La regione africana dei Grandi Laghi: quali sfide per la legalità e la sicurezza ?
1. CENNI INTRODUTTIVI
La regione africana dei Grandi Laghi comprende Burundi, le province orientali della Repubblica Democratica del Congo (RDC), Rwanda e parti dell’Uganda occidentale. La regione è tristemente nota per le vicende storiche che dopo la fine del colonialismo hanno portato alle dittature nell’ex Zaire (attuale RDC) ed in Uganda, ai sanguinosi conflitti etnici sfociati nel 1994 nel genocidio rwandese e alle successive due guerre in Congo che hanno coinvolto i quattro paesi della regione ed altri africani.
I conflitti hanno provocato oltre cinque milioni di vittime tra militari e civili, crisi umanitarie senza precedenti con masse di rifugiati ospitati nei paesi vicini e profonde ferite al tessuto socioeconomico regionale. Le prolungate ostilità hanno anche causato la nascita di gruppi armati tuttora operanti nelle aree di confine, in particolare nelle province orientali congolesi divenute nelle ultime tre decadi l’epicentro delle ribellioni.
Le missioni inviate da Nazioni Unite ed Unione Europea per mantenere la pace hanno messo fine a questi conflitti interstatali, avviando nel contempo i processi di transizione politica tramite l’insediamento di istituzioni legittimate dal voto popolare. Purtroppo i buoni uffici della comunità internazionale non hanno spento le tensioni regionali incentrate sullo sfruttamento illegale delle risorse minerarie congolesi, né hanno sciolto i nodi della successione pacifica e democratica al potere politico.
Malgrado la volatilità di tale contesto, Rwanda ed Uganda sono riusciti a coniugare la stabilità politica con il progresso economico durante i mandati presidenziali rispettivamente di Paul Kagame e di Yoreveni Museveni, in carica il primo da 20 anni e il secondo da circa 34.
I due Capi di Stato hanno scelto forme diverse per restare al potere: Kagame ha adottato un approccio autoritario per gestire la pesante eredità del genocidio, la povertà e l’emarginazione sociale, mentre Museveni ha concesso uno spazio seppur limitato alla dialettica politica per mitigare le divisioni interne e per accelerare lo sviluppo ugandese.
Dopo un buon avvio della transizione politica favorita dalla tenuta di elezioni libere e multipartitiche, Burundi e Congo sono ricaduti invece in quella spirale di instabilità e di insicurezza che dalla fine del colonialismo in poi ha tanto segnato il loro percorso storico e dalla quale non sembrano poter uscire.
Al di là di alcune diversità, i Paesi dei Grandi Laghi presentano tratti comuni: in primo luogo una nomenclatura politica propensa a perpetuarsi ai vertici degli Stati tramite una gestione autoritaria e la corruzione. Fino a due anni fa i Paesi avevano in comune la lunga permanenza al potere di ex capi guerriglia che lo avevano conquistato con le armi, legittimato con il successivo ricorso al voto ma che non erano disposti a lasciarlo. A tal fine essi hanno protratto la durata dei mandati tramite modifiche costituzionali, affermazioni elettorali frutto di brogli, manipolazione dei media o rinvio tout court del voto, come ha fatto Joseph Kabila, già Capo di Stato congolese dal 2001, prima di passare la mano a Felix Thsisekedi dopo le elezioni presidenziali del 2018.
Destino più amaro è toccato all’ex Capo di Stato burundese Pierre Nkurunziza, prematuramente scomparso mesi fa probabilmente a causa del Covid-19, soltanto pochi giorni dopo la vittoria elettorale riportata da Evariste Ndayishimiye, il candidato che aveva prescelto per sostituirlo almeno formalmente al vertice dello Stato e con il quale aveva condiviso le responsabilità della involuzione democratica, delle violazioni dei diritti umani e dell’arretramento generale del Paese.
Oltre al pieno controllo del potere esecutivo, i quattro capi di Stato hanno potuto contare sull’appoggio degli organi legislativi e di quelli giudiziari, allineati alle posizioni dei partiti al potere.
