Articolo di Sebastiano Ceschi

Spazi collaborativi e inclusione della popolazione immigrata e rifugiata

Indicazioni dalla ricerca europea del Progetto RES-MOVE.

A partire dal fatto che gli spazi di coworking hanno assunto un ruolo sempre più rilevante sia nell’organizzazione del lavoro che nella costruzione di comunità locali e non di rado transnazionali, il progetto RES-MOVE, co-finanziato dal Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (AMIF), esplora e porta avanti la convinzione che questi spazi possano diventare ambienti di inclusione per le persone migranti. Una ricerca pluri-nazionale, coordinata dallo Slovenian Migration Institute (ZRC SAZU), ha coinvolto 11 diversi territori europei portando alla realizzazione di 200 interviste a migranti e personale dei co-working, con l’obiettivo di verificare il potenziale inclusivo di questi spazi di condivisione e collaborazione (CWCS). Due dei territori oggetto di indagine all’interno del Rapporto finale che mette insieme le diverse ricerche nazionali si trovano in Italia: a Roma, dove la ricognizione sul terreno è stata svolta dal CeSPI e da Refugees Welcome, e a Verona.

In generale i profili socio-professionali che frequentano maggiormente i coworking sono quelli di professionisti, lavoratori della conoscenza, creativi, freelancers di vario tipo e imprenditori, studenti. Anche se con diversità da contesto a contesto, la gran parte dei coworkers abituali sono residenti nativi istruiti o stranieri di paesi a medio-alto reddito e la popolazione migrante non è al momento una componente cospicua e centrale per la gran parte dei coworking. Ciò dipende sia da fattori connessi alle caratteristiche di molte comunità immigrate, sia alla organizzazione e posizionamento dei coworking.  

Le persone migranti coinvolte nella ricerca presentavano profili estremamente diversi per condizione giuridica, anzianità di permanenza, livello di istruzione, competenze professionali ed esperienze nel mercato del lavoro. Nonostante questa varietà molti degli ostacoli riscontrati dai migranti sono comuni a più paesi: difficoltà nel riconoscimento dei titoli di studio, canalizzazione verso tipologie di lavoro di basso livello, accesso limitato alla formazione, restrizioni legali all’occupazione, stereotipi culturali.

D’altra parte, se alcuni coworking non sono interessati ad intercettare queste fasce di popolazione, un’altra componente manca di contatti, opportunità e relazioni per entrarvi in contatto. Alcuni gestori di CWCS hanno ammesso di non sapere come coinvolgere i migranti o temevano che iniziative inclusive potessero allontanare altri utenti. Oppure non hanno personale con disponibilità di tempo e con competenze adatte per intraprendere ed organizzare iniziative in favore dell’inclusione professionale e sociale dei migranti, pur avendone il desiderio e considerandone i vantaggi.

In tal senso, se l’eterogeneità dei residenti immigrati e rifugiati e delle situazioni e attitudini dei CWCS evidenzia la necessità di offrire opportunità di sviluppo non standardizzate e capaci di adattarsi a esigenze differenti, emerge anche la richiesta di inserirsi all’interno di un quadro progettuale e di policy già esistente e strutturato, evitando di dover costruire autonomamente con il proprio sforzo un percorso di partecipazione dei migranti.

In questo senso, i casi o modelli “virtuosi” mostrati dalla ricerca sui diversi territori europei coinvolti confermano che i CWCS legati a ONG, enti locali o reti di economia sociale si sono dimostrati più aperti e strutturati nell’accogliere migranti. Offrono, oltre a scrivanie e connessione, servizi come sportelli legali, corsi di lingua, laboratori creativi e momenti di socialità. In molti casi, queste realtà sono inserite in una rete territoriale ampia, in dialogo con associazioni e istituzioni.

Alcuni delle persone migranti intervistate, d’altronde, hanno raccontato esperienze significative realizzate dentro e grazie ai coworking: c’è chi ha ricevuto formazione, informazioni e contatti, chi ha potuto incubare ed avviare una propria attività, chi ha trovato collaboratori, chi ha trovato un impiego per sé, per esempio formando altri utenti. A differenza di altri luoghi di lavoro, poi, il coworking viene percepito come uno spazio sicuramente più neutro da un punto di vista degli stereotipi, accogliente, dinamico è valorizzante. Un intervistato ha detto: “Qui non sono un rifugiato, sono un esperto digitale che contribuisce al gruppo”.

Un aspetto significativo emerso è quello della co-creazione. Non basta “aprire le porte”: l’inclusione passa dalla partecipazione. Le persone migranti vogliono contribuire, proporre idee, sentirsi parte di un progetto. Ciò implica una trasformazione nella governance degli spazi e delle attività, che dovrebbe adottare modelli partecipativi e trasparenti, coinvolgendo i migranti nelle decisioni e nell’organizzazione. Inoltre, viene espresso anche l’auspicio che personale straniero immigrato o rifugiati possa essere lavorativamente impiegato all’interno dei CWCS, contribuendo a rendere lo stesso management più multiculturale e variegato.    

Lo sguardo ai territori rurali che alcune indagini hanno fornito, ipotizza un ruolo importante dei CWCS, con l’aumento del lavoro da remoto, che i coworking in aree periferiche possono giocare nel favorire socialità, inclusione, dinamicità economica e professionale di questi luoghi, contribuendo a contrastarne il declino e lo spopolamento. Tuttavia, servono investimenti in infrastrutture digitali, trasporti locali e politiche contro l’isolamento, cosi come modelli di CWCS multifunzionali, come quelli recentemente attivati in alcune aree della Croazia e della Slovenia, che includono servizi sociali, formazione e supporto all’autoimpiego.

È chiaro che il punto chiave per sospingere realmente e cambiare passo alla dinamica di avvicinamento tra popolazione immigrata e coworking è quello di intraprendere politiche e innescare processi a livello locale, nazionale e transnazionale che proiettino questi spazi all’interno del quadro delle politiche di inclusione e coesione sociale e di integrazione delle minoranze, attraverso risorse dedicate e visioni a lungo termine.

Il rapporto suggerisce di includere i CWCS nelle politiche pubbliche per l’integrazione attraverso alcune raccomandazioni:

  • Sostenere i CWCS inclusivi attraverso bandi e finanziamenti dedicati.
  • Integrare questi spazi nella rete dei servizi per l’impiego, l’istruzione e l’orientamento.
  • Offrire formazione interculturale e linguistica agli operatori.
  • Promuovere partenariati pubblico-privati per l’innovazione sociale e l’imprenditoria migrante.
  • Supportare iniziative di coworking gestite direttamente da migranti o con il loro coinvolgimento nei processi decisionali.
  • Monitorare e valutare le pratiche inclusive con indicatori qualitativi e quantitativi.

In conclusione, i coworking possono diventare spazi al servizio dei processi di inclusione, complementando le politiche di integrazione con determinate opportunità e servizi e fornendo luoghi fisici dove la partecipazione e l’inserimento di immigrati e rifugiati si costruisce giorno dopo giorno. Luoghi in cui le persone migranti non sono ospiti, ma protagonisti di comunità vive, diverse e creative, contribuendo a costruire insieme conoscenza, relazioni e futuro.