, nel 1973 Salvador Allende arrivò primo nelle elezioni a turno unico per la presidenza del Cile con il  36,6% dei voti,  superando i candidati della destra e della Democrazia Cristiana, e la cui nomina come Presidente della Repubblica fu resa possibile da un voto parlamentare (necessario qualora nessun candidato superasse il 50%) in cui confluirono i deputati della sinistra e della Democrazia Cristiana. Salvador Allende e una parte della coalizione di Unidad Popular (in particolare il Partito Comunista diretto da Luis Corvalán, la corrente del Partito Socialista maggiormente vicina al presidente e gruppi minori) provarono ad ampliare l’area del consenso sociale cercando nuovi accordi con la Democrazia Cristiana, ma le forze più “intransigenti” della coalizione si opposero e ciò purtroppo facilitò il colpo di Stato militare di Augusto Pinochet, sostenuto dal governo degli Stati Uniti.

L’esigenza di una politica realista che metta in conto la necessità di costruire alleanze e spazi di dialogo anche al di fuori del proprio schieramento di riferimento – tanto più necessaria quanto più tale schieramento non abbia con sé la maggioranza nel paese – deve fare i conti in Perù con un paese percorso da profonde fratture sociali, etniche e ideologiche che al momento sembrano molto difficili da sanare.

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[1] José Carlos Mariátegui fu un intellettuale e politico peruviano, fondatore del Partito Socialista Peruviano (1928), poi divenuto Partito Comunista nel 1930.

[2] La tendenza alla frantumazione nello schieramento politico si è manifestata anche all’interno di Perú Libre, che nel corso del 2022 ha subito tre scissioni che hanno portato alla creazione di altrettanti nuovi gruppi parlamentari.

[3] I numeri dei votanti mostrano come abbiano votato a favore di Castillo meno deputati di quanti ne erano stati eletti dalle liste che ne avevano sostenuto la candidatura.

[4] Molto interessanti a questo proposito le riflessioni dell’ex europarlamentare del PSOE Ramón Jáuregui