Con il passo indietro quantomeno formale di Kabila e la prematura scomparsa di Nkurunziza, restano in carica Kagame e Museveni, non a caso i maggiori attori sulla scena regionale che - in accordo o disaccordo tra loro - hanno impresso per decenni un’impronta indelebile sugli sviluppi politici e militari nei Grandi Laghi. Kagame non appare propenso ad allentare il pugno di ferro nei confronti degli oppositori, mentre Museveni si accinge ad affrontare a breve un’ulteriore sfida elettorale.
Spetterà ai successori di Kabila e di Kurunziza mostrare la statura e la capacità politica necessarie per interagire positivamente con i colleghi rwandese e ugandese nella ricerca di equilibri regionali più avanzati. I recenti sviluppi nella Repubblica Democratica del Congo e in Burundi possono essere considerati, pur con i loro limiti, un primo passo in avanti verso la successione pacifica al potere ed il ricambio della classe dirigente.
Più in particolare, le elezioni presidenziali e parlamentari congolesi del dicembre 2018 hanno messo fine al lungo mandato di Joseph Kabila, protrattosi per circa 17 anni. In quel periodo il Paese era uscito da una fragile transizione verso la democrazia e lo sviluppo riuscendo a ridurre i livelli di povertà ritenuti tra i più elevati del pianeta, malgrado le ingenti risorse del suolo e del sottosuolo congolese.
Joseph Kabila, alla guida del Paese dal 2001 dopo l’assassinio del padre Laurent Desiré, non aveva in realtà mostrato il proposito di ritirarsi, malgrado la scadenza dei due mandati previsti dal dettato costituzionale. Dietro la riluttanza a lasciare la carica si celava la volontà di continuare a proteggere gli interessi economici facenti capo alla sua famiglia politica e biologica. I suoi tentativi di prolungare i mandati presidenziali avevano incontrato scarso favore in patria e all’estero.
2. IL QUADRO INTERNO
Il maggiore Stato francofono africano per superficie e popolazione, la RDC - con i suoi 80 milioni di abitanti e di ettari di terre arabili e le abbondanti riserve di oltre 1100 metalli preziosi – è un Paese dalle grandi potenzialità. Pur avendo i requisiti necessari per divenire una delle economie più floride del continente, il Congo è divenuto ostaggio di governanti più sensibili ai richiami dell’arricchimento personale che del bene pubblico. Non sorprende la riluttanza di Joseph Kabila a lasciare la carica di Capo dello Stato ottenuta nel 2001 per cooptazione dopo l’assassinio del padre e confermata dalle tornate elettorali del 2006 e del 2011: aveva rinviato di un biennio il voto successivo, previsto nel 2016, adducendo la necessità di aggiornare i registri elettorali.
Del resto, il Presidente aveva di fronte un’opposizione politica indebolita dalla mancanza di una figura di spicco dopo la scomparsa circa un anno fa di Etienne Tsisekedi, compagno della prima ora di Lumumba e per trent’anni avversario politico di Mobutu. Il “vecchio leone”, pur stanco e malato, continuava ad avere un forte ascendente sulle masse popolari e la sua morte aveva aperto una lotta acerrima per la successione alla guida del suo partito.
Un’opposizione senza un vero capo come Etienne Tsishekedi, in grado di infiammare gli animi, lacerata al suo interno e sensibile ai richiami della cooptazione al potere in un paese tragicamente povero, aveva teoricamente scarsa possibilità di successo contro la famiglia politica del Presidente uscente, che controllava le leve del potere politico ed economico.
Non a caso, tra le maggiori voci di dissenso vi era la Chiesa Cattolica congolese che tramite la Conferenza Episcopale aveva interposto i suoi buoni uffici per facilitare la conclusione di un accordo tra governo ed opposizione, nel giorno di San Silvestro del 2016, che aveva riacceso le speranze di una conclusione pacifica dell’era dei Kabila. L’intesa prevedeva l’impegno del Presidente a indire le elezioni entro il 2017, a non ricandidarsi e a costituire un comitato esecutivo composto da esponenti di governo e opposizione per guidare il Paese verso il voto. L’accordo è stato disatteso da un ulteriore rinvio del voto e dalla nomina di un Primo Ministro non gradito ai partiti di opposizione seppur proveniente dalle loro stesse fila. Decidendo di nominare un Primo Ministro senza l’avallo dell’opposizione, Kabila ha infatti scelto Felix Tshisekedi, figlio di Etienne, come suo successore e ha poi pilotato in tal senso l’esito delle elezioni, nel convincimento che il candidato governativo avrebbe raccolto ben pochi voti.
Non sorprende l’accanimento mostrato dalle forze di sicurezza contro il clero e i fedeli cattolici che a gennaio del 2017 avevano organizzato dopo le funzioni domenicali manifestazioni pacifiche di protesta contro la permanenza al potere di Kabila. La repressione delle forze governative, spintasi fin all’interno delle chiese, ha provocato decine di vittime, centinaia di feriti e di arresti nel Paese intero. Nemmeno Mobutu si era spinto fino a tanto e soltanto le veementi proteste internazionali sono riuscite ad evitare altri spargimenti di sangue.
Oltre all’intento di gestire la propria successione, le elezioni del dicembre 2018 sono state fissate da Kabila per mettere fine all’isolamento internazionale della RDC e per alleggerire le sanzioni in materia di viaggi e di congelamento dei beni all’estero applicate dall’Unione Europea e da altri Paesi nei confronti di esponenti politici e militari congolesi accusati di aver violato la legalità e i diritti umani tramite l’uso eccessivo della forza e la violazione delle regole democratiche.
Le elezioni presidenziali, tenutesi nel dicembre del 2018 in un contesto di dubbia legalità e trasparenza, hanno visto inaspettatamente Felix Tshisekedi prevalere con il 38,5 % dei voti sul candidato governativo e su Martin Fayulu, economista di vasta esperienza sostenuto da partiti di opposizione, dalla Chiesa cattolica e dalla maggioranza dei cittadini, che avevano visto in lui l’unico candidato non compromesso con i fatti e misfatti del passato. Nel timore di brogli la Chiesa Cattolica aveva dispiegato nei seggi elettorali circa 40.000 osservatori: secondo i dati da questi raccolti Fayulu si sarebbe affermato con il 62,8% dei consensi, mentre i restanti candidati non sarebbero andati oltre il 15%.
L’esito del voto, diffuso dalla Commissione Elettorale Indipendente, guidata da una personalità gradita a Kabila, ha ricevuto l’avallo della Corte Suprema, composta anch’essa da giudici nominati dal Presidente. Questo risultato è stato male accolto in Congo e all’estero, circondato dal sospetto che fosse frutto di brogli elettorali nell’ambito di un accordo tra il Presidente uscente e Felix Tshisekedi, propenso il primo a passare il testimone al secondo ritenendolo un avversario meno duro e determinato di Fayulu. Dopo le prime reazioni, tuttavia, il responso delle elezioni presidenziali è stato considerato in patria e all’estero come un fait accompli, il male minore rispetto alla prospettiva di un ulteriore protrarsi dei mandati di Kabila o peggio ancora di un nuovo conflitto civile.
Il Presidente uscente sembra aver raggiunto gli obiettivi di tacitare le voci interne ed internazionali che ne reclamavano a gran voce il passo indietro, mantenere tramite il suo partito il controllo del Parlamento e creare le premesse per un suo futuro ritorno alla guida del Paese.
Resta da vedere se Tshisekedi riuscirà nell’intento annunciato di allontanare (deboulloner) Kabila dalle leve di comando politico ed economico o se dovrà rassegnarsi al ruolo di Presidente animato dai migliori propositi ma dal potere effettivo alquanto limitato e non in grado di effettuare le riforme: in particolare quelle delle forze armate, della polizia e della giustizia, delle quali il Paese ha urgente bisogno per ristabilire il controllo dello Stato sull’intero territorio, il rispetto della legalità e dei diritti umani, la corretta gestione delle risorse pubbliche e la fiducia degli operatori economici locali e stranieri.
Quanto all’opposizione militare al governo centrale, essa è collegata da circa vent’anni alla galassia di gruppi ribelli congolesi e stranieri, spesso in sintonia con paesi confinanti, animati dall’obiettivo primario di sfruttare in maniera illegale le ingenti risorse minerarie nel Nord e Sud Kivu, nei Kasai ed in Katanga.
Dal 2007 al 2009 un gruppo ribelle costituitosi in movimento denominato Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo e guidato dall’ex generale rwandese Laurent Nkunda aveva riportato alcune vittorie militari sulle forze governative, conquistando vaste porzioni di territorio ed arrivando quasi ad impadronirsi di Goma, capoluogo provinciale del Nord Kivu, se non fossero intervenuti i caschi blu della missione di pace delle Nazioni Unite (Monuc).
Le pressioni esercitate da Stati Uniti ed altri Paesi sul Presidente rwandese, ritenuto il principale sostenitore di Nkunda, e le successive intese tra RDC e Rwanda per contrastare i ribelli hutu - insediatisi dal 1994 in Sud Kivu e spina nel fianco di Kagame - avevano portato poi all’arresto dell’ex generale e allo scioglimento del suo movimento, mettendo temporaneamente fine alla maggiore minaccia aleggiante sul governo congolese.
Poco dopo un altro movimento di matrice rwandese, l’M23 (così chiamato in omaggio al 23 marzo 2008, data delle intese concluse e poi disattese tra governo e ribelli), ha ripreso le ostilità nelle aree orientali fino a quando non è stato raggiunto un altro accordo con il governo, propiziato dalla comunità internazionale, per far cessare le attività militari del movimento e le interferenze negli affari interni della RDC.
Dalla caduta di Mobutu, Burundi, Rwanda ed Uganda, animati dal desiderio di accaparrarsi le risorse naturali congolesi, hanno fornito appoggio a gruppi ribelli che controllano miniere di oro, diamanti, coltan, cobalto, tungsteno ed altri metalli preziosi per procurarsi le risorse necessarie per sostenere la guerriglia e per arricchire i loro referenti politici, militari ed economici in Congo e all’estero.
In aggiunta allo sfruttamento di miniere e alla difesa di identità etniche e comunitarie, alcuni gruppi ribelli avrebbero anche l’obiettivo di conquista del potere politico. Se appare irrealistico prefigurare la nascita su scala nazionale di movimenti di liberazione del Congo dopo quello che portò alla caduta di Mobutu, non vanno sottovalutati i segnali in tal senso di matrice jihadista all’interno degli oltre cento gruppi ribelli operanti in dieci delle ventisei province della RDC, che sono state create dalla riforma amministrativa di tre anni fa per suddividere le nove province preesistenti in entità di minori dimensioni al fine di diluirne il retaggio etnico e favorire un più efficace controllo del territorio. La riforma non ha raggiunto finora gli obiettivi prefissati, contribuendo nel contempo ad aumentare la sfiducia e l’esasperazione nei confronti del governo centrale.
3. IL QUADRO REGIONALE
A livello regionale il Presidente uscente Kabila poteva teoricamente contare sugli Stati dell’Africa Centrale (Camerun, Gabon, Repubblica del Congo, Guinea Equatoriale e Repubblica Centroafricana), anch’essi alle prese con pressioni popolari, e su quelli della Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Australe (SADC). Tuttavia, i cambiamenti al vertice avvenuti in due Paesi della SADC di primaria importanza quali Angola e Sud Africa hanno impresso una nuova dinamica ai rapporti con la RDC, dominati in passato dalla convergenza di interessi economici pubblici e privati intorno allo sfruttamento delle risorse naturali. Kabila non ha così potuto contare ulteriormente sull’appoggio ricevuto in precedenza dall’angolano Dos Santos e dal sudafricano Zuma, e la sua posizione si è indebolita al punto da non essere più considerato l’interlocutore che era in passato.
Alquanto incerti e complessi rimanevano poi i rapporti con i restanti Paesi dei Grandi Laghi. Negli anni Novanta Rwanda ed Uganda erano stati prima alleati e poi nemici di Laurent Kabila, padre di Joseph e capo del Movimento di Liberazione del Congo. Laurent Kabila era giunto in rapida successione a sconfiggere Mobutu, a prendere il potere a Kinshasa con il sostegno di Kagame e Museveni, a rompere con loro accusandoli di puntare ad accaparrarsi le risorse naturali congolesi e a scatenare un lungo e sanguinoso conflitto armato con il coinvolgimento di dodici Paesi africani, pagando infine con la vita per mano di una sua guardia del corpo. Dopo la fine delle ostilità e l’uscita degli eserciti stranieri dal Paese nel 2002, promosse dalla comunità internazionale, le attività dei gruppi ribelli operanti all’Est congolese hanno fatto riaffiorare forti tensioni tra Burundi, Rwanda, RDC ed Uganda.
Gli amici-nemici di una volta sono divenuti vicini poco affidabili, propensi ad interferire a proprio vantaggio negli affari interni di Paesi confinanti tramite il sostegno diretto o indiretto a milizie ribelli.
Il potere di Joseph Kabila ne è uscito logorato ed a poco sono valsi finora i tentativi per contrastare i gruppi ribelli anche con l’ausilio della missione di pace onusiana, stante la convergenza di interessi economici con referenti politici e militari a Kinshasa e nelle capitali vicine.
Sul protrarsi delle ribellioni ha influito anche la limitata incisività dell’Unione Africana, impegnata in tentativi di riforma interna e non in grado di svolgere un ruolo di primo piano nei Grandi Laghi, perché indebolita al suo interno dalle stesse dinamiche e contraddizioni esistenti nei Paesi nei quali dovrebbe favorire i processi di pace e di sicurezza.
Non a caso Kagame, in qualità di presidente di turno dell’Unione Africana, aveva tentato inutilmente in passato di convincere i Paesi membri a contribuire con proprie risorse al rilancio dell’UA e a ridurne la notevole dipendenza finanziaria dall’Unione Europea.
A livello regionale un ruolo propulsore della pace e dello sviluppo potrà essere svolto dalla cooperazione transfrontaliera, che è in grado di contribuire a mettere la porosità delle frontiere al servizio dell’apertura dei mercati e non dei traffici illegali di persone, armi e merci patrocinati dai gruppi ribelli aventi come epicentro la parte orientale della RDC, con le sue vaste risorse minerarie.
Per imprimere una nuova dinamica alla regione occorre in primo luogo la volontà politica dei suoi governanti di contrastare a fondo le attività dei gruppi ribelli e di mettere in sicurezza le aree transfrontaliere per consentire quella libera e pacifica circolazione delle persone, delle merci e dei servizi già vagheggiata dalla Comunità Economica dei Paesi dei Grandi Laghi (CEPGL), creata negli anni Ottanta ai tempi di Mobutu da Burundi, ex Zaire e Rwanda.
Pur avendo sospeso le attività per le note vicende belliche, la Comunità non è stata mai disciolta. Essa va dunque riattivata ed estesa a Kenya, Tanzania ed Uganda per sfruttare gli sbocchi marittimi verso i Paesi asiatici e per creare un solido sostrato economico e sociale destinato a favorire gli scambi tra Africa Centrale e quella Orientale e la valorizzazione delle risorse naturali del bacino del Congo comprendenti, oltre alle miniere, vaste risorse idriche da destinare anche alla produzione di energia rinnovabile da impiegare a livello continentale,
Una comunità economica allargata dei Paesi dei Grandi Laghi potrà favorire la transizione da un’economia centrata in parte sullo sfruttamento illegale di materie prime ad una di cooperazione transfrontaliera fondata su estrazione, trasformazione e commercio legali delle stesse, con ricadute positive per l’intera regione.
A tal fine la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) e le positive esperienze africane - come il Comitato per la lotta contro la siccità nel Sahel (CILLS) e i programmi per la tutela delle risorse forestali ed idriche del bacino del fiume Congo - possono costituire modelli di gestione comunitaria effettuata nell’interesse di vari Paesi .
Per attenuare le tensioni nell’area, infine, occorre sostenere la successione pacifica e democratica al potere e il ricambio delle classi dirigenti per mettere in valore le vaste risorse umane e naturali che senza crescita democratica e buon governo rischiano di rimanere allo stato potenziale.
4. IL QUADRO INTERNAZIONALE
Il quadro internazionale poteva apparire in parte favorevole alle manovre dilatorie di Kabila e di altri governanti desiderosi di prolungare il proprio potere. La centralità della lotta al terrorismo islamico, i conflitti creati dalla caduta del regime libico e la crescita dei populismi nel mondo intero come reazione ai flussi migratori di massa sembravano aver in parte offuscato la capacità dell’Occidente di affermare i principi di democrazia, legalità e buon governo.
Da più parti si tendeva a privilegiare le esigenze di “stabilità” di un Paese piuttosto che contrastarne le spinte autoritarie, la corruzione e le violazioni dei diritti umani. Veniva logico allora domandarsi a che cosa servisse la stabilità laddove venivano calpestati i diritti politici e civili e le popolazioni continuavano a soffrire di guerre, miseria ed ingiustizie.
Per arginare le migrazioni di massa si richiamava la necessità di migliorare le condizioni dei Paesi di origine come se per oltre mezzo secolo non si fosse provato a farlo, seppur con un’ottica eurocentrica ed assistenziale, non sempre attenta alle esigenze di privilegiare la crescita democratica, lo sviluppo delle società civili e degli incubatori delle future classi dirigenti.
Qui l’analisi era spesso fuorviante, poiché si scambiavano erroneamente per cause (conflitti e miseria) quelli che invece erano gli effetti. Le cause primarie delle migrazioni sono i regimi autoritari, l’illegalità e l’impunità diffuse, la violazione sistematica dei diritti umani, la corruzione e l’assenza di alternanza democratica. Sono queste le maggiori cause che alimentano i conflitti interstatali e civili, le economie asfittiche e parassitarie, l’accaparramento illegale delle risorse disponibili e la povertà, dalle quali i migranti cercano di fuggire spostandosi nei paesi vicini o puntando verso quelli oltremare.
In tempi più recenti le manovre dilatorie di Kabila sono state invece sanzionate dalla comunità internazionale, resa meglio edotta anche dai moti popolari e dal conseguente rovesciamento di regimi autoritari. Le sanzioni ed il progressivo isolamento della RDC hanno così indotto i suoi governanti a cedere alle pressioni internazionali e a tenere le elezioni presidenziali e parlamentari, seppure con i limiti già illustrati quanto a trasparenza e credibilità del voto.
5. LE PROSPETTIVE FUTURE
Per essere efficaci e credibili, la cooperazione internazionale e gli aiuti allo sviluppo non possono prescindere dal rispetto dei principi di democrazia e di buon governo. Occorre pertanto appoggiare con profusione di risorse i governi virtuosi e ben incamminati verso il rispetto delle libertà politiche, civili ed economiche e sanzionare di converso quelli che intralciano ostinatamente l’avvento della pace, della democrazia e dello sviluppo.
Le sanzioni comminate da Unione Europea ed altri Paesi contro alte personalità congolesi, appartenenti alla più alte gerarchie politiche e militari, si sono dimostrate efficaci per invertire le spinte verso l’involuzione democratica e l’arretramento generale del Paese.
Anche se può essere prematuro tirare le somme di quanto accaduto, non è presto perché le organizzazioni internazionali e regionali e gli attori nazionali che hanno a cuore la democrazia, la legalità e il rispetto dei diritti umani nei Grandi Laghi, prevedano l’adozione di ulteriori misure per incoraggiare il buon governo e politiche a favore della crescita civile ed economica dei cittadini e per sanzionare le deviazioni dai principi universali sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite.
In tale contesto, regole e controlli più rigidi vanno introdotti ad ogni livello per monitorare in maniera efficace e capillare la tracciabilità delle importazioni di materie prime provenienti dai Paesi postconflitto come la RDC, al fine di evitare che lo sfruttamento e il commercio delle stesse alimentino l’anarchia, la violenza e la corruzione.
Occorre che l’Unione Africana difenda a voce alta i valori per i quali è stata creata, adottando anch’essa sanzioni nei confronti dei governanti e dei signori della guerra che ostacolano il ricambio democratico, i tentativi di pacificazione e lo sviluppo economico e sociale della regione.
Tali misure sono destinate ad aumentare la forza contrattuale dei mediatori di pace, a sostenere l’impegno delle società civili contro l’illegalità e le violazioni dei diritti umani e a favorire lo smantellamento dei sistemi di potere volti all’arricchimento personale.
Se esse non saranno prima o poi adottate, saranno gli stessi popoli a prendere in mano i propri destini e a far giungere la primavera anche sulle sponde dei Grandi Laghi africani, mettendo fine ad oltre mezzo secolo di regimi autocratici e portatori di immense sventure.
*già Ambasciatore d’Italia nella Repubblica Democratica del Congo